Aldo Carotenuto, Milano, Bompiani, 1989 (Edizione inglese, The Call of the Daimon. The Trial and the Castle, Wilmette, Illinois, Chiron Publications, 1994)
Dal mondo del Processo a quello del Castello, Carotenuto percorre l’itinerario kafkiano, accompagnato dal procuratore Josef K., dall’agrimensore K., dal cane-indagatore o dall’insetto-Gregor. Introverso, solitario, affascinato e spaventato dal mondo della relazione, smarrito in una realtà labirintica, privo di un’identità definita, teso verso un inaccessibile e misterioso Altro, Kafka racchiude tra le righe della sua esistenza e della sua opera la chiave per comprendere molto dell’umano dolore. La sua lacerazione, i suoi dubbi, le sue inquietudini, la sua angoscia opprimente delineano un universo in cui la speranza, il richiamo del rinnovamento e della trasformazione arrivano troppo tardi, facendo dell’autore boemo il compagno segreto di molti individui. Tuttavia il viaggio deve essere tentato, benché la meta non venga mai raggiunta. Analizzando la storia di una difficile individuazione, la lettura di Carotenuto privilegia la ricerca di una segreta simmetria, poiché uno dei modi di far parlare un artista è quello di lasciar posto alle corrispondenze interiori che il suo messaggio evoca nell’anima.
Come Dostoevskij, Kafka ha profondamente influenzato il mio modo di pensare. Attraverso l’incontro con i loro personaggi ho scoperto delle parti di me stesso che fino a quel momento mi erano sconosciute. Dentro molti di noi c’è un Franz Kafka, un uomo solo che teme e ha bisogno dell’amore, mentre ricerca con tutte le sue forze i suoi orizzonti di verità.
Kafka è un autore sconcertante, unico, la cui scrittura non cerca il coinvolgimento del lettore attraverso l’evocazione dell’emozione, del sentimento. La sua è una prosa pura, limpida, essenziale, apparentemente fredda, staccata, che poco concede ai turbamenti dell’anima. C’è sempre un sottile argomentare. È un labirinto razionale quello in cui il personaggio vaga, in attesa di incontrare i suoi mostri. Il daimon sconosciuto prende allora mille forme per sorprendere l’ignaro protagonista. E il misterioso nemico della talpa, o il vicino che sta al di là della parete, è Odradek, è l’insetto in cui Gregor Samsa si ritrova trasformato, o ancora l’infinita gerarchia di giudici e funzionari che popolano “Il Processo” e “Il Castello”.
Il mio tentativo di rileggere con un’ottica psicologica due delle opere maggiori di Franz Kafka segue di quasi trent’anni la mia prima lettura di questi romanzi. Ogni volta che ci riaccostiamo a un testo che abbiamo amato, che ci ha insegnato qualcosa su noi stessi e sugli altri, l’impressione che ne riceviamo non è mai identica alla precedente. Tutto ciò che nel frattempo è accaduto nella nostra vita, contribuendo a mutare la nostra dimensione interiore, ci consente anche di scorgere nell’opera degli aspetti, dei significati che prima ci erano sfuggiti.
La lettura di un testo è sempre una sua reinvenzione, le cui immagini sono suggerite dai nuovi confini della nostra anima, da quegli spazi interiori ai quali nuove esperienze hanno dato forma. E se i nostri confini si sono allargati, toccando terre sconosciute nelle quali vive un mondo nuovo, allora quell’opera che da giovani aveva attratto la nostra curiosità e aveva almeno in parte risposto a domande forse troppo confuse, ora acquista un sapore diverso. In realtà essa ha sempre parlato quel linguaggio che soltanto adesso ci sembra così familiare e comprensibile.