Maigret e la tèchne analitica

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 47, Roma, Di Renzo Editore, 2000 – Estratto

Maigret fa il morto. Anche lo psicoanalista lo fa. E lo scrittore. E, soprattutto, chi sa l’amore. Dunque non il filosofo, ma il sapiente. Maigret non ama il sapere. E, allora, fa il morto. Lo fa con arte. Nel fare il morto, appunto, esprime la propria tèchne.

Gino Cervi nei panni del commissario Maigret

Gino Cervi nei panni di Maigret

Anche Maigret, non meno di Wordsworth o dell’analista, pratica una saggia passività. Qual è però l’effetto, la felicità di questa “wise passivity”? Che qualcosa, come scrive Wordsworth, venga da sé spontaneamente, che qualcosa si produca, esca dal nascondimento, entri nel setting, nell’inchiesta, nel libro e li permei. C’è una relazione tra la saggia passività e la tèchne, il venir fuori delle cose. In questo senso, propriamente, tèchne è produzione.

Praticando la sensazione avviene che Maigret entri nella sua trance. Anzi la trance viene fuori, emerge e incontra Maigret. La pratica della sensazione, così pervasivamente abbracciata da Maigret, attiva l’emersione della trance. Ed è quando la trance incontra Maigret, in altre parole quando Maigret lascia che la trance lo incontri, che l’inchiesta propriamente diventa setting.

Com’è possibile pensare che in mezzo a questa moltitudine di cose perennemente dialoganti nulla venga spontaneamente, nulla “of itself will come” stando al dettato di Wordsworth? Quello che la natura è per Wordsworth diventa per questa via l’inchiesta di Maigret o, anche, l’analisi. Wordsworth sogna la natura non diversamente da come Maigret sogna l’inchiesta o l’analista l’analisi. E’ lo stesso poeta romantico a stabilire i passi di questo sognare, che è fatto della stessa sostanza dell’immaginazione, della trance, del diventare altro, del passare attraverso identificazioni e disidentificazioni. Lo fa in quella breve poesia che inizia sulle ali di un’identificazione, appunto, con una nuvola, poesia che è conosciuta anche sotto il titolo, non suo, di Daffodils. “I gazed and gazed”, scrive Wordsworth. E connota con quel misterico movimento, “gaze”, uno sguardo che, fissando le cose, entra nelle cose e le diventa a misura d’uno svuotarsi.

Questo svuotarsi, questo darsi una morte, questo fare il morto avviene nel passaggio da un “gaze” all’altro. Perché in quel passaggio qualcosa, che porta il nome di Io, viene meno alla sua centralità, sviene ad essa lasciando che altri centri entrino nel vuoto che il suo morire genera. In quel luogo mediano nel quale l’Io sviene alla sua centralità, entra la trance, genera realtà l’attenzione ugualmente fluttuante, feconda il vuoto l’immaginazione attiva. E’ lo stesso luogo che chiamiamo analisi e, anche, setting, “témenos”. Lo stesso a partire dal quale Maigret non lascia mai la presa sull’inchiesta, anch’essa assurta in questo modo a teatro di cose perennemente dialoganti.

Di cose perennemente dialoganti parla Wordsworth. Se sono perennemente dialoganti, ciò non accade soltanto in virtù del loro effettivo esserlo. Se sono perennemente dialoganti, ciò accade anche in forza d’un lasciar loro la loro eternità. Sempre in “Daffodils” il padre del romanticismo inglese parla del suo “vacant e pensive mood”. Del suo modo di essere vuoto e come sospeso.

Quel “pensive” vale certo l’attenzione egualmente fluttuante di Freud e, anzi, a suo modo, sotterraneamente, la prepara. E quel “vacant” è un modo, ancora una volta, del fare il morto. Per chi fa il morto qualcosa “of itself will come”. Lo stesso avrebbe sostenuto Freud nel rispondere a chi gli poneva la questione terminologica: perché analisi e non sintesi, perché psicoanalisi e non psicosintesi? Perché, risponde Freud, se si fa analisi, la sintesi viene da sé, “of itself will come”.

L’analisi fa l’analisi. Per l’analista si tratta di lasciare che l’analisi faccia l’analisi. Questa è anche la pazienza di cui parla Bion. L’erede analitico della capacità negativa di Keats. Saggia passività. Non diversamente opera Maigret. Lascia che l’inchiesta faccia l’inchiesta.

La saggia passività implica la fiducia nella possibilità che si diano quelle che Freud chiamava le costruzioni in analisi. La trance stessa, questo veicolo di saggia passività, significa la fiducia nelle costruzioni. E del resto Ferenczi, che faceva trance con i suoi pazienti, l’ha definita uno stato di sonno durante il quale permane la possibilità di comunicare con una persona fidata. Se la trance attira trance, allora questo modo del “Mitsein”, d’un costitutivo essere con fondato, nella lingua di Heidegger, sulla “Fürsorge”, sull’aver cura per l’altro, assimila di nuovo l’inchiesta à la Maigret al setting analitico.

Un altro esempio, fecondo, di emersione costellata dalla saggia passività riguarda la colpa. Se c’è saggia passività, se c’è qualcuno che fa il morto, allora la colpa verrà fuori da sé, “of itself will come”. La colpa vuole trovare un ascoltatore. Theodor Reik ha parlato di spinta inconscia all’autotradimento.

La tesi è che l’uomo che commette un crimine senza testimoni appare come obbligato a condividere questa sua conoscenza, come se fosse incapace di mantenerla per se stesso a causa della tensione che lo spinge a tradirla, e ciò anche a costo di scontare la pena capitale. L’idea di fondo, derivata da Freud, è quella secondo cui sarebbe impossibile nascondere un segreto. E tuttavia quel segreto impossibile da mantenere deve manifestarsi e, per farlo, ha bisogno d’un incontro reale. Ha bisogno del “verstehen”, come direbbe Kracauer, e non dell'”erklären”.

Maigret si pone come ideale interlocutore di quella spinta. La spinta va costellata, ovviamente, attivata, posta in essere. E perché ciò avvenga occorrono alcune mosse preliminari. Movimenti dell’anima. Occorre tèchne. Occorre la saggia passività. Occorre che qualcuno, Maigret, l’analista, lo scrittore, il filosofo o, meglio, il filosòfo, faccia il morto perché possa incontrare la morte di un altro. E occorre che faccia il morto perché un altro emerga con il proprio tradimento e la propria colpa.

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Giorgio Antonelli