in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 8, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2009 – Estratto
L’artista russo Kandinskij, creatore della pittura astratta, esprime nelle sue opere lo strettissimo legame che riesce a intravedere tra l’opera d’arte e la dimensione spirituale. L’arte, per questo suo autorevole rappresentante, “oltrepassa i limiti nei quali il tempo vorrebbe comprimerla, e indica il contenuto del futuro”. Il colore, per Kandinskj, può avere due possibili effetti sullo spettatore: un effetto fisico, superficiale, basato sulla percezione sensoriale e un effetto psichico dovuto alla vibrazione spirituale attraverso cui il colore raggiunge l’anima: il colore “ha un odore, un sapore, un suono”. Il rosso, per esempio, esprime dolore, ma non tanto per un’associazione di idee (il colore del sangue), quanto per le sue intrinseche caratteristiche, per il suo “suono interiore”. Kandinskij per spiegare l’effetto del colore sull’anima utilizza una metafora musicale: il colore è il tasto, l’occhio è il martelletto, l’anima è un pianoforte di infinite corde. La composizione di un quadro, secondo l’artista russo, non deve rispondere ad esigenze puramente estetiche ed esteriori, piuttosto deve essere coerente con una profonda necessità interiore, che l’autore chiama onestà. Il bello non è quindi ciò che risponde a canoni estetici ordinari e prestabiliti. Il bello è ciò che risponde a ciò che l’artista sente e vive come una necessità interiore.
Necessità interiore che in fondo all’anima appartiene a tutti noi in quanto, secondo Carotenuto, siamo tutti potenzialmente “artisti”. Ed è proprio attraverso la sofferenza che ci costringe a porci domande alle quali non possiamo rispondere se non ponendoci altre domande, che siamo in un certo senso “chiamati” all’auto-espressione ed all’evoluzione. Chiamati da “qualcosa” che sembra aver luogo altrove, fuori di noi, qualcosa che “feconda la nostra anima” e ci rende appunto “creativi”. Per Carotenuto come per Meister Eckhart creare significa dedicarsi alla dimensione sacra dell’esistenza: “la creatività è una scintilla del divino che dimora nella nostra interiorità”. (Carotenuto, 1991). Una scintilla che dimora in quel luogo di alterità, quell’aldilà dentro di noi che Rudolf Otto definisce “numinoso”, un luogo più reale della realtà stessa, un luogo futuro, presente nel presente, che usiamo chiamare sacro. Tutta l’arte in questo senso diviene arte-sacra, così come sacro è anche il temenos, lo spazio della terapia.
Dinanzi ad un’opera d’arte o all’ingresso di un luogo sacro, come per esempio un santuario in uso da secoli, molte persone fanno un’esperienza soggettiva comune: provano sentimenti di pace interiore e armonia quasi palpabili, rispetto reverenziale, timori e tremori come se l’aria che si respira in questi luoghi fosse stata impregnata oltre che della bellezza artistica, anche da tutte le proiezioni, emozioni, intenzioni, preghiere e significati che sono stati riversati da generazioni di visitatori che ne hanno calpestato il suolo, contemplato la bellezza, e “respirato” l’atmosfera.
Abstract
Dinanzi ad un’‘opera d’arte o all’ingresso di un luogo sacro, come per esempio un santuario in uso da secoli, molte persone fanno un’esperienza soggettiva comune: provano sentimenti di pace interiore e armonia quasi palpabili, rispetto reverenziale, timori e tremori come se l’aria che si respira in questi luoghi fosse stata impregnata oltre che della bellezza artistica anche da tutte le proiezioni, emozioni, intenzioni, preghiere e significati che sono stati riversati da generazioni di visitatori che ne hanno calpestato il suolo, contemplato la bellezza, e “respirato” quell’atmosfera. Ma ciò che incanta allo stesso tempo sconvolge, estranea, scuote l’anima nelle fondamenta, spiazza. Difficilmente si osserva un capolavoro rimanendo gli stessi di sempre, distaccati e indifferenti. Qualcosa accade: inquietudine, panico, terrore, oppure sentimenti di unità, di espansione di sé, che favoriscono l’accesso ad un sorgente interiore di forza vitale. Nel bene o nel male, qualcosa accade. L’emozione e la gioia che scaturiscono dalla contemplazione della bellezza ci riconducono ad una dimensione estatica di espansione e perdita dei confini, a quella dimensione del piacere, unione e fascinazione dell’originaria fusione con la Madre-Natura che affonda le radici nella esperienza prenatale. Questo sentimento di completezza che appartiene ai territori sconfinati della esperienza intra-uterina trae la sua origine in quel passato remoto mai del tutto cancellato: quando eravamo Tutto e non c’era mancanza dalla quale nascere un qualsiasi desiderio. L’esperienza estetica offre un spazio intermedio nel quale ritualizzare la nostra fame di completezza, la nostalgia di quel luogo dell’anima pervaso di Piacere, Bellezza e Armonia, L’estasi paradisiaca, la fusione con il corpo materno. Infatti più l’opera d’arte è famosa, conosciuta da tutti, più assorbe per generazioni le proiezioni dei nostri desideri, aspirazioni, esaltazioni, divenendo simboli viventi e contenitori delle divinità che dall’inconscio collettivo tendono ad emergere e chiedono di essere accolte. Dinanzi all’incanto e alla bellezza di un luogo o di un’opera tramandataci da secoli, non possiamo esimerci di prendere contatto con l’altra realtà soggiacente alla nostra realtà consensuale, di ascoltare le sue richieste, e aprire la porta alle sue divinità, ai suoi simboli e archetipi.