Il tempo della madre: aspetti dissonanti dell’agire materno

Giornale Storico del Centro Studi Psicologia e Letteratura, 14, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012.

L’essere femminile prende atto molto presto dell’elemento distintivo che sopra ad ogni cosa caratterizza la sua esperienza, ovvero la possibilità di diventare madre garantendo l’evoluzione della specie umana, in linea con quanto previsto dalle dinamiche del mondo animale, tuttavia la psiche non può di certo rimanere estranea ad un compito così straordinario, coinvolgente, in grado di connettere l’essere umano con l’onnipotenza di una divinità.

È possibile che proprio la pienezza fisica e psicologica rappresentata dalla gravidanza abbia promosso nella donna una totale e rassicurante identificazione con l’Eros materno, lasciando al maschile i poteri del Logos, principio formativo della coscienza e della storia. Simone de Beauvoir a questo proposito ci ha lasciato un interessante punto di vista sostenendo che: Non è nel dare la vita ma nel rischiare la vita che gli esseri umani sono superiori agli animali; questo è il motivo per il quale nell’umanità la superiorità è stata data non al sesso che porta avanti, ma a quello che uccide.

La donna si è identificata con l’archetipo della Grande Madre instaurando con il mondo un atteggiamento appagante e generoso e di conseguenza eliminando qualsiasi espressione personale che non fosse la risposta al bisogno dell’Altro. In questo senso l’affermazione di sé e la creatività – che appartengono indiscriminatamente all’uomo e alla donna – sono contrarie al mandato materno e la donna deve difendersene esasperando il suo stesso ruolo di madre.

L’uomo dal canto suo non potendo identificarsi con la madre continua a demandare alla donna la capacità ed il potere di appagare i suoi bisogni e di riempire, a proprio arbitrio, il suo vuoto di affetti, rischiando tuttavia di scadere a oggetto del potere materno. Esso allora, per difendersi dal suo stesso desiderio di passività dipendente, ipertrofizza il modello di comportamento paterno.

La dominanza della figura materna, quindi, fa sì che l’individuo, non raggiungendo mai la capacità di essere consapevolmente autonomo, affidi ad altri il compito di governarlo, il che lo costringe ad accettare i ruoli a lui demandati dalla società tramite le figure parentali.

Uomo e donna, seguendo l’imprinting originario della madre che nutre e del bambino che viene accudito, si sono evoluti conservando tra di loro una relazione asimmetrica basata sull’interdipendenza simbiotica dei bisogni, che si esprime, culturalmente e politicamente, attraverso rapporti sociali fondati sul reciproco asservimento.

La madre è matrice del mondo e della conoscenza (non a caso nella Bibbia il serpente – agente della conoscenza – riesce a suscitare proprio nella donna il desiderio di assaporare la conoscenza suprema) e queste due caratteristiche gettano il femminile nel più estremo degli archetipi: essere una divinità mortale.

Alla donna-madre vengono riconosciute qualità ultraterrene: in lei avviene il mistero della vita, ha vocazioni profetiche (una madre sa cos’è meglio per suo figlio!), la sua abnegazione non ha confini; insomma la madre è un surrogato di Dio che, in quanto tale, ha potere di vita, ma anche di morte sulle sue creature (colei che lo genera, colei che lo accompagna e colei che lo annienta, la morte).

Il suo lato distruttivo e mortifero è stato oggetto di rimozione e negazione a livello sociale ed il risultato è l’identificazione rassicurante della madre reale come “santa, debole e oppressa dal maschile”, quindi amputata della sua Ombra.

Abstract

La violenza sulle donne è un tema tutt’altro che attuale, affonda le sue radici nella notte dei tempi. La donna “vittima”, offesa, violata, condizionata dall’Altro che, a sua volta, è venuto al mondo proprio grazie ad una donna. La madre è “il tempo” per eccellenza, scandisce gli aspetti evolutivi più importanti per il bambino e lo aiuta a dare senso e continuità all’esperienza. Quando il tempo della madre e quello del bambino diventano dissonanti, quest’ultimo si ritrova a vivere la difficoltà di entrare nella storia familiare ed esistenziale, che in alcuni casi può degenerare nella volontà di interrompere il tempo della vita attraverso l’uccisione, simbolica e/o reale.

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L'autore
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Benedetta Rinaldi
Psicologa e psicoterapeuta, è esperta in ipnosi clinica. Professore a contratto presso l’Università degli studi Guglielmo Marconi di Roma.