Etica, biopolitica e ontologia dell’abbandono

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, n. 17 “Abbandoni”, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013 – Estratto

di Giuseppe D’Acunto

1. Dono, perdono, abbandono

È singolare il fatto che chi, tra gli altri, in Italia, si è occupato del tema dell’abbandono sia stato un filosofo e un poeta insieme: Roberto Carifi. E lo abbia fatto tanto da filosofo, quanto da poeta, in due occasioni distinte11. Senza dimenticare, poi, che Carifi anche da traduttore di poesia ha operato una ricognizione nell’ambito in questione, tracciando una costellazione poetica dell’abbandono, i cui astri luminosi sarebbero dati, in particolare, dai nomi di Georg Trakl, Simone Weil, Rainer Maria Rilke2.
Sul filo dei diversi testi appena citati, vediamo, in sintesi, in che cosa si caratterizza la prospettiva critica da cui abbiamo deciso di prendere l’avvio. Carifi muove dalla diagnosi di Heidegger relativa alla nostra epoca di nichilismo compiuto: un’epoca in cui, proprio a causa del venir meno di ogni senso di dimora, per l’uomo si è fatto impossibile “abitare poeticamente il mondo”. Ma proprio come custodire un segreto «non significa affatto sottrarlo bensì manifestarlo»3, corrispondentemente, ciò che si ritira, in realtà, continua a perpetuarsi come traccia, consegnandosi al dominio di una riserva inesauribile che lo preserva e lo protegge. In termini heideggeriani, l’essere si dona, rimettendosi all’esserci, solo nella misura in cui lo abbandona: nella misura in cui, abbandonandolo e facendogli dono del suo stesso abbandono, gli concede di essere quel che è.
È abbandonandosi al dono di sé che l’essere cade in proprietà dell’uomo, ma vi cade in abbandono, abbandonandolo ed essendone abbandonato, in quella mancanza che lascia cadere l’uomo in proprietà dell’essere4.
L’abbandono diviene, così, la cifra tanto della disposizione speculativa che prova a pensare in modo non tradizionale l’essere, quanto di quella condizione epocale che corrisponde all’occultarsi stesso di esso nell’ente. Per cui, è allo sguardo del poeta e del pensatore che è consegnato il compito di riconoscere, in quello stato di abbandono nel cui segno si dà a noi il nichilismo, sia il gesto del perdono, sia «la traccia originaria e aurorale del dono»5. E del poeta e del pensatore perché solo ad essi si addice quella postura che, lasciando-essere le cose per far sì che possano sorgivamente apparire, restituisce loro il profilo puro di eventi6.

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