Buto, la danza delle tenebre

Pubblicato originariamente su: http://www.psychomedia.it/pm/grpind/magscia/salles1.htm

Da alcune fonti risulta che Il buto inizia in Giappone dopo Hiroshima, dopo una esperienza collettiva di distruzione e morte, in una cultura da secoli codificata, che sembra esplodere anch’essa, insieme alla bomba. Il buto sembra quindi essere nato dopo una catastrofe, come un grido di ribellione contro quella cultura troppo rigida e strutturata che l’ha generata. Un grido che cresce con la forza di uno scandalo, si impregna di rivendicazioni e si confonde con i movimenti di protesta giovanile ma viene riconosciuto ufficialmente soltanto nel 1985, con il primo Festival Buto di Tokyo.
Assistere ad uno spettacolo di buto significa esporsi ad una esperienza molto particolare, è come squarciare il velo della realtà quotidiana, ordinaria, per guardarci dentro. Fu definito dalla critica “un inquietante tuffo nelle metamorfosi e negli interrogativi del corpo umano, fino alle radici dell’angoscia”.
Le caratteristiche di questa danza, descritta da Maria Pia D’Orazi come “una danza oscura e silenziosa, popolata di fantasmi, scossa da un brivido di morte e ispirata a un concetto di armonia che comprende anche la dissonanza”,(1) espone senza pudore l’oscenità, l’umorismo, il grottesco dentro l’uomo, cosi come il legame con la natura e la presenza di divinità, demoni e spiriti dell’altro mondo e ci ricorda spettacoli magici o religiosi, una danza primordiale.
Il buto esprime il bisogno della cultura giapponese di rompere i suoi stessi argini e di uscire da secoli di “compressione”. E’ la protesta contro la cultura borghese dominante, attraverso il totale rifiuto delle tecniche esistenti e della riduzione del corpo a strumento espressivo. Ma è nello stesso tempo l’affermarsi di una nuova filosofia del corpo che cerca la terra e il contatto col il suolo come la propria essenza e per la prima volta riflette attraverso la danza un aspetto oscuro dell’esistenza.
Il mondo procede verso una globalizzazione della cultura ed è il corpo il luogo meno suscettibile di omogeneizzazione. E il buto è l’estrema manifestazione di quello spazio fisico, il corpo, grazia al quale l’uomo fa ancora parte della vita e della natura; lì sono iscritti i segni che caratterizzano ogni individuo: la sua appartenenza ad un luogo, la sua origine etnica e sociale, le sue esperienze di vita, ma sopratutto secondo A. Lowen “è il corpo, il luogo dell’anima”, come affermava già l’antica saggezza: il corpo è il “tempio dell’anima”
Dice ancora Lowen: “Un uomo può credere di possedere la sua mente ma non possiede mai del tutto il suo corpo. Nel corpo ci sono processi che la mente non riesce mai a comprendere o a controllare: il battito del cuore, l’insorgere di una sensazione, il bisogno di amore. E siccome la mente non riesce a controllare completamente il corpo, lo teme, perché appartiene alle forze sconosciute della natura”.(2)
Diversamente della danza tradizionale, che è un mezzo per comunicare qualcosa già stabilita in precedenza, nel buto, la danza si trova già all’interno del corpo, cosi come Michelangelo sosteneva che l’immagine si trovava già dentro alla pietra. Sia l’immagine dentro la pietra che la danza dentro al corpo appartengono a quella memoria individuale e collettiva, accumulata nel corso del tempo e che riguarda non soltanto gli esseri umani ma anche gli animali oppure gli oggetti. Il danzatore, rinunciando a presentarsi sulla scena come veicolo di un messaggio, lascia apparire questa memoria esibendo semplicemente il suo corpo come presenza. Il primo passo in direzione del buto è quindi la “rinuncia a esprimere”. Non volendo esprimere nulla, il danzatore si trasforma nel palco scenico in un “corpo morto” che esiste sulla scena come elemento naturale, una sorta di materia che non avendo alcuna volontà espressiva, fa ascoltare la sua voce segreta, e rivela la sua esistenza lasciando trasparire la memoria. Affinché questo processo si verifichi, il danzatore deve vivere il presente, essere consapevole del proprio spazio interno e esterno, ma soprattutto, non pensare. Kazuo Ono, il grande “padre” del buto, che tra l’altro danza ancora con i suoi 97 anni, afferma che “non bisogna usare troppo la testa. Per amare la vita, ci si deve concentrare fondamentalmente su stomaco e intestino.”
Il buto nasce sulla scia di autori come Sade, Nietzsche, Artaud, che in occidenti hanno fatto vacillare il mondo ordinato e prevedibile della ragione per sostituirlo con il caos primordiale fatto di violenza, erotismo, solitudine estrema e impulsi distruttivi. Il buto è il sottosuolo del Giappone e contiene la sua ombra gigantesca, ma è contemporaneamente una critica e una sfida alla società materialista che lo ha generato. In un certo senso il buto è un altro miracolo giapponese: è l’antitesi e antidoto del miracolo economico ed è il suo totale rifiuto dei valori di quel materialismo. La danza delle tenebre evoca ciò che ancora non “è”, che ancora non esiste ma potrebbe nascere da una vita che ancora pulsa dentro di noi. Sprigiona e trasforma energie, libera le nostre potenzialità contenute nelle insondabili profondità dell’inconscio collettivo, restituisce all’uomo la sua istintualità e la sua forza primitiva, che vive ancora nell’amore, nel desiderio, ma anche nel delitto, nella crudeltà, nella pazzia.
Attraverso l’erotismo e la violenza, Hijikata, il fondatore del buto, scardinava le abitudini che regolano la nostra percezione del corpo all’interno dello stretto, angusto spazio della vita quotidiana e apriva la danza all’esplorazione di un universo oscuro, ricco di possibilità conoscitive, dove danzare vuol dire stabilire un contatto con il “totalmente altro” e confrontarsi con il mistero dell’esistenza.
I corpi mostrati in tutta la loro “nuda umanità” portavano in scena i volti del dolore e della paura, il logorio del desiderio, il ghigno della crudeltà, il decadimento della vecchiaia. Hijikata letteralmente lanciava parole ai danzatori e i danzatori raccoglievano quello stimolo per danzarlo: una donna diventa cavallo, lumaca, fantasma…
“Una ragazza cieca appare fuori da uno stagno e cammina sulle Ninfee di Monet… Danza la palude, il fango, l’acqua, gli steli delle ninfee che ondeggiano nell’acqua, gli odori, l’oscurità…Oppure un rametto, come un osso del cranio che si spezza…Uccelli stanno per volare fuori delle vostre tempie. Vermi strisciano, i vostri piedi calpestano i vermi. Le vostre guance sono contratte e le dita scattano. Un suono sibilante esce dalla vostra trachea. Senti un cucchiaio che cade davanti a te. Foglie morte cominciano a cadere dentro la tua testa. Cerchi di camminare ma la porta verso la piccola stanza nel tuo petto è chiusa a chiave. Una lumaca striscia sul tuo collo. Cavallette saltellano sui tuoi piedi. Nell’area appare una barba. Allora tu diventi il collo di un cavallo che si sta stirando. Piante di vite cominciano ad avviluppare il tuo corpo. Allora corri via dopo aver fatto una strana risata”.(3)(4)
Secondo Yukio Waguri, le espressioni usate del maestro Hijikata per “dare forma fisica alle immagini attraverso le parole” erano suddivise in sette aree principali: il mondo dell’abisso, dei fiori, di uccelli e animali, del muro, dell’anatomia, della neurologia, dei ponti bruciati.
Negli anni 60 il compositore Toru Takemitsu ha affermato che in musica anche il silenzio è un suono. Nell’arte figurativa Marcel Duchamp, Andy Warhol, Roy Lichtenstein trasformano immagini di oggetti prelevati della vita quotidiana o gli oggetti stessi in opere d’arte. Una simile trasformazione sembra sia avvenuta anche per la danza, dove l’immobilità ha cominciato ad essere considerata un movimento.
Nel buto il silenzio e l’immobilità sono densi e carichi di significato. Gli spettacoli sono caratterizzati da una fisicità cosi potente che cattura, arriva diritto ai nostri sensi. Da un certo punto di vista ci ricorda il teatro di Grotowski ed una visione dell’attore che trascende la propria coscienza ed agisce in un “stato di trance”: “il corpo svanisce, brucia e lo spettatore non vede che una serie di impulsi visibili”. 4
Ma nel buto, dietro alle immagini non ci sono simbolismi né significati reconditi, i danzatori nei loro corpi fin troppo umani portano in scena pure visioni dell’inconscio. A sostenere il movimento, nessuna regola né una grammatica gestuale, solo la forza del desiderio e dell’istinto e in questa metamorfosi del corpo c’è tutta la sua ribellione contro la violenza della cultura. Nelle parole di Maria Pia D’Orazi: “Il buto è il grido primordiale che annienta e vanifica ogni norma”.
Quando vidi per la prima volta un spettacolo di buto, il linguaggio e le espressioni del corpo, le sensazioni, i movimenti, tutto ciò che provai, mi fecero immediatamente venire in mente le esperienze del livello perinatale dell’inconscio che emergono durante gli stati non ordinari di coscienza, descritte da Stanislav Grof, con i quali ho particolare dimestichezza. Infatti, secondo Kazuo Ono il luogo di origine del buto è il ventre materno. Lì, nell’utero materno, l’embrione si muove in un mondo senza confini, un mondo illimitato, oceanico, un mondo che secondo Ono non è alla portata dei viventi.
Kazuo Ono, considera l’utero, all’interno delle viscere, un luogo dove non si distinguono vita e morte. Il bambino nel ventre materno è “pura presenza”, in quanto il ventre materno è secondo Ono “un mondo di morte diverso del mondo dopo la morte”. Ono qui si riferisce alla morte non solo come ad una condizione biologica ma anche uno stato di coscienza. Nella sua visione l’utero e l’universo finiscono per identificarsi (il cosmo viene visto come un grande utero). Nelle sue parole: “l’anima che è dentro di me indossa il cosmo ed io ho la sensazione di essere coperto da questo cosmo. Indossare l’universo è il modo migliore per danzare il buto”.
Psicologicamente il tempo del buto è il tempo che l’ego prende per disperdersi nell’area, è il tempo in cui scompaiono le caratteristiche individuali, il tempo che serve al corpo corazzato per cancellare se stesso. Nel teatro giapponese questo stato viene considerato “esperienza dello stato di muga”, quello stato di completa armonia con l’ambiente che nella pratica zen può portare all’azione perfetta. Come un maestro zen, il danzatore di buto è uno con le sue azioni e con il mondo. E’ profondamente se stesso e allo stesso tempo è privo di sé.
La trance e l’abbandono della coscienza sembrano essere il cuore pulsante del buto. In alcuni casi estremi si è parlato di digiuno nel buto, e in questo caso lo possiamo paragonare all’addestramento religioso o le pratiche ascetiche, che cercano di favorire l’abbandono della coscienza e la fusione con l’oggetto in un stato non ordinario di coscienza.
Nella cultura giapponese la trance non costituisce uno stato di “unità con il divino”, quanto un mezzo per addestrarsi alla perfezione, un stato attraverso il quale l’uomo impara ad agire in modo “univoco e infallibile”, in termini transpersonali questo significa agire al di la dei propri confini egoici, in funzione della totalità. Questo stato di virginità psicologica, che nella tradizione religiosa significa agire secondo il volere di Dio, è un azione “pura”, se per purezza intendiamo ciò che non è contaminato da desiderio personale.
Ancora oggi il buto viene definito dalle guide turistiche “un’arte sperimentale e d’avanguardia”, eventi poco noti, in luoghi di difficili accesso; i luoghi del buto sono piccoli teatri di periferia e gli artisti abbandonati a se stessi, senza alcuna sovvenzione economica, sono caratterizzati da un radicale anticonformismo.
Le affinità del buto con la ricerca teatrale lo ha portato in Europa e lo ha fatto entrare nell’allenamento dell’attore e del danzatore, dove viene utilizzato come un metodo per stimolare la creatività e per ampliare le potenzialità fisiche. Oggi le caratteristiche soggettive del buto e il suo training vengono indicati come strumenti di esplorazione e integrazione psicosomatica.
Da quanto detto sul buto, risulta facile un parallelo tra questa danza e il percorso conoscitivo di scoperta di se stessi che avviene quando si intraprende una psicoterapia. Ogni psicoterapia nella sua essenza ha lo scopo di stabilire un dialogo sempre più profondo con il nostro sentire, di dare spazio e ascolto ai messaggi che provengono dall’inconscio, dalle nostre parti “ombra” ed è di questo dialogo che si nutre ogni progresso terapeutico. Gli artisti che aspirano ad un maggiore contatto con lo spirito e con il proprio sentire hanno da sempre cercato attraverso l’espressione artistica, nei meandri della propria anima, se stessi, la propria unicità. Va da sé allora che la psicoterapia possa utilizzare l’arte nelle sue più varie espressioni, quale strumento atto a scandagliare l’inconscio, a muovere nell’intimo degli individui sentimenti, passioni, desideri e conflitti, inespresse potenzialità. Perciò l’utilizzo sempre crescente dell’arte in ambito terapeutico ha portato alla nascita delle moderne e più svariate scuole di Arte terapia.
La danza buto con il suo ripiegamento interiore, la sua estrema “introversione”, come definiva Jung questa attitudine alla ricerca ed esplorazione del mondo interiore, risulta in questo caso un mezzo terapeutico estremamente potente. Nel buto è il corpo con il suo linguaggio e il suo mistero a venire scandagliato, il corpo quindi quale via d’accesso all’inconscio, quel corpo che secondo Lowen “non possiamo comprendere né controllare”, perché, come l’inconscio, “appartiene alle forze sconosciute della natura” .
Attraverso il buto e la sua libertà espressiva che trascende lo stesso desiderio di espressione, il corpo può diventare uno spazio attraverso il quale possono venire attivati contenuti profondi ed acquisire così rinnovata forza quelle parti di sé sepolte nell’inconscio, altrimenti rimosse e abbandonate. Attraverso i movimenti e le espressioni che emergono quando “rinunciamo a esprimere” e contattiamo il nostro corpo in quanto elemento naturale, possiamo ascoltare e tradurre “la sua voce segreta” e fare emergere i contenuti della memoria corporea, sia individuale che collettiva. Quindi è non volendo esprimere nulla che il corpo fa ascoltare in una forma comprensibile ai nostri sensi, troppo abituati al chiasso quotidiano, la sua voce interiore e i sussulti dell’anima attraverso il suo dolore, il suo vuoto e i suoi “silenzi”, le sue tensioni e i suoi tremori carichi di angoscia, desideri calpestati e ricordi sopiti e funge così da catalizzatore di quel percorso di auto scoperta che sta alla base di ogni processo terapeutico.
L’angoscia profonda e viscerale che spesso si fa sentire durante alcune performance di buto, credo appartenga a tutti noi in questo momento storico, direi epocale. Ogni angoscia così come ogni emozione, anche la più terribile, soltanto quando viene liberata e vissuta fino in fondo, può trovare in piccolo spiraglio e trasformarsi, aprirsi a qualcos’altro, un nuovo modo di sentire e esprimersi nel mondo. Questo processo non riguarda solo il danzatore ma anche lo spettatore in una sorta di partecipazione mistica, una catarsi collettiva. Penso che sia proprio questo ampio respiro, questa dimensione collettiva del vissuto emotivo, l’aspetto “moderno” e allo stesso tempo antichissimo, il più terapeutico e trasformativo del buto.
Il buto è una via e una possibilità. E’ una porta aperta, una porta che una volta spinta fa uscire quello che c’e oltre. Dell’altra parte possiamo incontrare e possiamo danzare le nostre ferite, le nostre paure, i nostri dolori e forze anche ciò che ci può salvare. Come sostiene Kazuo Ono “bisogna danzare i nostri dolori”.

Note:
1 Maria Pia D’Orazi, Kazuo Ono, edizioni LEPOS, Palermo, 2001, p 19
2 Alexander Lowen, Il piacere, Astrolabio, Roma, 1984, p 54
3 Maria Pia D’Orazi, Kazuo Ono, LEPOS, Palermo, 2001, p 92
4 J. Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma, p 22,

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Virginia Salles