Nicolle Kress-Rosen, La passione di Sabina. Freud, Jung e Sabina Spielrein, 1994,
Milano, La Tartaruga, 1997.
La famigerata vicenda psicoanalitica a tre, portata alla luce da Carotenuto e recentemente rivisitata da Kerr, viene qui riesaminata alla luce della categoria «passione». La passione è un’esperienza che l’autrice definisce incontestabilmente femminile e che, allo stesso tempo, si oppone al trattamento analitico. La passione è l’inanalizzabile, è ciò che l’anima subisce e che non può dominare, è «forza folle e incontrollabile». Inanalizzabile, certo, perché legata all’atto. Sulle passioni, afferma Freud, i discorsi più elevati hanno scarsa efficacia. Cosa ritiene, Freud, impossibile controllare in un’analisi? Quelle «donne dalle passioni elementari che non ammettono surrogati: figlie della natura, che non accettano una realtà psichica in cambio di quella materiale». Del resto, per Freud, lo stesso innamoramento, prefigurando la psicosi, non appare suscettibile di rientrare nella teorizzazione della psicoanalisi «Tutta la storia della psicoanalisi», sostiene l’autrice, una psicoanalista di scuola lacaniana, «è attraversata da passioni, le cui origini vanno forse cercate nel rapporto passionale che Freud stesso aveva nei confronti della propria scoperta».
Ecco dunque la passione di Freud: la psicoanalisi, la paternità esclusiva, assoluta di questa figlia, assoluta al punto da «non poter considerare la differenza se non come tradimento». Passione esclusiva, passione che esclude, passione che lo portava a sacrificare ogni altro legame. Atteggiamento, questo di Freud, che si pone agli antipodi della passione femminile (ma, come vedremo, la passione è per eccellenza femminile) «disposta invece a sacrificare qualunque cosa all’amore dell’altro».
La passione di Freud (in base alla cui logica «niente è più desiderabile delle insegne falliche del potere») gli rendeva del tutto incomprensibile la passione di Jung. In altri termini, termini lacaniani, Freud non poteva cogliere il godimento di Jung. E qual era il godimento di Jung? Dove riparava la sua passione? Dalle parti dell’Altro. La passione di Jung è la passione dell’Altro. E questo Altro, l’Altro con cui Jung aveva una «comunicazione immediata», non si colloca sul versante paterno. «Non era il Dio della Legge» scrive Nicolle Kress-Rosen «E’ dalla parte della madre che Jung trovava la profondità e la potenza che, ai suoi occhi, faceva difetto al padre». Inevitabile, in tale contesto, la citazione del regno goethiano delle madri.
E Sabina? La passione di Sabina, ovviamente, si è nominata nella persona di Jung. E, tuttavia, in essa il gioco appare disperatamente intrecciato Da una parte è l’ignoranza di Jung sul transfert che spingerebbe Sabina verso la sua passione. E, in effetti, la forma in cui l’Altro appare nella passione è quella d’una voce «da cui il soggetto è appellato ad amare colui che già lo ama». Dall’altra questo movimento s’incrocia con quello del narcisismo femminile di Sabina in virtù del quale l’enunciato «io sono amata» corrisponde all’altro «io mi amo». Sabina non è in altri termini un soggetto desiderante, perché se lo fosse tenderebbe a un oggetto. Il passionale, viceversa, non tende a un oggetto, «ma instaura con l’Altro una relazione tale per cui, con la sua mediazione, può compiersi l’enunciato passivo io sono amato». Sabina è stata un soggetto passivo del proprio amore per Jung, mentre questi avrebbe svolto la funzione di «agente provocatore». L’ipotesi dell’autrice è che nella passione venga posto in atto il meccanismo della Verwerfung, ovvero il rifiuto della realtà. Gli assunti che precedono trovano la loro esplicitazione nella vicenda ultracommentata di Sigfrido, il bambino «immaginario» che Sabina voleva da Jung. In realtà se ci chiediamo perché Sigfrido avesse tanta importanza per Sabina, la questione si allontana inevitabilmente da Jung. E’ vero che Sabina ha sostenuto che l’amore per Jung l’ha portata al martirio, ma è anche vero che questo martirio va decostruito, come impone l’etimologia, a testimonianza. La testimonianza che Sabina ha voluto dare in modo disperato (con richiesta a Jung di farsene garante) «è proprio di non aver fallito in ciò a cui la chiamava la sua vocazione» Ma la vocazione non ha nulla a che vedere con un oggetto d’amore. In gioco non è più Jung, ma l’immagine ideale di Sabina. E’ di questa che Sabina vuole che venga riconosciuta la realtà. Non Jung, dunque, ma l’Io ideale di Sabina, la sua pretesa d’un destino eccezionale, Io ideale e destino eccezionale che si sarebbero dovuti incarnare in un «bambino divino», Sigfrido appunto. Ma qui sta appunto l’errore di Sabina. La cui ricerca nessun Sigfrido reale avrebbe potuto soddisfare. Per non parlare d’un figlio con Jung. Nessun figlio con Jung sarebbe mai potuto corrispondere a Sigfrido. Il bambino che Sabina invoca «poteva essere solo il figlio di un dio». (G.A.)