Questo libro ripercorre un lungo itinerario che inizia nel 1970 con la fondazione, ad opera di Carotenuto, di una rivista semestrale immediatamente destinata a sollevare un proficuo dibattito anche scientifico. In particolare la nuova rivista suscitò un confronto critico serrato all’interno di una scuola di psicologia del profondo che era rimasta, fino a quel momento, piuttosto chiusa, anche per la tenace quanto inspiegabile opposizione al dialogo e al confronto da parte di altre scuole di psicologia del profondo.
La Rivista di Psicologia Analitica induce ad una dialettica e a un confronto, talvolta anche aspro che vede schierati da una parte i sostenitori della cosiddetta ortodossia, impegnati a sostenere la specificità della dottrina junghiana a scapito del confronto con la realtà clinica e materiale della malattia mentale; dall’altra “i giovani” che, attraverso la rivista, propongono una rilettura dei testi di Jung che sia fedele allo spirito e non alla lettera del suo discorso, in una dimensione “laica” che implichi il confronto anche con altre teorie sul tema comune dell’approccio clinico.
Nella pubblicazione diversi articoli toccano il tema clinico e, ciò che li accomuna e dà loro un taglio originale, è la presenza di una costante riflessione critica non solo sul ‘caso’ ma anche e soprattutto sull’incidenza della personalità e del ruolo dell’analista nel processo analitico. E’ un luogo comune credere all’impossibilità o neutralità dell’analista. Se l’analista affermasse di essere neutrale o impassibile, probabilmente non si tratterebbe di un analista ma di un “commerciante in nevrosi”, egli ingannerebbe il suo paziente perché non esiste sviluppo psichico o cura d’anima senza un rischio e un coinvolgimento comune di coloro che si incontrano nella relazione analitica.
La riflessione teorica sull’incidenza dell’equazione personale dell’analista sul processo terapeutico si approfondisce di molto nel capitolo “Aggressività, sogni, destino”, resoconto di un tragico rapporto analitico, e sul versante teorico si fa provocatoria nel capitolo “La psicopatologia dell’analista”. Citiamo da pagina 185 del testo:
Ci siamo soffermati sul concetto di frattura dell’asse lo-Sé perché il procedimento analitico può essere considerato come un tentativo di risanare il danno subito. Mentre però, nella maggioranza dei casi, il risultato analitico si concretizza in un’effettiva riparazione di questo asse nel paziente, con le conseguenze che ogni terapeuta conosce (ritorno alla vita, all’amore, all’attività), è probabile, coerentemente con il nostro assunto, che l’analista malgrado la sua prolungata analisi, non riesca a saldare la frattura del suo asse per cui, spinto all’introspezione per il continuo disagio, sublima il dolore nell’attività analitica.
Un tale discorso, molto più articolato di quanto si possa accennare, pone necessariamente il rpoblema cruciale della formazione di nuovi analisti e dei criteri possibili.
Nel capitolo “Lettera a Honegger” questo problema viene affrontato con rigore logico fino ad arrivare alla conclusione della intrinseca contraddittorietà dei criteri del training analitico individuabili nelle diverse scuole di psicologia del profondo. Una puntuale esplicazione teorica dell’esperienza clinica è rintracciabile nel capitolo “Osservazioni su alcuni aspetti del transfert e del controtransfert”.
Il libro, inoltre, offre una verifica alle possibilità di applicazione dello strumento interpretativo junghiano a diversi fenomeni culturali, quali ad esempio le trasformazioni del rapporto di coppia e delle interazioni tra i sessi. Il volume raccoglie otto anni di lavoro teso verso la rielaborazione di alcuni concetti della teoria e della prassi analitica.