Estratto e adattato da Giorgio Antonelli, Il mare di Ferenczi. La storia, il pensiero, la vita di un maestro della psicoanalisi, Roma, Di Renzo Editore, 1996
Viene pubblicato, nel 1965, il volume di Harold Searles Scritti sulla schizofrenia in cui sono raccolti articoli e contributi redatti negli anni 1952-63. Nella sua prefazione Searles esordisce con l’affermazione seguente: “Ciascuno di questi miei saggi tenta di dimostrare, con la massima coscienziosità possibile, come ogni idea, da me ritenuta originale, possa situarsi esattamente nel mosaico della letteratura già esistente”. Segue un elenco di nomi ricorrenti nella raccolta, tra i quali figurano quelli di Bion, Balint, Paula Heimann, Margaret Little, Margaret Mahler, Marion Milner, Rosenfeld, Whitaker e Winnicott. Per quanto il nome di Ferenczi rimanga escluso dall’elenco, tale esclusione viene in qualche modo compensata dalla presenza di altri nomi illustri legati a quello di Ferenczi (Balint soprattutto). Ma l’affermazione di Searles si presta anche ad un altro commento. Si potrebbe dire che l’originalità di Ferenczi sia stata a tal punto assorbita in quella che io chiamo “koiné psicoanalitica” da rendere non più necessaria la menzione del nome. Ferenczi insomma ha scritto la psicoanalisi, ha fatto la psicoanalisi, è la psicoanalisi, ovvero il suo mare. Ad ogni modo due lavori di Ferenczi risultano citati nella raccolta di Searles: “Fasi evolutive del senso di realtà” (1913), testo cui ricorre anche Margaret Mahler (si tratta in realtà di uno dei più citati dello psicoanalista ungherese), e “Thalassa” (1924). Searles cita inoltre un articolo di Izette de Forest, la paziente e allieva di Ferenczi, e lavori di autori della scuola ungherese come René Spitz, Robert Bak, Vilma Kovács, Geza Róheim, oltre ai citati Balint e Mahler. I contributi di Ferenczi, che è uno dei primi studiosi della schizofrenia in ambito psicoanalitico, vertono sulla nozione di “regressione dello schizofrenico al livello evolutivo della prima infanzia”, fase nella quale si configura uno scarto tra il suo rudimentale Io e un mondo che si presenta troppo vasto da integrare, mondo che viene rappresentato attraverso il corpo. Tale questione rimanda direttamente a quella dei “confini dell’Io”, che costituì oggetto specifico dell’indagine di Ferenczi, oltre che di Federn, e dunque alla problematica della differenziazione, che Searles, molto à la Mahler, ma anche molto junghianamente, definisce “una delle condizioni fondamentali del processo globale di individuazione”.
Alla stregua di altri autori, e con grande anticipo su di loro, Searles riconosce a Ferenczi il merito di aver individuato nell’affermarsi dei confini dell’Io un presupposto dello sviluppo del pensiero metaforico. La questione dei “confini dell’Io” si ripropone poi nell’ambito del rapporto amoroso. Non solo Searles riporta l’idea ferencziana dell’orgasmo come esito della fusione dei vari erotismi, ma cita anche il brano, derivato da “Thalassa”, nel quale Ferenczi afferma che gli atti preparatori al coito hanno la funzione di eliminare i “confini dell’Io” dell’uno e dell’altro partner, in modo tale da attivare una identificazione reciproca. Tale abbandono dei confini, inoltre, richiama da vicino “la mancanza di confini dell’Io tra la madre e il suo piccolo durante la poppata”.
Fin qui arrivano le considerazioni mirate di Searles, per quanto riguarda Ferenczi. Ma si può anche andare oltre e ravvedere in questo o quell’assunto di Searles altrettante consonanze col pensare ferencziano. Si prenda, ad esempio, il contributo su L’amore edipico nella controtraslazione del 1959. L’elemento di condivisione mi sembra risiedere in particolare nella qualità delle comunicazioni che Searles fa ai suoi pazienti. L’assunto di partenza è l’effetto liberatorio esercitato sullo schizofrenico dal riconoscimento dei propri sentimenti da parte del terapeuta. E Searles ritiene che la risposta emotiva, se è tale e se è realmente suscitata nel terapeuta dal paziente, non deve preoccuparsi d’essere romantica, erotica, collerica o altro, dal momento che lo schizofrenico ha tremendamente bisogno di conferme, ha bisogno ad esempio d’essere confermato nella sua capacità di suscitare nel terapeuta risposte emotive. Si tratta, come si può arguire, di aspetti della terapia che Ferenczi ha affrontato nel Diario. E sembra quasi tratto dal Diario quel brano in cui Searles, che aveva fatto sogni romantico-erotici su una paziente, le comunica questi sentimenti. “E due o tre volte” continua Searles “ammisi francamente di sentirmi geloso, quando manifestava in modo tanto evidente la sua romantica preferenza per un mio collega” .
Un ulteriore aspetto di consonanza mi sembra quello della considerazione in positivo degli errori commessi dal terapeuta e della conseguente critica ai suoi impulsi perfezionistici, nonché al suo volersi mostrare onnisciente. Consonante con Ferenczi è anche l’assunto di Searles secondo cui la “simbiosi terapeutica”, ovvero la simbiosi nel rapporto tra paziente e terapeuta (e che anche Searles riconduce alla simbiosi sana tra madre e neonato) costituisce una fase necessaria nel trattamento degli psicotici e, anche, dei nevrotici. Tale assunto può essere riferito alla tecnica neocatartica di Ferenczi, così come il suo carattere di fase appare suscettibile di confronto con quanto Ferenczi teorizza in merito all’oscillazione dei ruoli paterno e materno dell’analista.
Una forte presenza di Ferenczi, nonostante il nome dello psicoanalista ungherese non sia citato neanche una volta, va rilevata inoltre nelle successive raccolte di scritti di Searles: Il controtransfert, del 1979, e Il paziente borderline, del 1986. Un culmine dell’equazione ferencziana di Searles (che in questi lavori non cita una sola volta il nome di Ferenczi) è rappresentato dalla sua concezione del paziente come terapeuta del suo analista che richiama abbastanza da vicino l’elaborazione ferencziana dell’analisi reciproca.
Consonante con le concezioni di Ferenczi mi sembra anche uno degli assunti che governano la concezione del paziente come terapeuta del suo analista, vale a dire quello che Searles chiama “l’impulso terapeutico del paziente a trasformare la madre in una vera madre”. La nozione di un bambino costretto a “diventare non un individuo veramente umano” e la cui “integrità dell’Io viene sacrificata, per tutta la vita e con devozione veramente totale, al tentativo di rendere compiuta l’incompiutezza dell’Io della figura materna” richiama da vicino la tematica del poppante saggio e, più in generale, la problematica della frammentazione sviluppata da Ferenczi in particolare nel Diario, oltre che nelle annotazioni degli ultimi anni.
La sezione finale del saggio di Searles sul paziente come terapeuta dell’analista è una rassegna della letteratura sull’argomento, nella quale, ripeto, non risulta menzionato alcun scritto di Ferenczi. Ciò è comprensibile alla luce del fatto che, al momento di redigerlo, Searles non può aver letto il Diario di Ferenczi, pubblicato dieci anni dopo. Ed è nel Diario che Ferenczi fa questione dell’analisi reciproca. È comunque interessante notare che Searles individui ne Il libro dell’Es di Groddeck il primo scritto in cui venga analizzato “in che modo il paziente funzioni da terapeuta per il medico”. Sappiamo d’altronde che Groddeck si colloca a una delle origini dell’analisi reciproca ferencziana.
Ad onta della mancata presenza di Ferenczi, comunque, numerose osservazioni, per limitarci al saggio di Searles del 1975, risultano consonanti con concezioni ferencziane espresse nei lavori pubblicati e anche nelle annotazioni e nei frammenti del 1930-32 apparsi, nel 1949, sull’International Journal of Psycho-Analysis e dunque in tempo utile per essere letti e metabolizzati. Un esempio di consonanza è da rinvenire nell’affermazione di Searles secondo cui una rigida ortodossia dello psicoanalista non gli consentirebbe di riconoscere gli elementi di realtà presenti nelle risposte transferali del paziente. Sul dato di realtà (e ancora consonando con Ferenczi) Searles insiste anche in seguito, là dove afferma che la posizione psicoanalitica tradizionale non permette di ritagliare spazi di certezze tecniche e teoriche nella misura in cui s’impone la sua componente delirante, la quale consiste “nel sostenere che l’analista non è affatto una persona reale per il paziente”. Anche sull’affermazione finale del saggio, sulla quale concludo questo del tutto provvisorio confronto tra Searles e Ferenczi, lo psicoanalista ungherese sarebbe stato d’accordo. Nella misura in cui la psicoanalisi classica è rigorosamente classica, scrive Searles “essa è essenzialmente frutto di delirio”.