Taormina 3 ottobre 2008 – Tratto da Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 7, Giovanni Fioriti Editore, Roma, ottobre 2008
Taormina 3 ottobre 2008 – di Enrico David Santori, Roma
Parlare di James Hillman non è mai cosa facile. Raccontare di un incontro con lui è impresa, se possibile, ancora più difficile. Le sue opere sono complesse, asistematiche, mercuriali in quanto ricche di continui spostamenti, di movimenti verticali verso l’alto e improvvise, profonde, cadute verso il basso. Ma questo spirito Puer abita un uomo di ottantadue anni che incarna splendidamente l’archetipo del Senex e in tempi come questi, così poveri di Padri, Hillman rappresenta uno degli ultimi veri Grandi Maestri. Per questi (e per altri) motivi nei giorni scorsi la sola idea di incontrarlo suscitava in me emozioni intense e contrastanti. Emozioni che si sono subito placate nel momento stesso in cui oggi, guardandomi negli occhi, James Hillman ha stretto la mia mano. È in quel istante che ho capito che Hillman, in realtà, non è solo un Maestro, è un Profeta. Gli comunico i miei pensieri, sorride, annuisce: “Nella nostra società siamo sempre così attenti al tempo che non comprendiamo bene la figura del profeta, perché ci aspettiamo che ci predica il futuro. In realtà il profeta è colui che ci dice ciò che è, non ciò che sarà, è colui che ci mette in contatto con il presente”. Grazie Maestro e grazie Luigi (Turinese) che hai fatto in modo che riuscissi ad incontrarlo per un caffè che, in effetti, non ha bevuto. Sono le quindici, il Profeta deve riposare. L’appuntamento è alle diciassette a palazzo Duchi di Santo Stefano, un luogo incantevole.
Hillman è a Taormina per presentare il suo ultimo libro, invitato dall’Istituto Mediterraneo di Psicologia Archetipica . L’incontro è una festa dove gli “Archetipici” celebrano, insieme, il loro amato Maestro. Il pomeriggio è diviso in due: una prima parte, la mitologia della psiche, dove quattro relatori dell’Istituto , colti, brillanti e (grande merito!) veloci pagano l’incolpevole responsabilità di separarci da colui che stiamo tutti aspettando e che è seduto lì nel mezzo, in silenzio, ad ascoltare. Arriva presto così la seconda parte, l’apparizione di Afrodite, dove Riccardo Mondo e Luigi Turinese introducono Hillman alla lettura di alcuni brani del suo libro prima di prestarsi alle domande della platea. Compito difficilissimo poiché, da Profeta, Hillman alle domande ha già risposto prima ancora che queste vengano formulate. L’incontro si chiude con un autentico pellegrinaggio per una copia autografata e una foto con il Maestro che, generoso, non si sottrae.
La giustizia di Afrodite è, come tutti i lavori di Hillman, un libricino prezioso, denso e intimamente complesso. Il perché l’autore lo spiega così: “Non semplificare, non spiegare Venere con una singola emozione, come il desiderio, con un’idea, come la bellezza, con una forza, come la natura. No. Complicatio: esporre il fenomeno in tutta la gamma della sua complessità. La complicatio è un metodo che rende la nostra comprensione di Afrodite più sottile, e al tempo stesso rende più intensi i suoi effetti, con-fondendo i molteplici percorsi di lettura in una singola, concentrata tensione”. Guai a semplificare, dunque, ci ammonisce Hillman, sia quando si tratta di Afrodite sia quando si tratta di Giustizia. Innumerevoli sono le intuizioni e le riflessioni che ogni pagina ci suggerisce, impossibile e inutile provare ad elencarle. Mi limito soltanto a riportare, in chiusura, due brani molto vicini all’Anima del nostro Centro Studi di Psicologia e Letteratura e, prima di andare a dormire con la gioia nel cuore e con il desiderio di incontrare ancora, nella notte, J. H. nel mondo Infero, invito tutti a leggere e a godere della Bellezza e della “Giustezza” de La giustizia di Afrodite.
“La lunga storia della filosofia cristianizzata ha separato l’etica dall’estetica, la Giustizia dalla Bellezza, così che generalmente non crediamo che si possa essere insieme buoni e belli, morali e attraenti; né che i piaceri dei sensi possano essere una via verso la verità. Un’opera d’arte e un romanzo possono essere raccomandabili per i loro ammaestramenti morali: è nella loro moralità che sta la loro bellezza. Ma la scissione cristiana non ammetterà mai che la moralità dell’opera stia proprio nella sua bellezza, per il fatto che la bellezza agisce come una voce che chiama a cose migliori, che spinge il cuore ad amare, la mente a immaginare più vividamente. Eppure, la moralità senza bellezza immiserisce il cuore e la mente. È noiosa. Banale. Non ci afferra, non evoca davvero la giustizia di cui si fa avvocata. Saul Bellow, premio Nobel per la letteratura, ha giustamente scritto: “La banalità è peggiore dell’oscenità. Un libro piatto è anche malvagio […] Può essere attraente e dolce come una torta, ma se è banale e noioso, è male puro”.
“Davvero, dov’è la Bellezza nella psicologia? Nelle sue teorie? Nella formazione degli psicoanalisti, nel linguaggio che parlano o scrivono? O nei vestiti che indossano? Il loro disprezzo per l’apparenza insulta Afrodite, restringendo l’idea di anima alla sola invisibile interiorità degli esseri umani. La psicologia esplora il cuore umano ignorando che il desiderio essenziale del cuore non è solo quello dell’amore, ma anche quello della bellezza”.