Tratto da Giorgio Antonelli, Origini del fare analisi, Liguori, Napoli, 2003
Non è necessario che gli psicologi diventino alla lettera artisti e poeti. Dobbiamo soltanto vedere e parlare come se lo fossimo . L’affermazione, resa da Hillman ad Ascona nel 1976, in occasione di una conferenza Eranos, si presta a numerose considerazioni e invita a riprendere in esame quella che potremmo chiamare l’equazione letteraria della psicologia, di ogni psicologia, sia essa psicoanalitica, analitica, archetipica, gestaltica, umanistica etc.
Le relazioni che legano, in particolare, la psicologia analitica alla letteratura, così come l’ha pensata il suo fondatore, non possono certo definirsi di filiazione. Le fonti della psicologia analitica sono, o almeno appaiono, tutt’altro che letterarie. E ciò si deve forse al fatto che, diversamente dal trascendentalista Emerson e da Hillman che ne segue la scia, Jung non ritiene che la bellezza sia il creatore dell’universo. Jung cita pochi scrittori, soprattutto di lingua tedesca (Silesio, Goethe) o anglosassone (è il caso, controverso, di Joyce), e mostra un insistito interesse per quella letteratura secondaria (la Lei di Haggard, ad esempio, o l’Atlantide di Benoît) che meglio gli sembra offrire il fianco all’indagine psicoprofonda. Come anche riteneva Lacan, insomma, c’è più inconscio, ci si mostra più inconscio, in uno scritto di second’ordine che in uno di qualità.
Va detto anche che, se Hillman sembra rimproverare a Jung la germanicità delle sue fonti (non soltanto letterarie), gli scrittori cui fa riferimento lo psicologo americano appartengono nella maggior parte dei casi all’area anglosassone (Blake, Coleridge, Keats, Eliot, Pound, Williams Carlos Williams, Wallace Stevens), con non moltissime né propriamente decisive eccezioni (Apuleio, Michelangelo).
Si manifesta qui un certo, peraltro prevedibile, scompenso nel dettato hillmaniano. A dispetto del suo rivendicare la meridionalità della psicologia archetipica (come sta anche a dimostrare il ricorso alle fonti platoniche e neoplatoniche, all’equazione platonica vigente nel rinascimento italiano, alla filosofia islamica nella ritraduzione operata da Corbin, a Vico), là dove si tratta di scrittori, e in particolare di poeti, è la lezione settentrionale che entra prepotentemente in gioco a partire soprattutto dai nordici per eccellenza, i romantici e, per giunta, i romantici inglesi (Blake, Coleridge, Keats). Settentrionale, del resto, come Hillman ha modo di rilevare, appare l’invenzione stessa del termine «psicologia». È settentrionale quell’entusiasmo (romantico) che, nella diacronia hillmaniana, ha rotto con l’età della ragione (illuminista) e al quale occorre ricondurre la psicologia.
Non è necessario che gli psicologi diventino alla lettera artisti e poeti. Dobbiamo soltanto vedere e parlare come se lo fossimo. Hillman non fa soltanto riferimento a scrittori singoli, ma anche a movimenti letterari. E’ il caso, menzionato, dei romantici, ed è il caso, più vicino nel tempo, dell’imagismo. Questa corrente, rappresentata tra gli altri da Ezra Pound, ha incrociato il primo emergere della psicoanalisi (un’altra sua rappresentante, Hilda Doolittle, è stata paziente di Freud) e lo ha incrociato su una tematica, quella del trattamento delle immagini (ovvero, di converso, dell’affinamento percettivo del poeta, di una educazione estetica che doveva tradursi in verso essenziale), sulla quale la psicoanalisi registrava già in partenza un certo ritardo (Freud non parla mai di immaginazione). Imagismo significa una particolare presa in cura delle immagini (espressione, quest’ultima, nella quale il genitivo va riguardato come oggettivo e soggettivo). La definizione poundiana di immagine, in particolare, viene intesa da Hillman quale equivalente di quella junghiana di complesso. Per il poeta dei Cantos è immagine ciò che presenta un complesso intellettuale e emozionale in un istante di tempo e, ancora, è più di un’idea, è un vortice (di qui la designazione dell’ulteriore scuola da lui fondata: Vorticismo). E’ un vortice di idee dotato di energia. Quando si tratta di immagine, dunque, è sempre in gioco la Wirklichkeit, un potere, un accadere.
Un altro illustre poeta americano, William Carlos Williams, passato dall’imagismo all’oggettivismo, sosteneva in A Note on Poetry, del 1937, che l’arte è necessariamente oggettiva, non declama e non spiega, semplicemente presenta. Il suo No ideas but in things riecheggia nel detto di un altro poeta americano citato da Hillman, Wallace Stevens, il quale ebbe a sostenere not ideas about the Thing but the Thing itself, non idee sulla Cosa, ma la Cosa stessa. Pronunciamento riconoscibilmente husserliano e, anche, heideggerriano. Poeta, filosofo dell’immaginazione, nella tradizione di Coleridge, Wallace Stevens costituisce un riferimento obbligato per Hillman. E’ del resto sull’asse disegnato da Whitman, Pound, Williams e Stevens che s’innesta molta della poesia americana e, in particolare, quella espressa dalla generazione cosiddetta beat, la generazione di Kerouac, di Ginsberg, di Corso, di Ferlinghetti. Ed è in una direzione analoga a quella imagista che si muove il concetto eliotiano di correlativo oggettivo, la cui influenza si è fatta anche sentire dalle parti di Montale.
La critica a Jung significa anche il transito, all’ombra di una riconosciuta, invocata, equazione letteraria, dalla psicologia analitica alla costruzione della psicologia archetipica. Un volto fondante della questione sembra tuttavia sfuggire a Hillman relativamente alla filiazione letteraria della psicologia archetipica, e qui mi riferisco più specificamente alla letteratura del ventesimo secolo, intesa a sua volta come derivazione dell’eonico pronunciamento di Hölderlin sugli dèi andati, i tre che sono uno, Ercole, Dioniso e Cristo, i tre che, lasciando il mondo, hanno fatto del nostro tempo un tempo di indigenza. A partire da questo pronunciamento a me sembra che il nuovo politeismo invocato a suo tempo da Hillman, insieme a David L. Miller, si collochi rispetto al politeismo della poesia, (e della letteratura come tale), in particolare novecentesca, in posizione di costitutiva, fisiologica, filologica retroguardia.
Nel frammento noto come Älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus, del 1795-96, Hölderlin, Hegel e Schelling assegnano alla poesia, appunto, il compito di preparare quello che anche tenta di dimorare e far dimorare lo psicologo del profondo, il regno della libertà, il regno dei dispiegamenti individuali, dei destini che si trasformano, s’incarnano in singolarità, quelli ai quali, stando alla (sedendo con la) mentalità antica, presiedevano i demoni. Hölderlin, Hegel e Schelling parlano di una religione del sensibile (sulla cui base si realizzerebbe il regno) caratterizzata da un monoteismo della ragione e del cuore e dal politeismo dell’immaginazione e dell’arte. Siamo alla fine del settecento. Il Romanticismo riscopre, ritrova, reinventa il politeismo dell’immaginazione e dell’arte. Quanto al politeismo del cuore e della ragione ci penserà la rivoluzione psicoanalitica. A unire i due politeismi dovrà provvedere, sulla scia di Jung (anche perché, come sappiamo, Freud non tematizza l’immaginazione), Hillman.
Potremmo asserire che il farsi della poesia, e quello dell’analisi, corrisponda a un tentativo di adunare dèi, condurli alla manifestazione, farli personare. «Co-adunation» scrive Coleridge riferendosi al farsi dell’immaginazione. Così non diremo soltanto, con Emerson (una fonte, come s’è visto, di Hillman e della psicologia archetipica), che i poeti sono dèi di liberazione, ma anche che lo sono perché liberano dèi. La letteratura è originariamente ed essenzialmente politeistica. Pronunciatamente teoepifanica, angelica appare in particolare la poesia novecentesca di Rilke, di Yeats, di Pound, di Kerouac, di Ferlinghetti, per non citare che alcuni. Il nuovo politeismo invocato da Hillman, insieme alla specifica cifra teoepifanica di molta letteratura del novecento, accompagna il farsi letterario a quello religioso. A quella sostituzione di duemila anni di cristianesimo cui già guardava Jung in una sua corrispondenza con Freud. Allora era la psicoanalisi ad assumere prospetticamente, profeticamente, agli occhi dello psicologo svizzero, il ruolo di grande, eonica sostitutrice. Ma alla sostituzione di duemila anni di cristianesimo avevano già pensato, prima di Jung, quei poeti romantici che, a partire da Blake, hanno lottato, agonizzato contro teologi, filosofi e critici neoclassici, contro un’immaginazione equiparata a memoria, per un’immaginazione in luogo di Dio.