Museo Laboratorio della Mente
Durata visita: circa 3 ore
Costi: 7 euro a persona, 5 euro per studenti
Per info: http://www.museodellamente.it/
Immerso nella natura e nella tranquillità del comprensorio di Santa Maria della Pietà, nel quartiere Monte Mario, all’interno del padiglione VI è stato inaugurato nel 2000 il Museo Laboratorio della Mente. Accolti dalla palpabile percezione di una lunga storia che traspira già dagli edifici che accolgono all’ingresso i visitatori, il breve percorso che porta al museo conferisce un senso di pace e, allo stesso tempo, probabilmente anche grazie ai magnifici graffiti presenti sulla facciata del padiglione VI, una sensazione di angoscia che riporta nitidamente alla mente l’atmosfera manicomiale del luogo.
L’esposizione museale è stata sapientemente suddivisa in tre grandi parti: nella prima si tenta, per mezzo di diverse installazioni interattive, di far percepire ai visitatori le sensazioni vissute dagli ospiti del manicomio e le loro difficoltà, soprattutto in ambito percettivo, attraverso l’utilizzo del proprio corpo; una seconda parte dove si entra in contatto con il lato più creativo di alcuni pazienti nonché con la realtà ed i luoghi dove vivevano quotidianamente i pazienti; infine una terza ed ultima sezione dove, con l’ausilio di diversi filmati in cui alcuni dipendenti e pazienti della struttura spiegano ai visitatori le numerose vicende avvenute dall’apertura del manicomio fino alla sua chiusura, mettendo in relazione tali avvenimenti con l’evoluzione dell’approccio psichiatrico che ha caratterizzato il nostro paese a partire dagli anni ’70.
L’inizio del percorso all’interno del museo coincide con la presenza di una panchina di legno sovrastata da una foto che ritrae gli ospiti del manicomio, indicativamente agli inizi del ‘900, ritratti nel giardino antistante mentre erano seduti su panchine simili a quella esposta.
Nel corridoio un sistema di immagini e suoni mostra corpi che battono i pugni su una vetrata invisibile, corpi che si lanciano verso di essa, che vogliono fuggire, ne consegue forte senso di paura, di rabbia, angoscia, desiderio di emergere da una situazione di prigionia, mentale o fisica, tutto questo invade lo spettatore. Il corridoio è tempestato da immagini vive, ologrammi animati, di persone differenti, uomini e donne, in gruppo o soli, che si percuotono e scuotono nella loro “gabbia”. La possibilità di sedersi davanti a tali immagini, di contemplarle, crea nello spettatore il desiderio di comprensione: da dov’è che scappano? Perché scappano? Cosa provano? Domande che probabilmente vengono suscitate anche dalla presenza di una stanza da colloquio che traspare dalla vetrata.
Successivamente si viene introdotti nella “Camera di Ames”, una elaborazione molto interessante della stanza progettata da Albert Ames Jr. nel 1935, la quale tenta di far comprendere al visitatore, attraverso alcune distorsioni ambientali, come il sistema visivo può essere facilmente tratto in inganno. Nella prima stanza vi è proiettata una bocca “bloccata” nell’atto di comunicare la quale può essere sciolta solamente se le si parla attraverso un microfono ma, imprevedibilmente, nel caso si tenti di parlarle facendo un discorso sensato, non si riuscirà a capire ciò che effettivamente tenta di dire la bocca, probabilmente nel tentativo di simboleggiare le difficoltà dei pazienti di comunicare con chi li ascolta e la difficoltà che chi li ascolta incontra nel tentativo di comprendere il significato di quanto detto se si tenta di dare un senso comune alle loro parole.
Nella seconda stanza vi è uno specchio nel quale viene mostrata la propria immagine ma, ad intervalli irregolari, la stessa si muove con uno sfasamento evidenziato anche da un contatore (più o meno veloce). In questo modo si porta il visitatore a riflettere sul valore del tempo e della memoria. Nell’ultima stanza vi sono invece installati una serie di imbuti che pendono dal soffitto, all’interno dei quali fuoriescono alcune voci. In questo caso al visitatore si suggerisce di provare a riconoscere, sebbene sia abbastanza difficile, da quale imbuto viene riprodotta la sua stessa voce. Si scorge in lontananza una scritta “Da vicino nessuno è normale”.
La mostra, attraverso delle istruzioni pensate per un corretto utilizzo delle stanze, ci vuole mettere alla prova, siamo in diretto contatto con essa, facciamo quello che ci consiglia di fare, presi dal volerci mettere alla prova, quasi per gioco, le stanze ci danno modo di riflettere sul valore del tempo, dell’equilibrio e dei sensi “puliti” senza alcun intralcio. Il tempo, che nella psicopatologia, nei disagi mentali diventa un tempo altro, nella costruzione dei propri ricordi, della propria identità. Quando la linearità che conosciamo del tempo viene a mancare, per problemi neurologici o psicologici, manca di conseguenza il riconoscimento di noi stessi e soprattutto, diviene difficile, a volte impossibile, comunicare con gli altri.
Sul muro, subito dopo le stanze, troviamo dei ritratti, realizzati quasi interamente negli anni ’30 da Romolo Righetti, psichiatra del Santa Maria della Pietà. Egli ha fermato nel tempo i volti dei suoi pazienti, da cui, con sforzo empatico, tra gli sguardi, gli accigli e le espressioni, possiamo scorgere anche qualcosa di nostro.
Raggiungendo la zona centrale del museo si possono trovare altre installazioni che tentano ulteriormente di far entrare il visitatore nei panni dei pazienti: vi è la possibilità di farsi ritrarre in una foto, esattamente come veniva fatto ai pazienti nel momento in cui venivano “internati” nel manicomio; vi è una scrivania sulla quale ponendo i gomiti in una determinata posizione e appoggiando le mani sulle proprie orecchie si possono udire alcune voci; vi è una lavagna che riproduce alcune fotografie degli ospiti del manicomio dove il visitatore, eseguendo un movimento “ossessivo” sulla sedia posta davanti alla lavagna, può far scorrere le immagini per poi far riprodurre il video con il racconto di uno specifico paziente semplicemente avvicinandosi alla sua fotografia.
Successivamente “Inventori di Mondi” apre le porte a mondi paralleli, diversi appunto, creati dalle interpretazioni artistiche dei pazienti del Santa Maria della Pietà, che hanno costruito, a loro modo, dei significati: Gianfranco Baieri con i suoi orologi dipinti “ferma-tempo” e Oreste Fernando Nannetti che ha inciso con la fibbia della divisa manicomiale un intero muro dell’ospedale psichiatrico di Volterra, ricostruito per noi nella mostra su un divisorio trasparente. In questo modo entriamo, attraverso tali espressioni artistiche, nel mondo di Gianfranco e Oreste, impegnati nella ricerca di modi per far riemergere la propria voce.
Proseguendo la mostra si viene indirizzati verso alcuni locali caratteristici del manicomio: la “fagotteria”, luogo dove i pazienti lasciavano i loro indumenti ed averi durante il ricovero; la stanza del medico, dove i pazienti venivano visitati; la camera di contenzione, angosciante ed in netto contrasto con la natura rigogliosa che si intravede dalla finestra della medesima stanza; la sala mensa, con due tavoli molto grandi su uno dei quali vi è un’installazione interattiva che può essere attivata muovendo alcuni oggetti presenti sullo stesso tavolo, oltre ad una parete nella quale sono installate molte forchette ad indicare i livello di divieti a cui erano sottoposti gli ospiti; infine una ricostruzione storica della farmacia del manicomio.
A conclusione troviamo “manicomio in pezzi”, installazione che evoca il processo di transizione descritto successivamente da “La Fabbrica del Cambiamento”, una serie di 12 video atti a ricostruire la storia dei cambiamenti, delle leggi e dei nomi che hanno portato alla chiusura del manicomio e all’apertura di un nuovo concetto di malattia mentale e del suo trattamento. Sulla sinistra ricomincia la mostra con “lo sguardo degli esclusi”. Potremmo definirlo un ritorno?! Vicino a quegli stessi sguardi dell’inizio, ci siamo seduti a vedere i video del cambiamento: da prigionieri, imprigionati per due volte nel loro disturbo e in una struttura che li privava di ogni libertà, ora gli sguardi degli esclusi guardano insieme a noi le storie di quei cambiamenti che hanno costretto l’opinione pubblica e la politica a interrogarsi, a porsi delle domande su un problema che ha afflitto per anni tutti quelli che sono venuti in contatto con un protocollo manicomiale rigido, di massa, praticamente carcerario.
La mostra, la quale non sembra essere adeguatamente sponsorizzata, è di sicuro impatto emotivo in considerazione sia del luogo, il quale trasuda la sofferenza dei pazienti che vi sono transitati, che della possibilità offerta ai visitatori d’immedesimarsi nei pazienti e di entrare in contatto con le loro allucinazioni e deliri oltre che con il loro potenziale artistico attraverso il quale alcuni di loro (molti più di quanto si possa pensare) veicolavano tutta la loro espressività in una sorta di atto catartico. A fronte di questo aspetto si può dedurre la motivazione intrinseca per il quale nel nome del museo vi è anche l’appellativo di “laboratorio”.
La mostra-laboratorio è un percorso da fare aprendosi completamente, con precise linee-guida ed un suo stile di influenza: immergersi totalmente in questa esperienza, può risvegliare in noi una coscienza nuova sui disturbi mentali, così come sulla diversità in generale. Consigliamo fortemente di visitare questa mostra-laboratorio e chiedersi infine: ma laboratorio perché? Perché siamo i primi a sperimentare la mostra personalmente, ma forse anche perché la macchina del cambiamento non deve mai cessare di funzionare.
Scritto da Michela Farella e Roberth Nussbacher
29 Marzo 2018