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Psicoanalisi: un mestiere impossibile

Vogliamo spiegare perché la professione dell’analista è un mestiere impossibile.
La psicoanalisi nacque in origine come strumento di ricerca nel tentativo di comprendere alcuni strani atteggiamenti psicologici, non riconducibili ad alterazioni somatiche. La medicina ufficiale aveva sempre rifiutato di occuparsi di tali enigmi, e i sofferenti di nevrosi erano costretti a girare per tutti i luoghi di cura nell’improbabile speranza di trovare sollievo ai loro mali.

Freud fu il primo medico che «ascoltò» il paziente nevrotico; egli poté in tal modo cogliere, nell’apparente assurdità dei sintomi, delle narrazioni coscienti e, soprattutto, dei sogni, un filo conduttore che riportava le sofferenze attuali del nevrotico ad esperienze fondamentali vissute nell’infanzia. I pazienti avevano sempre parlato dei loro mali, ma fu il modo di ascoltarli e di capirli che pose la premessa per la terapia analitica. Questa modalità di ascolto e di comprensione è una caratteristica dell’analista autentico il quale, secondo le originali ricerche di C. G. Jung sui fenomeni del transfert e controtransfert, è spinto, nel processo terapeutico del paziente, da motivazioni che riguardano la sua stessa salute psicologica.

Il lavoro dello psicoanalista non è confrontabile con altre attività perché l’oggetto su cui verte l’attenzione del medico non può essergli «indifferente». Non solo, ma Jung sostiene che ogni paziente rappresenta per l’analista un problema che lo tocca molto da vicino, ed è questa comunanza di un disagio nevrotico che in realtà determina il successo o l’insuccesso della terapia. L’ascolto analitico è soprattutto un’attenzione alla risonanza interna dell’analista che coglie, nella propria dinamica psicologica, le risposte e le interpretazioni. Ma queste interpretazioni non servono soltanto per il paziente ma anche per lo stesso psicoanalista.

La professione dell’analista è motivata da un continuo travaglio psicologico che trova conforto e miglioramento proprio nell’ambito dell’attività analitica. L’analisi didattica, a cui il terapeuta si è sottoposto, gli ha soltanto fornito una conoscenza della propria modalità nevrotica in modo tale che, durante la terapia, l’analista non commetta l’errore di proiettare sul paziente la propria nevrosi. Il processo di guarigione dell’analista avviene invece non tanto attraverso la analisi didattica (della cui ambiguità parleremo in altri articoli), ma soprattutto attraverso l’esercizio della terapia che è, nella sua sostanza, un’autoterapia. Il paradosso della professione analitica, la sua «impossibilità» risiede nel fatto che quanto più l’analista migliora, tanto meno sarà capace di aiutare gli altri, perché gli verrà a mancare la tipica capacità di ascolto, motivata dai suoi disagi nevrotici. Colui che inizia un’analisi didattica per intraprendere la professione di analista, se la terapia ha successo, in genere non diventa analista.

In un certo qual modo sono proprio le analisi non riuscite che spingono a diventare analista, perché solo così la propria analisi, di cui si sente un bisogno insopprimibile, andrà avanti all’infinito. Rovesciando il discorso, chi chiede di fare un’analisi didattica denuncia un disagio psicologico di cui sarà difficile liberarsi. Nella situazione di analisi il terapeuta è un oggetto contro cui il paziente riversa la sua aggressività ed il suo odio. L’analista si dà in pasto, senza riserve. Ma, nel suo processo di guarigione attraverso l’analisi dei pazienti, può accadere che l’analista sia in grado di ridurre la sua dimensione masochistica al punto tale da non poter sopportare le enormi pressioni derivanti dalle nevrosi che egli stesso cura. In quel momento la guarigione raggiunta coincide con l’abbandono o la riduzione del lavoro analitico.

Aldo Carotenuto 
Pubblicato nel 1972 su AUT, Anno I n° 18 (19-25/7/1972)
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L'autore
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Aldo Carotenuto
Aldo Carotenuto (1933-2005) Ha insegnato Psicologia della Personalità e delle Differenze Individuali all'Università di Roma