Gianmarco Manfrida, La narrazione psicoterapeutica. Invenzione, persuasione e tecniche retoriche in terapia relazionale

a cura di C. Illiano

“Questo è un libro imperfetto per scelta, perchè non intende insegnare una lezione, né proporre una trattazione esaustiva, ma darti degli spunti, indicarti delle strade, lasciarti delle lacune da riempire…”.

“Le storie che i pazienti ci raccontano, quelle che noi raccontiamo loro e quelle che vengono fuori (…) non sono quindi prive di significato, casualmente cangianti, prive di correlazioni con il mondo (…). Le nostre terapie hanno un senso, mai completamente identificabile forse, ma abbastanza da dare loro un’esistenza come tali e da indurci a chiamarle terapie piuttosto che incontri, conversazioni, colloqui.”

Credo che questi due passi riflettano in pieno l’argomento esposto nel libro e il punto di vista dell’autore: un libro creato come spunto di riflessione, una riflessione che parte dal presupposto che ci sia una bipolarità all’interno della seduta di analisi, un rapporto reciproco che vede due attori protagonisti che comunicano in modo vicendevole e che scambiano tra loro dei significati.

L’autore del libro, dopo aver dato spazio alla trattazione del paradigma costruttivista (e della sua visione della realtà costruita e generata dallo scambio sociale giornaliero), essenziale per la comprensione successiva del testo, inizia a trattare in modo più approfondito il tema della narrazione psicoterapeutica. Secondo Manfrida il movente che spinge i pazienti a chiedere aiuto sarebbe un bisogno di spiegazioni del proprio problema e non solo una cura ed un superamento del sintomo. Sarebbe la spiegazione, infatti, a chiarire la propria condizione e a permettere così il cambiamento auspicato, ma la spiegazione non può che manifestarsi come un racconto, una storia in grado di collegare esperienze passate e presenti.

Dal punto di vista dell’autore, un elemento da cui un buon terapeuta non può prescindere nella creazione di narrazioni è la “plausibilità” che “implica una valutazione del contesto, dei vissuti di realtà, mediata da persone significative all’interno di un rapporto affettivo”. Partendo dal presupposto che la realtà generi da un insieme di significati condivisi, infatti, un cambiamento nella percezione di essa non potrà che svilupparsi solo ed esclusivamente in un ambiente favorevole ad esso.

Altri elementi indispensabili risultano essere la capacità di convincimento della narrazione, ossia il potere di ribaltare su un piano sia emotivo che logico le precedenti opinioni del paziente, e la creazione di storie “esteticamente valide”, ossia in grado di coinvolgere emotivamente le persone. Oltre a questi punti lo psicoterapeuta dovrebbe prestare particolare attenzione alla caratterizzazione dei personaggi, ai tempi della storia, allo stile della narrazione, alla costruzione dei climax e alla coerenza sia interna (coerenza all’interno della seduta come possibilità di ricollegare gli interventi del terapeuta a quelli precedenti e a quelli successivi) che esterna (coerenza con la storia passata e presente del paziente e della sua famiglia).

Un altro tema trattato dall’autore è quello della neutralità del terapeuta come narratore: è possibile che lo psicoterapeuta sia in grado di non influenzare in alcun modo il processo terapeutico? La risposta di Manfrida è chiara, semplice e diretta: il paziente propone un testo che il terapeuta rielabora ed interpreta, modifica e restituisce, ricostruendo il tutto con la sua “arte interpretativa”, generando un effetto emotivo in grado di indurre un cambiamento. Non è quindi pensabile un approccio neutrale, a specchio, dello psicoterapeuta, in quanto ogni narrazione è un’interpretazione. Il terapeuta stesso è un interprete e viene paragonato dall’autore ad un artista, ad un musicista, ad un letterato.

L’autore continua poi la trattazione dell’argomento dedicando un capitolo alle tecniche ed agli strumenti necessari per la creazione di una storia terapeutica. Per far questo egli parte da molto lontano, giungendo fino alla retorica classica greca e latina. Egli si riferisce ai sillogismi e agli entimemi, veri o apparenti, di Aristotele di cui si farebbero portatori i pazienti e le loro famiglie nel momento in cui tentano di convincere il terapeuta che la loro visione della realtà sia quella giusta. A seguito di ciò, Manfrida fa un dettagliato elenco dei modi con cui controbattere ai pazienti e agli entimemi portati in seduta (obiezione dello stesso ragionamento, del ragionamento contrario, di un ragionamento simile, mediante giudizio di autorità).

Altro elemento ripreso dall’antichità classica e ricollegabile ai precedenti riguarda i Topoi, i luoghi comuni, presenti nel racconto del paziente e dei suoi familiari e derivanti dal contesto culturale cui appartengono; per questo motivo è fondamentale, da parte dello psicoterapeuta, una conoscenza approfondita della società e della cultura di appartenenza del paziente. Secondo Berenger e Luckmann, la funzione dei luoghi comuni sarebbe quella di diffondere e confermare punti di vista comuni e per questo motivo verrebbero usati strumentalmente per imporre al terapeuta il proprio modo di vedere. Lo psicoterapeuta deve essere in grado di riconoscere questi topoi e di usarli egli stesso per riuscire a condurre il paziente verso un nuovo modo di vedere la propria vicenda che comporterà inevitabilmente un cambiamento terapeutico.

Il riferimento all’antichità continua fino alla fine del libro che si conclude con un’accurata esposizione delle tecniche retoriche che, secondo Manfrida, dovrebbe possedere ogni buon terapeuta. Egli paragona quest’ultimo ad un oratore e, riprendendo alcuni passi del De Oratore di Cicerone, delinea diversi suggerimenti utili per una buona terapia: bisogna essere in grado di valutare correttamente ed accuratamente il contesto in cui si opera l’intervento, le caratteristiche degli ascoltatori, il rapporto interpersonale che si viene costituendo ed il coinvolgimento emotivo del terapeuta che, inevitabilmente, viene generato.

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