Il rovescio della psicoanalisi

Tratto da G. Antonelli, Schizzi genealogici psicofilosofici, in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 6, Giovanni Fioriti Editore, Roma, aprile 2008

“Un certo Hegel” dice Lacan nel Seminario XVII su Il rovescio della psicoanalisi “ha articolato che essa [la verità] gli [al padrone] viene svelata dal lavoro del servo. Solo che questo discorso di Hegel è un discorso da padrone”. E più avanti: “La filosofia ha giocato il ruolo di costituire un sapere da padrone, che fosse da sottrarre al sapere del servo.” Lacan, commenta Jacques-Alain Miller, “spoglia in una certa misura anche Platone e Aristotele, imputando loro di avere messo a nudo lo schiavo, di avergli rubato il suo sapere in favore della filosofia.”

“Ciò che Lacan chiama il rovescio della psicoanalisi” scrive ancora Miller “è il discorso del padrone”, ma “l’analista è tutto, salvo che un padrone”. Analogamente, nel corso del seminario XI (1964), Lacan aveva detto che “nessuno psicoanalista può pretendere di rappresentare un sapere assoluto”.

Il rovescio della psicoanalisi, si potrebbe dire, corrisponde al dritto di Hegel, e di Freud come del rovescio di Hegel aveva parlato anche Ricoeur. Lacan ripete inoltre una delle sue articolazioni del cogito cartesiano, la formula esplosiva, come la chiama: o io non penso o io non sono. Un vel, dunque, in luogo di un ergo: “Là dove penso io non mi riconosco, non sono – è questo l’inconscio. Là dove sono, è fin troppo chiaro che io mi perdo”.

Il discorso della psicoanalisi va concepito come il più antagonista all’enunciato universitario di una qualunque filosofia, per quanto nessuna filosofia sia riducibile a questo. Si tratta, infatti, nell’enunciato in questione, del sorgere irriducibile dell’Io-crazia. “Il mito dell’Io ideale” dice Lacan “dell’Io che domina, dell’Io tramite cui almeno qualcosa è identico a se stesso, cioè l’enunciatore, è precisamente ciò che il discorso universitario non può eliminare dal posto in cui risiede la sua verità”. D’altronde l’Io immaginario, di cui fa discorso la psicoanalisi, era risorto nella psicologia di Hartmann, Kris, Loewenstein, nonché di una cospicua parte della psicoanalisi anglosassone, come Io autonomo, libero da conflitti, self-made. Su suolo francese era stato Sartre e decentrare l’Io nei suoi scritti di psicologia fenomenologica. L’Io è semplicemente la modalità riflessa della coscienza. Anche Sartre aveva avversato l’ipostatizzazione dell’Io, ad esempio quel suo venire a coincidere con la res cogitans. Affermare che l’Io è la modalità riflessa della coscienza significa affermare che è trascendente, che sta là fuori, che non è sub-stantia cioè, che non sup-porta, non sos-tiene i fenomeni psichici.

Al di qua di quell’Io che non è autonomo, come non lo è per Lacan, il realmente autonomo è quello che precede l’Io e cioè la coscienza irriflessa, diciamo anche la trasparenza, il vuoto, la coscienza tutta dispiegata. Appunto perché opera col vuoto, col trasparente della coscienza, lo psicoterapeuta è naturalmente fenomenologo. La dissimmetria tra Freud e Cartesio, dice Lacan nell’incontro seminariale del 29 gennaio 1964, “non sta nel modo di procedere iniziale della fondazione della certezza del soggetto, ma deriva dal fatto che, in questo campo dell’inconscio, il soggetto è a casa sua. Ed è perché Freud ne afferma la certezza, che si ha quel progresso con cui egli cambia il nostro secolo.”

Cartesio non deve forse accertarsi “di un Altro che non sia ingannatore e che, oltretutto, possa con la sua sola esistenza garantire le basi della verità”? Cosa ne consegue per il sapere dello psicoanalista? Il rovescio del sapere assoluto di Hegel. Ciò situa Lacan singolarmente vicino alle scaturigini della consulenza filosofica, da una parte, e agli aneliti resistenziali di Heidegger dall’altra. Cosa ha in mente infatti Lacan quando crea una Scuola di Psicoanalisi? Ha in mente quella filosofia antica che mirava a comunicare un’arte di vivere. Scrive Jacques-Alain Miller che Lacan “ha definito le scuole antiche, dove si pagava di persona, come rifugi contro il disagio nella civiltà”. Come dire che la Kultur, alla quale freudianamente inerisce il disagio, procede in una direzione contraria alla foucaltiana cura di sé.

Ne Il fattore della verità (1975) Derrida restituisce il colpo a Lacan, rovesciandone il rovescio. Noi possediamo la verità, aveva scritto un tempo Freud a Ferenczi. Lacan segue quella scia. Quando egli sostiene che l’analista rimane in primo luogo il maestro e il padrone della verità, scrive Derrida, “lo fa sempre per legare la verità al potere della parola”. Ebbene, quel potere non risponde alla domanda che un giorno Freud rivolse a Marie Bonaparte: Cosa vuole una donna? Che differenza c’è tra possedere la verità (lo psicoanalista, Freud) e detenere il sapere assoluto (il filosofo, Hegel)? Che differenza c’è se i supposti padroni non sanno cosa vuole una donna?

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Giorgio Antonelli