Il lapsus di Carpocrate

Tratto da Giorgio Antonelli, “Lapsus di Psicologi”, in Rivista di Psicologia Analitica, 47, Roma, Astrolabio, 1993, e in Sapere il deserto. Sulla concezione psicoanalitica del mondo, Roma, Di Renzo Editore, 1994

Non c’è intero senza buco, come dice bene l’inglese “whole” (intero) che è omofono di “hole (buco, appunto). Dovremmo forse parlare d’una svista della lingua inglese, nella quale sono anche contemplati come omofoni l'”occhio” (“eye”), appunto, e l'”io” (“I”), quello stesso che William James chiamava semplice finzione, essere immaginario? Certo, il lapsus vuole anche dirci, oltre al suo essere godimento, che il godimento, appunto, non è mai colmato, non è mai intero e, allora, c’è sempre. E un lapsus degno della massima considerazione compare nel seminario dedicato da Jung allo Zarathustra di Nietzsche.

Nell’incontro seminariale del 24 ottobre 1934 Jung sostiene come l’insegnamento di Cristo non sia stato compreso che da pochi. Tali “pochi” sono gli gnostici. Tra di loro figura Carpocrate, il quale insegnava la dottrina secondo cui non si può essere redenti dal peccato che non si è commesso. Il fatto è che, tale dottrina, concordemente ascritta dagli eresiologi antichi a Carpocrate e che Jung riconosce distintamente come sua in più luoghi della propria opera, di fatto non è riferita a lui. In luogo di Carpocrate Jung parla del “vecchio Ippocrate”. Si chiamerebbe Ippocrate dunque l’eretico, lo gnostico che affermò, secondo un’analoga formulazione rinvenibile presso gli eresiologi, la necessità di compiere tutte le forme del male.

Il lapsus è evidente. Anche nel caso in cui lo si voglia ascrivere al curatore del seminario, James L. Jarrett. Se, come ritengo più probabile, il lapsus appartiene a Jung, allora le considerazioni che si possono muovere a riguardo acquistano certamente un interesse maggiore e degno d’essere perseguito. E ciò anche a ridosso d’una situazione, che è forse lecito definire “complessuale”, nella quale il nome di Carpocrate ritorna prepotentemente in gioco.

A tale situazione mi sono riferito in più d’una occasione. In breve si tratta di questo. Martin Buber accusò pubblicamente Jung d’essere uno gnostico e, segnatamente, un riesumatore del motivo carpocraziano, quello stesso che ho citato sopra secondo due analoghe formulazioni e che Buber ridefiniva sotto lo stilema “divinizzazione degli istinti”. Jung rispose all’accusa di Buber omettendo del tutto il nome di Carpocrate ed ogni riferimento al motivo carpocraziano. Perché? Ho l’impressione che il lapsus impostosi nel seminario sullo Zarathustra di Nietzsche abbia a che vedere in qualche modo con la risposta non data da Jung.

Ho già formulato l’ipotesi secondo cui sarebbe in gioco, nella mancata risposta di Jung, nel suo silenzio su quel Carpocrate che egli altrove non esita a citare, una dinamica complessuale. Tale dinamica diventa chiaramente osservabile se ipotizziamo di trovarci di fronte a uno di quegli esperimenti associativi che pure diedero a Jung fama e conoscenza. Ipotizziamo, cioè, che Buber somministri al soggetto sperimentale Jung la “parola stimolo” “Carpocrate” e che ad essa Jung debba reagire operando un’associazione. L’associazione Jung non la fa.

Il ritardo nella risposta o il silenzio possono essere legittimamente assunti quali parametri capaci di individuare la presenza d’un complesso. In realtà, se invertiamo i tempi, ovvero se fingiamo per un momento che le sequenze del tempo non siano unidirezionali, ma tali che a uno stimolo del dopo possa rispondere un’associazione del prima (di molti anni prima), allora è “vecchio Ippocrate” la risposta fornita da Jung in associazione con la parola stimolo “Carpocrate”. Ma Ippocrate è un dottore, il vecchio Ippocrate è Jung. Il lapsus, se di lapsus si tratta, conduce in un luogo oscuro delle relazioni etiche coltivate dalla psicologia analitica, relazioni relative al confronto con l’ombra e alla sua integrazione.

Carpocrate è Ippocrate, ovvero il nome stesso del dottor Jung. Un nome da tenere celato ai più? Forse, se si pensa al lapsus commesso nel corso dello stesso seminario da Jung là dove viene citato impropriamente un passo della Lettera agli Efesini di Paolo . Nel passo in questione Paolo rivendica la propria comprensione del mistero di Cristo. Tale mistero che Paolo conosce per rivelazione “non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni” (Ef 3.3-5). Ora, Jung fa dire a Paolo che i misteri devono essere insegnati nel segreto. I misteri vanno tenuti segreti, insomma, non vanno traditi.

C’è una qualità notturna del mistero che nessuna luce del giorno deve tradire. E c’è anche una qualità notturna del lapsus che necessariamente sfugge alla coscienza. L’etica che per queste vie si propone nella psicologia analitica è un’etica segreta, esoterica, oscura per esplicita ammissione di Jung. Ma tale etica è appunto quella che si è pensata un tempo nel nome di Carpocrate. Ed è la stessa che si è ripensata come “nuova” nella elaborazione di Erich Neumann. In un lapsus, anche in un silenzio, in una risposta non data la storia sa condensare i suoi imperiosi abbracci.

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Giorgio Antonelli