Recensione del film “The Babadook”, regia di Jennifer Kent (2015, Danimarca)
Il bambino, l’angoscia e la madre sono i fondamenti di ogni teoria dinamica dello sviluppo. Babadook di Jennifer Kent è un thriller la cui trama si impernia esattamente su questi tre elementi, portando in scena quei fantasmi che, come scriveva Selma Fraiberg, aleggiano nella stanza del bambino.
Come difendersi quando l’oggetto che può proteggere dal terrore è la causa del terrore stesso?
In Babadook a essere protagonista è la diade madre-bambino composta da Amelia e suo figlio Sam. Amelia è una donna sola, visibilmente provata da una grande sofferenza interiore. Sam è un bambino fin troppo vivace, che prova ad accendere gli occhi spenti della madre tramite comportamenti al limite. I due sono avvolti in un unisono protettivo – io proteggo te, tu proteggi me – che vuole funzionare da baluardo per entrambi senza tuttavia riuscirci realmente. Il film, che offre moltissimi spunti alla riflessione clinica, coglie un aspetto su cui molto la psicoanalisi ha indagato: gli effetti catastrofici della non elaborazione del lutto, per la mente individuale e per i legami interattivi che instaurerà.
Amelia porta dentro di sé un trauma: suo marito muore in un incidente d’auto proprio mentre la sta accompagnando in ospedale per dare alla luce il figlio. Sam nasce lo stesso giorno in cui muore suo padre e nella trama del film la Kent piazza un dettaglio fondamentale per comprendere la relazione perversa che questa madre crea col proprio bambino: Amelia non festeggerà mai il compleanno del figlio nel giorno giusto, quello della sua nascita, procrastinando sempre a un giorno differente. La vita di Amalia si è cristallizzata alla morte del marito, quando ancora portava in grembo il figlio. Per questo Sam è un non-nato, un essere di cui non può essere tollerata l’alterità perché, in tal modo, Amalia dovrebbe anche accettare la morte del marito, patirne il dolore e strutturare una vera depressione: attraversare il mostruoso da cui si sta difendendo.
Sam prova a proteggere la madre dai suoi fantasmi funzionando da figlio para-lutto, come lo chiamava Racamier, ergendosi a suo difensore, producendosi in agiti volti a scaricare le insopportabili tensioni interne e allontanare la madre dal proprio territorio psichico. Ma sarà uno sforzo senza sbocco, perché le maglie che tengono unito l’equilibrio psichico di Amalia sono troppo flebili e di conseguenza lui non potrà mai sentirsi al sicuro, essendo che l’angoscia da cui vuole difendersi è generata dalla madre stessa. Inizierà così a vagheggiare fantasie di combattimenti nel quale salva se stesso e la madre dagli spiriti maligni evocati dal Babadook, un fantasma che viene fuori da un libro di favole nere.
Babadook aleggia su questa famiglia, su questa diade madre-bambino, tormentandone le notti. Amelia dapprima serra i ranghi, rinsaldando maggiormente la negazione, provando a eliminare fisicamente il libro da casa, che però continua a tornare fino a quando lo spirito del Babadook non si impossessa di lei e ne cambia la personalità. Da donna flebile e spaventata si trasforma in una psicopatica al cui limite estremo c’è un desiderio: quello di uccidere suo figlio per fargli incontrare il padre che non ha mai potuto conoscere. In realtà nel desiderio di uccidere il figlio risiede ancora una volta la volontà di negare il lutto e ritornare al momento in cui Sam è nato sul cadavere di suo padre, un evento che riempie di una rabbia psicotica Amalia che, impossessata dal Babadook, riesce a dire al figlio una frase che mai avrebbe potuto pronunciare:
tu non immagini quante volte avrei voluto che a morire fossi stato tu e non lui!
Tutto quello che di inesprimibile era stato, erompe nel delirio, come può avvenire quando l’area traumatica è sollecitata ai limiti della sopravvivenza psichica. Amalia deve quindi passare dalla lotta contro i propri demoni per liberarsi dal Babadook, e questa lotta non potrà che passare per il confronto con l’oggetto perduto e quindi con il lutto. Solo così il delirio di Babadook che la pervade integralmente, come la macchina influenzante di Tausk, può venire fuori e trovare diritto di cittadinanza.
Sam adesso può finalmente festeggiare il suo compleanno nel vero giorno in cui è nato e raccontare una storia, quella sua, della sua mamma e del suo papà che non è più inconfessabile, proprio perché non lo è più innanzitutto per la madre.
Babadook, il delirio, ha funzionato da terzo in una diade che dalla morte del padre aveva serrato i ranghi con il mondo. Il numero due teso all’infinito raramente si associa a configurazioni interattive sane, specie quando si tratta della relazione tra il bambino e colui che lo accudisce. La psicoanalisi ha scoperto il valore del terzo nell’edipo, come configurazione che attraverso l’introduzione di un margine struttura limiti e possibilità sane. La malattia del rapporto tra Amelia e Sam non risiede difatti solo nella simbiosi, ma nella solitudine di cui essa si avvolge. Non è un caso che le ventate di sanità nel film si avvertano quando entra in casa un collega di Amelia che li va a trovare, una vicina genuinamente interessata a questa famiglia e persino l’arrivo dei servizi sociali. In questi casi i due protagonisti riescono a parlarsi e dirsi anche cose che comunemente non si dicono. C’è un altro, un garante degli scambi e dei confini, qualcuno che osserva, non si è da soli nello spavento di un rapporto che è in fondo una coazione, un bisogno malato, di cui gli stessi protagonisti possono accorgersi.
Il terzo è stato anche Babadook, la patologia, il perturbante che Freud descriveva come:
quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da tempo, un elemento rimosso ma che ci era da sempre familiare
che erompe sfaldando i falsi equilibri che Amelia e Sam avevano assestato. Nelle sue diverse declinazioni, il terzo è la cifra stessa che rende la psicoanalisi un sistema che cura, rompendo le simbiosi coi nostri sintomi, i nostri modelli interni disfunzionali, le nostre affezioni patologiche. Il valore terapeutico dell’analisi risiede nell’introduzione del numero tre al numero due. E da allora le cose cambiano. Non solo l’analista, ma la situazione terapeutica – che non a caso è stato chiamata terzo analitico da T. Ogden – entra nella nostra vita e ci si affianca: questo fatto da solo fa vacillare il baricentro disfunzionale, cambia gli equilibri e ridona un erotismo sano alle seduzioni mortifere che ci legano e a cui ci leghiamo.
Il valore psicoanalitico del film risiede soprattutto nel suo finale. Se comunemente negli horror il finale vede un’eliminazione del maligno, in Babadook il destino è più sottile e più aderente a quello che avviene in un reale processo di maturazione psicologica: ad Amelia spetterà riservare un luogo nella sua casa – come metafora dell’apparato psichico – in cui Babadook possa esistere e dove lei, di tanto in tanto, pur nella paura, possa tornare a prendersi cura.
Autore: Alessandro Uselli