Demoni sogni. Fulminea storia del sogno delle origini in direzione di Dio

Demoni sogni. Fulminea storia del sogno delle origini in direzione di Dio, in P. Notarfranchi (a cura di), Prestami l’ombra del tuo sentiero, vol 1°, Pescara, Samizdat, 1995

Se mi si domandasse, improbabilmente certo, dove dimori il demone, risponderei che il demone dimora nel luogo dei sogni.

Ritengo infatti che esista una relazione stretta, un abbraccio tra demonologia e onirocritica. La demonologia degli antichi in special modo può offrire un contributo essenziale alla nostra comprensione del sogno e del perché del sogno.

Tale perché io lego a una necessità dell’anima di farci sperimentare il nostro costitutivo essere altrove. E si tratta dell’esperienza che ad esempio ghermiva Socrate, un esperto di demoni, e che Platone pensò di cogliere nel termine “atopìa”.

Ma oltre questa necessità dell’anima, che per altri versi si lega alle ragioni del godimento, penso a un ulteriore perché del sogno, o forse dovrei dire che è l’ulteriore perché a pensarmi. Comunque sia, e venirne a capo è certo disperante, l’ulteriore che mi pensa è la morte. Sogniamo per abituarci alla morte. Ovvero sogniamo per meglio apprendere l’arte impossibile dell’abitare la morte. A tutto ciò sembra ricondurci il racconto che gli antichi si tramandavano sui demoni. Che ne è però di questo racconto dopo le mortifere equivalenze stabilite, quasi si trattasse d’un esercizio di potenza, dalla tradizione cristiana?

Un sogno che non viene interpretato, secondo quanto ha affermato Rabbi Hisda, è come una lettera non letta, una lettera per noi desimmaginale ovvero, come sapevano Poe, Baudelaire e Lacan, “rubata”, una lettera, infine, nei confronti della quale viviamo la nostra cecità. Ora, il vissuto d’una tale cecità può essere pensato come “immorale”, nel senso che non sembra portarsi in alcun luogo di mediazione. Nel Talmud, del resto, viene enunciato con nettezza il discrimine oltre il quale sogno e moralità accedono a un abbraccio senza fine. Vi si afferma infatti che chiunque trascorra sette giorni di seguito senza sognare merita il nome di malvagio.

Occorrerebbe ribaltare nel profondo la concezione antica e medievale d’una partizione dei sogni in buoni e cattivi, veridici e ingannatori, alla quale hanno dato ampia prova di credere le “quattro forze”, greci ed ebrei, cristiani ed arabi. La distinzione è già presente nell’Odissea, nel discorso pronunciato da Penelope. Compare all’incirca due millenni dopo nello Zohar, il testo eccellente della Cabala, dove si trova inoltre scritto che chi procede lungo la via del bene non fa mai sogni menzogneri. Quando l’uomo dorme nel proprio letto accade che l’anima si elevi e percorra uno spazio per arrivare nel luogo che le conviene. Il Santo, infatti, si sostiene nello Zohar, accorda sogni agli uomini in corrispondenza del loro rango. Durante il percorso in direzione del luogo che le conviene, si fanno incontro all’anima legioni di spiriti. Solo l’anima buona vede realmente, all’anima malvagia gli spiriti fanno vedere cose menzognere. Al momento del risveglio, infine, l’anima riferisce l’accaduto, vale a dire quanto ha visto, al sognatore. Anche questo, infatti, è anima, memoria.

In ambito islamico Nabulusi ha concepito una casistica inclusiva di sette tipi di sogni falsi cui si contrappongono cinque tipi di sogni veri.

In ambito cristiano si assiste più propriamente a una tendenza in direzione della demonizzazione dei sogni.

Ma è in ambito monastico, in special modo, che tale tendenza si manifesta con maggior forza. Evagrio Pontico può arrivare a sostenere la tesi secondo cui un sonno senza immagine testimonierebbe della buona salute dell’anima. Il sogno diventa eretico e come tale viene bandito. Sono gli eretici a ricorrere ai demoni del sogno: tale suona ad esempio l’accusa rivolta da Ireneo di Lione ai discepoli di Simon Mago e di Carpocrate. Eppure, forse, niente come il sogno ci rimanda a Dio.

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Giorgio Antonelli