Adattato da: Giorgio Antonelli, Il mare di Ferenczi. La storia, il pensiero, la vita di un maestro della psicoanalisi, Roma, Di Renzo Editore, 1996
Fritz Perls ha testimoniato, nella propria autobiografia, il proprio sentirsi intrappolato nella rigidità dei tabù psicoanalitici. Per tabù psicoanalitici egli intendeva la scansione del trattamento (50 minuti a seduta per cinque volte alla settimana), la mancanza di contatto tra terapeuta e paziente, l’assoluta assenza di coinvolgimento personale (ovvero di controtransfert). Una sequenza che ricorda da molto vicino le accuse ferencziane alle “trappole” della psicoanalisi. In particolare Perls lamentava l’eccessiva rigidità del suo analista ungherese, Harnik, un medico che aveva condotto un’analisi con Ferenczi e che da questi era giudicato, secondo quanto si trova scritto nella lettera inviata a Freud il 18 dicembre 1912, “terapeuticamente negativo”. A causa dei suoi stretti rapporti col governo rivoluzionario di Béla Kun, Harnik si era trasferito in Germania nel 1922 per timore di una rappresaglia del nuovo regime ungherese e si era formato con Sándor Rado a Berlino, alla scuola di Abraham. Harnik era uno che credeva nell’analisi classica, passiva. Un termine che Perls non esita a definire “contraddittorio”. Ad ogni buon conto Perls cerca di spiegarlo, di tradurlo in fatti, in eventi. Analisi passiva significava, per lui, andare a sdraiarsi per diciotto mesi, cinque volte alla settimana sul lettino di Harnik, senza che però questi lo analizzasse. Harnik aveva un modo curioso di segnalargli la fine dell’ora, grattava il pavimento col piede cinque minuti prima del termine ed evitava anche, contro l’uso invalso tra gli psicoanalisti operanti allora in Germania, di stringergli la mano. Quanto a parlare, Harnik era estremamente parco, circa una frase alla settimana, una frase ogni 250 minuti. Una di queste, pronunciate all’inizio del trattamento, era che Perls gli sembrava un dongiovanni. In forza di quest’affermazione Perls racconta che, per riempire il vuoto della sua vita di paziente sul lettino dello psicoanalista passivo Harnik, inventava storie di amori per la maggior parte false. Quella con Harnik era un’“analisi didattica” e Perls non si sentiva di abbandonarla per codardia. In ciò era condizionato dal fallimento della precedente analisi, quella condotta con Clara Happel. Con la Happel la psicoanalisi, scrive Perls, era una sorta di idea fissa, un dovere, una “regolarità forzata”. Perls trovò comunque un escamotage per terminare l’analisi con Harnik: gli comunicò l’intenzione di sposarsi. Fu a quel punto che Harnick ricorse a un trucco da psicoanalista (e qui si comprende come la passività si stemperi alquanto) dicendogli (prescrivendogli) che finché era in analisi non poteva prendere nessuna importante decisione. Se l’avesse fatto, Harnik avrebbe interrotto l’analisi. Perls ovviamente lo fece e si ritrovò senza analisi oltre che, relativamente alle sue sorti di aspirante psicoanalista, piuttosto disperato. In questo stato consultò Karen Horney che gli consigliò, come unico possibile analista per lui, Wilhelm Reich.