L’autore del recente «Eros e Pathos» lo definisce un processo di trasfigurazione che ci fa vedere ciò che gli altri non riescono a vedere
Intervista di Luigi Giordano
30 Luglio 1988, Il Mattino, Cultura
Le inquietanti verticalità di Villa Cimbrone atterriscono, precipitano perfino nell’occhio più allenato alle vertigini. E il mare immenso immobile sprofondato sotto una Ravello irta, richiama apparizioni e vascelli fantasmi. La Ravello di Wagner. Roland Barthes, per la voce del tragico musicista, dice a sé, in frammenti notissimi, che il vagamento amoroso ha dei lati comici, sembra un balletto più o meno agile a seconda del soggetto infedele; ma è anche un’opera. L’Olandese maledetto è, infatti, condannato a vagare per immensi mari immobili fino a quando non avrà trovato una donna fedele in eterno. E l’Olandese Volante non può impedirsi di errare, per amore, a causa di un marchio che in tempi remoti lo ha destinato al Dio Immaginario infliggendogli una turba di parole che lo porta a dire «ti amo» di tappa in tappa, fino a che una donna raccoglie questa parola e gliela restituisce.
Nessuna donna farà, però, mai sua la risposta impossibile, eterna, di una completezza insopportabile, e così, il viaggio continua. Fino alla morte, fino all’eterno. È il vagamento di un vascello fantasma. Junghiano com’è, in questa Ravello di tragici approdi, di amori e di fioriture poetiche, nella villa di Wagner, parla Aldo Carotenuto, maestro e autore di Eros e Pathos.
-Professore, le racconto una storia. Un soldato cercava il suo cuore e un saggio gli disse: «Sta dall’altra parte del mondo». Il soldato andò, ma non lo trovò, il saggio, allora, gli disse che egli in realtà, viaggiando, aveva ritrovato il cuore. Secondo lei in quel vagamento, il cuore lo aveva ritrovato dentro o fuori?
«Potremmo dire, poeticamente, che alla fine del viaggio il soldato non ritrova semplicemente il proprio cuore ma l’antico, vecchio cuore del mondo. Ogni movimento dell’anima non può avere un corrispettivo nella realtà esterna, così come ogni movimento che noi compiamo
nella vita non può che avere ripercussione profonda e trasformatrice sulla nostra anima. La concezione occidentale che l’interiorità e la vita siano diverse, che la psiche dell’uomo sia scindibile nella polarità corpo-mente, materia-spirito, si traduce in una realtà esistenziale alienante che costituisce il maggiore fondamento della nostra sofferenza nevrotica. Il cuore, l’eros, dovrebbero essere ritrovati sia dentro che fuori, fra sé e la vita, fra sé e le cose».
-Ma in un viaggio alla ricerca del cuore quanto contano gli occhi, le cose, i paesaggi incontrati?
«Gli occhi, i paesaggi, le cose, nel corso di questo viaggio assumono significati, magari proprio perché mutevoli e contraddittori, che cominciano a toccarci in profondità e forse sarebbe meglio dire a risvegliarci. Bisogna intendersi: occhi bellissimi e paesaggi che vengono incontro alla nostra vita si illuminano anche e sempre di una nostra luce interiore. Specialmente nei rapporti umani, l’esperienza dell’incontro è riferibile alla nostra interiorità. Questo significa che in effetti è come se avessimo dentro di noi una luce che riempie di colori il mondo. È anche vero che noi ci orientiamo verso le cose che ci interessano. Quindi quando si è colpiti da una fanciulla, è ovvio che la fanciulla esiste, ma perché sono attratto proprio da quella persona? Quella persona evoca un’immagine, fa emergere appunto una dimensione interiore. Ma questo qualcosa, questo “altro” interiore che il soggetto reale è in grado di evocare così potentemente nel mio immaginario, è sconosciuto anche a me stesso: è un progetto, una potenzialità inconscia, di cui non so ancora nulla. È questo che mi afferra, mi affascina e mi costringe su quel cammino».
-Tutto è sempre o solo interiorità?
«Si potrebbe rispondere a questa domanda in due modi opposti e sarebbero entrambi ugualmente veri: “È evidente che non tutto è sempre interiorità”. Ma anche che “tutto è sempre e solo interiorità”. Ciò che qui ci interessa è l’individualità del soggetto, la prospettiva dell’interpretazione nel suo rapporto con l’esistenza, con il mondo: il punto di vista della psiche. Del resto per usare un’espressione molto bella, io come psicologo non posso che “fare anima”, posso costruire con l’altro che è di fronte a me un mondo forse sconosciuto perché ci fa paura, il mondo cioè nel quale non c’è più posto per la menzogna, un mondo dell’anima. In questo senso noi possiamo dire che parliamo con il punto di vista della psiche».
-Un analista amante di poeti ha scritto che «se salpiamo verso lidi sconosciuti, rischiano anche di fallire, di naufragare, contrariamente a chi sceglie di rimanere sulla riva». Quali sono, per lei, i viaggi più «perigliosi».
«La ricerca nella propria interiorità profonda. Solo attraverso questo cammino si incontrano quei pericoli che veramente ci toccano. Molti assumono le disavventure della vita, che sono comunque tante, come momenti totalizzanti e non capiscono che per quanto gravi esse
siano, non intaccano mai il senso della nostra identità, la nostra statura interiore che comunque ci sorregge anche nelle avversità. Si ricordi che le difficoltà esistono soltanto per essere superate. Ma quando invece prendiamo di petto direttamente noi stessi allora tutto cambia, così come cambia un paesaggio che nasconde qualcosa: quando con la nostra ricerca portiamo alla luce il suo segreto di fatto lo trasformiamo. Trent’anni di vita professionale mi hanno messo a contatto con centinaia di storie umane e posso dirlo: il vero nemico risiede dentro di noi ed il viaggio altro non è
che il tentativo di andargli incontro. Tentativo perché rapporto inesauribile e, come l’orizzonte, abbiamo soltanto l’illusione di toccare ma mai di afferrare completamente. È un viaggio nel quale si possono perdere le coordinate ma, in fondo, non direi a nessuno di non intraprenderlo perché
soltanto questo dà senso alla vita. E questo viaggio, il cui senso percorre tutta la letteratura mondiale, può farsi in diversi modi. Anche i conquistatori di inesplorati territori o i fondatori di nuove dinastie a loro modo si mettono in cammino per questo viaggio. Solo che essi equivocano
sul senso del viaggio stesso, identificandolo con la realtà del mondo, con la fattualità dell’obbiettivo prefisso, come se la meta assumesse pregnanza di significato rispetto al percorso».
-Quello stesso analista ha fatto un viaggio nell’amore dandosi come sponde eros e sofferenza. È sempre vero, secondo lei, quello che l’analista scrive e che cioè il viaggio nell’altro è sempre un viaggio in sé stessi?
«Bisogna intendersi per evitare equivoci. È ovvio che esiste una realtà fuori di me e che la presenza dell’altro è indispensabile, ma come ho già detto altre volte non ci sarebbe nessun vero rapporto, nessuna passione travolgente o sconvolgimento profondo della propria persona se il
fenomeno non avesse un’eco interiore. Nell’amore non siamo passivi perché riusciamo a creare il nuovo. Lo definirei un processo di trasfigurazione quello che la dimensione amorosa ci sollecita,
nel senso che vediamo ciò che gli altri non riescono a vedere. Ma questa operazione che tende a forgiare un nuovo universo è solo una riedizione. Il nuovo è tale solo in apparenza perché nell’altro ricerchiamo quegli occhi amorevoli che nel lontano passato della nostra storia si sono a noi
sottratti. Il nostro bisogno di oggi è il bisogno di un tempo in cui la fusione totalizzante era quella che ci permetteva di vivere. È lo sperimentare il tradimento, l’abbandono, la sottrazione dell’altro che fa dolere i nostri cuori riconsegnandoci quelle emozioni profonde, viscerali, su cui la nostra
esistenza si è costruita, recando in sé i segni laceranti, ferite che aspettano solo di essere riaperte per mostrarci la nostra intima essenza. È come se insieme all’eros nella dimensione amorosa si vivesse tutto il pathos celato nella nostra anima. In questo senso “entrare” nell’altro diviene il
viaggio nella propria interiorità, il contatto con quanto di più antico si cela in noi».
-L’altro che ci rispecchia resterà, allora, nell’amore soprattutto, sempre e solo un mistero, una inconoscibilità?
«Bisogna avere il coraggio di dire la verità e non illuderci con penose bugie. L’altro rimane sconosciuto perché nella vera dimensione dell’umano il nostro destino è la solitudine. Sono tutte illusioni, parole senza senso, quelle che ci invitano a credere invece nella solidarietà, nell’amore per il prossimo. Se questi sentimenti esistono, essi sono sempre un riflesso del nostro desiderio che si costituisce come il motore della nostra stessa esistenza. In questa visione, allora, non è l’altro in quanto tale, e cioè come “altro” da noi, che ci attiva, ma è la sua persona che ci evoca i nostri personali vissuti senza che da parte nostra vi sia un reale impegno alla ricerca alla conoscenza di quella particolare individualità. L’altro, dunque, non è inconoscibile di per sé, bensì siamo noi che non vogliamo vederlo nella sua intima essenza perché questo spezzerebbe di fatto il
reciproco “incastro” amoroso».
-Non le sembra, tutto questo, anche un po’ disperato?
«Non credo che si possa parlare di disperazione. Con atteggiamento più consapevole dovremmo comprendere che si tratta della verità in cui si muove l’uomo. È riconoscere il senso del limite della propria onnipotenza, è prendere atto del cadere di un’illusione, quella che ci tramanda
la visione del rapporto d’amore come esperienza unicamente gratificante, mentre la dimensione amorosa ci inserisce il più delle volte nell’universo del soffrire. Ma nonostante tutto è nell’amore, nel desiderio, nel pathos che possiamo sentirci realmente vivi ed è per questo che nella mia vita
non smetterò mai di sentirmi e dichiararmi innamorato».