di Alessandro Uselli
Raramente di un film si è detto tanto quanto di Joker.
Questa recensione arriva a valle del fiume di parole dette e scritte dall’uscita del film, un fenomeno collettivo già sufficiente a mostrarci il potere destabilizzante dell’opera di Todd Philips, peculiarità propria delle opere d’arte più vere. Ci troviamo a scrivere per organizzare e dare senso a qualcosa che evidentemente ci ha turbato, segno che l’inconscio, individuale e collettivo, è stato sollecitato.
Joker è un film “perturbante”, nel senso che Freud attribuiva a questo termine. Forse è quel “Put on a happy face”, indossa una faccia allegra, a scavarci dentro trasversalmente, mimetizzati come siamo ad indossare una maschera sorridente per salvaguardare un apparente benessere individuale e sociale.
Il punto sovversivo di Joker si situa probabilmente proprio intorno a questo aspetto: ci mostra quanta violenza possa esserci in una felicità imposta, quanto dolore e prostrazione si situi nel giocare la parte dell’uomo felice come unica possibilità di sopravvivenza. La malattia neurologica di cui soffre Arthur ne è la metafora più vera: la sua risata parossistica, che si attiva al posto della paura, nasce da un trauma originario, dagli abusi fisici ed emotivi subiti in infanzia. Le lesioni al suo sistema nervoso hanno preso la via beffarda della risata incontrollata che si attiva di seguito a ogni emozione penosa.
La felicità come figlia della violenza: questo il messaggio insurrezionale di questo film, schiaffo prepotente al nostro ordine logico di considerare le cose. Una visione che irraggia considerazioni infinite – da cui il tumulto di contributi che sono stati offerti – e che nel nostro caso proveremo a spingere verso l’aspetto psicologico, individuale e collettivo.
Arthur è stato creato per ridere. Figlio non si sa di chi, viene adottato da una madre che ne fa il proprio antidepressivo – una delle violenze psicologiche più devastanti – non a caso affibiandogli il soprannome di “happy” e ricordandogli ogni giorno che il suo ruolo è di portare gioia e felicità nel mondo, nel suo mondo beninteso, arido di oggetti interni rassicuranti e di un narcisismo sano. L’oggetto-sé della madre Penny diviene quindi Arthur, ruolo che egli assolve con drammatica passione, confuso su chi egli sia o possa essere realmente. Il dramma che come psicologi scorgiamo in lui è di non aver potuto sviluppare una mente propria, un apparato per pensare, per poter riconsiderare e prendere le distanze dal destino che gli è stato imposto. Ce ne accorgiamo dalla natura allucinatoria dei suoi contenuti mentali, segno della fragilità dell’involucro psichico che separa realtà e fantasia, e dai contenuti delle fantasie stesse: Arthur ambisce di diventare un comico affermato, e nei suoi sogni si rispecchia negli occhi di una donna diversa dalla madre, una vicina di casa che guarda al suo spettacolo e alla sua esistenza con occhi che sanno di orgoglio e passione. Altrettanto vale per quanto riguarda per il rapporto con il paterno, attraverso ancora una volta l’immagine allucinata di un imago genitoriale che accoglie e valida la sua esistenza: il beniamino Murray dello show televisivo. Attraverso Murray, Arthur sogna l’individuazione, l’affrancamento dalla simbiosi con il materno folle, ricerca una funzione edipica sana che riconosce all’individuo il diritto a un cammino soggettivo nel mondo. Diceva evocativamente Winnicott che il padre serve a rendere umana la madre, ovvero a liberare madre e figlio da quell’incantesimo necessario nelle prime fasi dello sviluppo, ma che diviene letale quando si protrae all’infinito. Questo è oltremodo vero per Arthur, feticcio di felicità di una madre che si è curata attraverso il figlio a scapito della sua crescita psicologica. Le allucinazioni di Arthur hanno quindi il senso delle aspirazioni proibite e dissociate di una mente incatenata, di un Io che vorrebbe poter esistere, che sogna un femminile che ama e riconosce, e un maschile che separa e protegge.
Ma la funzione di terzo, propria dell’edipo, non spetta solo al padre e non si gioca solo all’interno della famiglia. La società, attraverso i suoi presidi e le sue istituzioni, incarna quel sovraordinato che dovrebbe garantirci e tutelarci nei nostri diritti fondamentali, primo fra tutti quello alla dignità e alla crescita sana. Ed è su questo livello che il film di Todd Philips assesta un altro colpo micidiale, sbattendoci in faccia il cinismo di istituzioni corrotte, schierate irrimediabilmente dalla parte dei primi della classe e disinteressate agli ultimi, ai poveri, ai folli.
Arthur scrive sul suo diario “la parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non l’ avessi”. E a dargli ragione sono i tagli all’assistenza medica e psicologica di cui avrebbe bisogno, l’indifferenza e il cinismo dei potenti come Thomas Wayne che definisce pagliaccio chi si difende dai soprusi di uomini come lui, la logica homo homini lupus propria del capitalismo che viene diffusa ad arte anche negli strati più bassi al fine di mettere il povero contro un altro povero (le traversie lavorative di Arthur ce lo raccontano). La vicenda personale di Arthur trova quindi una cassa di risonanza in una società folle, che analogamente a sua madre impone una happy face, una felicità coatta, una risata che ci seppellirà. Una violenza che chiama violenza.
“Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario e una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia? Te lo dico io cosa ottieni: ottieni quel cazzo che ti meriti!”.
Arthur, ormai Joker, svolta così il proprio dramma in commedia, lasciandosi pervadere dall’Ombra, aggredendo la realtà che lo ha soggiogato tutta la vita. Ha dovuto squarciare troppo amaramente il velo di Maya sulle verità della propria vita, scoprire da solo di non avere origini, di essere stato brutalmente maltrattato, di essere figlio/non figlio di una madre che lo ha amato solo per se stessa, di essere inutile per le persone in cui riponeva speranza. La storia avrebbe potuto avere un altro corso se Arthur fosse stato accompagnato a relazionarsi con queste realtà, a costruire un senso, a integrarle nella propria realtà psichica. Nonostante la rabbia psicotica che lo pervade, Arthur è ancora in grado di riconoscere in quali relazioni è stato riconosciuto, guardato con occhi sinceri, rispettato (“tu sei stato sempre gentile con me” dice al collega affetto da nanismo, scegliendo di non ucciderlo).
E’ per questo che un flusso di forte empatia pervade lo spettatore e lo disorienta perché lo fa accorgere di essere dalla parte di un bruto, di un folle. Arthur meritava ben altro dalla propria vita, aveva il diritto di essere guardato e sostenuto: è stato offeso in un bisogno che qualunque essere umano può riconoscere come proprio. Quella follia la conosciamo perché ci appartiene, è il lato oscuro della nostra faccia allegra.
That’s life di Sinatra, conduce beffardamente lo spettatore verso la fine di una pellicola che resterà impressa nella cinematografia di questi anni. Crudo e amarissimo, il film ha un incredibile valore psicoanalitico: non potremo non guardare al nostro Arthur e al nostro Joker interiore ed essere condotti a un rinnovato contatto non solo con noi stessi, ma anche con gli altri. E’ questo il valore aggiunto di Joker, riportarci sui bisogni primari, psicologici e sociali, che accomunano gli esseri umani.
Dopo averlo visto non sarà più facile – fortunatamente – indossare una faccia allegra.