Articolo in appendice del n. 29 del Giornale Storico del Centro Studi Psicologia e Letteratura dal titolo “SEGRETI“
Autrice Maria Grazia Monaco
Secondo il mito di Er raccontato da Platone(1) nella Repubblica :
Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine, un disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di essere venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino. (2)
La parola dáimōn ha origine dal greco antico e significa messaggero divino, spirito guida che aleggia in una zona di mezzo, detta metaxu, la stessa in cui risiede l’anima, e fa da tramite tra Dio e l’uomo. Il mito di Er anticipa innumerevoli concezioni esoteriche basate sulla continuità dell’anima immortale, che attraversa una molteplicità di esistenze mortali. Prima di venire alla luce in questo mondo, riceviamo un daimon, un compagno di viaggio, componente essenziale della nostra personalità, di cui non siamo consapevoli in quanto sordi e ciechi alle sollecitazioni del suo richiamo, che per lunghi periodi può restare segreto, essere ignorato, sottovalutato, ma prima o poi saprà farsi valere. Il daimon è la chiave per decifrare il codice dell’anima, quel linguaggio che ci svela la trama della nostra vita, la vocazione che è in noi da sempre. È una voce che da segreta si rivela, da muta diventa argentina, penetrante e capace di traghettare i contenuti inconsci verso la consapevolezza. Dice Jung nei suoi Ricordi :
È importante avere un segreto, una premonizione di cose sconosciute. L’uomo deve sentire che vive in un mondo che, per certi aspetti, è misterioso; che in esso avvengono e si sperimentano cose che restano inesplicabili. Solo allora la vita è completa.(3)
Hillman, studioso delle strutture archetipiche del mito, nel suo libro più noto Il Codice dell’Anima, narra la storia della vita di alcuni personaggi famosi, e dimostra che le scelte decisive, sono dovute al nostro daimon, dal quale dipende la realizzazione del proprio destino. La teoria della ghianda(4) di Hillman, spiega che ciascuno di noi possiede in sé l’essenza di ciò che è destinato ad essere, come lì nella ghianda è presente la quercia che non attende altro che esprimersi. Ciascun individuo è portatore di una unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di essere vissuta. Rudolf Steiner scrive:
Ciascuno di noi è chiamato a diventare uno spirito libero così come ogni seme di rosa è chiamato a diventare una rosa. (5)
Comprendere il mito vuol dire accettare il mistero, il divino, il senso del sacro e quindi le tonalità emotive primitive a cui il mito da vita. Hillman, riprende il celebre mito di Platone e tramite immagini, figure ed eventi di natura archetipica narra della vita, della morte, del giudizio, della libera scelta, della nuova esistenza delle anime dei defunti. Er è un guerriero morto in guerra, a cui è concesso di vedere cosa accade dopo la morte, per poi tornare su questa terra e raccontare quanto ha visto nell’aldilà:
Le tre Moire, figlie di Ananke, accompagnano il nascere e lo svolgersi della nuova vita delle anime: Lachesi assegna ad ogni anima, come custode della sua vita ed esecutore della sua scelta, un demone. Cloto, sancisce il destino che [l’anima] sceglie e Atropo rende immutabile la trama filata.(6)
Dopo aver liberamente deciso il tipo di vita che desiderano, le anime si dissetano nelle acque del fiume Lete, e dimenticano la vita precedente. Così il cerchio si chiude ed inizia la nuova vita, come sostiene Jung affermando che:
I vincitori delle tenebre risalgono fino ai tempi preistorici, e questo fatto dimostra che esiste anche una primordiale indigenza psichica: lo stato d’incoscienza. (7)
Platone, nel suo racconto mitico, narra che l’uomo sceglie liberamente la tipologia della nuova vita, rivoluzionando lo schema della tradizione greca secondo cui l’uomo era soggetto alla volontà degli dei e al destino, infatti dichiara:
La responsabilità è di chi sceglie; la divinità è senza colpa.(8)
Hillman, riprende e condivide questo concetto nel suo Codice dell’Anima e ribadisce che per seguire le tracce del proprio daimon e delle sue modalità di operare nella nostra vita, si deve andare oltre il gioco deterministico tra ambiente e genetica. La responsabilità etica è solo degli stessi uomini che hanno scelto la vita da vivere in futuro, tra le tante loro proposte nell’Ade.
L’essenza del destino, scaturisce dunque da luoghi remoti in cui il soggettivo è ancora intrecciato con il collettivo, in una dimensione inconscia. Comprendere il destino di un uomo significa comprendere i moti del suo inconscio; dipanarne le trame è difficile come penetrare l’inconscio, in quanto l’inconscio è sconosciuto per definizione e difficile a conoscersi per esperienza. Con il linguaggio dei simboli, Platone ambienta l’ origine del destino in un segmento preconscio dell’evoluzione e ricopre da una coltre d’oblio e di incoscienza i processi intuitivi che si compiono nelle fasi primordiali dell’esistenza, in cui un schema di vita s’imprime nell’identità individuale, ma anche nell’universale. Ecco perché il nostro destino è da sempre inscritto nell’anima e dipende solo da noi attuare la nostra intima vocazione e decifrare i segreti celati in essa. Il daimon comunica con la nostra psiche, attraverso i sogni, le visioni, le sincronicità. Decifrare ed accogliere tali richiami, spesso avvolti dal mistero, è ciò che fa la differenza tra una vita infelice, nella quale si è fragili e manipolabili dal sistema, e una vita in cui si è padroni di sé e consapevoli della propria realizzazione.
Essendo uno studioso di letteratura e mitologia classica, Jung, adottò alcuni termini antichi per la psicologia moderna. La mitologia descrive con le sue immagini archetipiche l’uomo alla ricerca della sua anima perduta. Il termine “daimon” diviene centrale per Jung, per quanto riguarda i temi relativi la chiamata, la creatività, il talento, la motivazione a realizzare se stessi. Il daimon è come un’entità psichica autonoma ma che ci conosce intimamente e che ci invia messaggi inquietanti, auspici o presentimenti. Nel senso originario e nell’accezione junghiana
(…)il daimon ci costringe, con il bisogno, a imboccare la via: il piccolo dio individuale, lo Shiva interiore.(9)
Dunque il daimon non è l’essere negativo che potrebbe essere associato al demonio. Nei suoi Ricordi, Jung confida di avere vissuto, scritto e sviluppato la psicologia analitica perché infuocato dalla potenza del suo daimon, fedele compagno di percorso e potente richiamo interiore che lo conduce ad iniziare un viaggio nello spirito del profondo. A tale proposito afferma:
Nessuna volontà cosciente può mai alla lunga sostituire l’impulso vitale che ci viene dall’interno, come una necessità, o una volontà, o un comando, e se – come più o meno abbiamo fatto da tempo immemorabile – gli diamo il nome di un demone personale, esprimiamo adeguatamente la situazione psicologica. E se, impiegando il concetto di archetipo, tentiamo di definire un po’ più da vicino il punto nel quale il demone ci afferra, ci siamo solo avvicinati di più alla sorgente della vita.(10)
James Hillman, circa il travaglio interiore che visse Jung, nel suo confronto con l’inconscio, così si esprime:
per far fronte a questa tempesta di emozioni annotò le sue fantasie e lasciò che le tempeste si trasponessero in immagini […]. Le figure che Jung incontrò per prime e che lo convinsero della realtà della loro essenza psichica […] derivano dal mondo ellenistico e dalla sua fede nei demoni. (11)
Nel Prologo del Libro rosso, nel brano in cui invoca la sua anima, Jung con un linguaggio potente, così si esprime:
Approda al luogo dell’anima colui il cui desiderio si distoglie dalle cose esteriori. Se non la trova, viene sopraffatto dall’orrore del vuoto.[…]. Quanti, infatti, oggigiorno sono in contatto con la propria anima? Senz’anima non c’è via che consenta di trascendere questo tempo. […].
La visione dell’alluvione mi sopraffece e percepii lo spirito del profondo, senza tuttavia comprenderlo. Esso però mi forzò causandomi un insopportabile, intimo struggimento, e io dissi: Anima mia, dove sei?(12)
Questo appassionato appello di Jung alla propria anima ritrovata, ci tocca nei punti più vulnerabili del nostro essere e nelle zone più ferite della nostra psiche. L’anima è un’immagine archetipica, espressione del divino a cui siamo connessi tramite la nostra essenza più intima, la voce del nostro daimon:
Una Voce aliena che risiede nell’inconscio, un comando, imperativo numinoso proveniente da una intelligenza superiore, una forza reale come la fame, la sete, la paura della morte. (13)
Il daimon junghiano, guida le nostre motivazioni e passioni; la sua realizzazione richiede cambiamenti che l’ambiente circostante non comprende. Se non siamo capaci di percepire i suggerimenti che ci giungono da quella voce aliena, l’anima soffre. Andare contro i nostri desideri e le nostre intime motivazioni porta spesso inesorabilmente e inconsapevolmente alla nevrosi, all’infelicità. Lo stesso Jung nei Ricordi dice:
…l’uomo spinto dal suo demone,[…]entra veramente in ‘regioni inesplorate o da non esplorare, dove non ci sono strade segnate, e nessun ricovero offre la protezione di un tetto. (14)
Jung, nel Libro Rosso, nelle sue visioni, mette in scena vari personaggi dalla personalità autonoma, indicativi di passaggi transazionali, che appaiono al bivio di scelte importanti e indicano la strada come sono soliti fare gli archetipi, portatori di nuovi assetti psichici. Tra i vari personaggi che incontra nel suo tormentato viaggio c’è il daimon che compare spesso e in vesti diverse. Il mago Filemone, spirito guida di Jung è come
un’intelligenza superiore, una presenza misteriosa, una voce che era come se venisse dalla mia interiorità.(15)
È un daimon buono e saggio.
Poi appare il Rosso, il diavolo che emana gioia e che gli suggerisce che:
La vita non richiede serietà. Al contrario: è meglio attraversarla danzando.(16)
senza lasciarsi travolgere dalla serietà del cristianesimo. Si avverte l’eco dello Zarathustra di Nietzsche, in cui il profeta invita a danzare senza curarsi della gravità dello spirito. Vivace il dialogo tra i due. L’Io si lascia trascinare dalle argomentazioni del Rosso, dalla sua provenienza pagana e dalla sua vitalità che emana gioia primaverile . Nel capitolo successivo, Il castello nel bosco, ancora travolto dalla levità del cavaliere rosso, e dall’imprevisto incontro con la strana ragazza del castello, l’io di Jung, fa alcune considerazioni a proposito delle avventure procurate dal diavolo:
Se non ti capita nessuna avventura all’esterno, non te ne capitano neppure nel tuo mondo interiore. La parte del Diavolo che hai accolto, ossia la gioia, ti procura l’avventura. Lì troverai sia il tuo limite più basso, sia quello più alto. […].La tua vita però mal sopporta di essere bloccata da barriere artificiali. La vita vuole saltarle, tali barriere, e tu finirai così per entrare in discordia con te stesso.(17)
Per Hillman, studioso di psicologia archetipica
Gli archetipi, gli dei e i miti non sono nomina, ma universali fantastici, gli a priori dell’anima. Ogni individuo è visitato da sintomi. Il sintomo è il primo annuncio del risvegliarsi della psiche che non intende più tollerare di essere maltrattata.(18)
La lettura analitica delle simbologie del mito di Er, non si riferisce a ciò che accade al di là della vita, nell’Ade, ma a ciò che accade al di là dell’Io, per cui definisce aspetti essenziali che riguardano la partecipazione della psiche alle vicende da cui dipenderà la sua vita terrena, collegando il destino individuale, all’universo infinito dell’origine cosmica. È difficile non ravvisare il parallelo fra i paradigmi di vita di cui parla Platone e gli archetipi di cui parla Jung. Entrambi sono preesistenti all’esistenza dell’individuo, entrambi danno un’impronta decisiva alle vicende dell’esistenza degli uomini.
Gli archetipi non sono creazioni fantastiche. Sono immagini primordiali, che affondano le origini in un passato comune a tutti e condizionano la struttura dell’inconscio sia personale che di tutta la collettività. Con la loro fascinazione potente si impongono alla parte razionale della psiche, suggestionandola e esercitando una spinta vitale che ne modifica gli assetti, favorendo lo sviluppo della personalità individuale.
La vita è un viaggio iniziatico che ci conduce alla verità e all’unione. Jung lo chiama: processo di individuazione. La meta è lo sviluppo della personalità individuale.
[l’individuazione] È anche lo scopo della vita perché è la più perfetta espressione della combinazione di destini che si chiama individuo(19)
Come dice Eliot:
Non possiamo smettere di esplorare, e alla fine della nostra esplorazione ritorneremo da dove eravamo partiti e conosceremo quel posto per la prima volta. (20)
Il traguardo di questo percorso è il Sé, l’unità e la totalità della personalità nella sua parte conscia e in quella inconscia..(21), come lo definisce Jung; l’armonia pacificata, la composizione di ogni conflitto, l’integrazione di tutti gli opposti, la realizzazione suprema. Il Sé, tiene le redini in mano togliendole all’Io e all’inconscio, che devono entrambi sacrificare qualcosa in favore di un nuovo assetto psichico.
Il Daimon per Jung, può anche essere definito il Sé personalizzato in ciascuno di noi. È un’identità profonda, inconscia, che interloquisce con la nostra coscienza e che incide sul nostro destino. Sono due parti opposte che si affrontano, per raggiungere una vita autorealizzata, e non decisa da altri e per altri, una vita in cui la nostra psiche inconscia e quella razionale, si confrontano e imparano ad intendersi.
Ma, è importante chiarire che non si possono sovrapporre e confondere i due termini Sé e daimon. Hillman, a tale proposito così chiarisce:
dobbiamo tenere distinto il daimon, che non è un altro temine per il Sé, ma è piuttosto una figura personificata o una voce che incita, e non può essere identificato con Dio, o con la totalità, o con la funzione trascendente, ecc. Il daimon non si presta neanche alla simbolizzazione.(22)
Il daimon non può essere simbolizzato perché non è qualcosa che deriva da un archetipo bensì è un aspetto di esso. Immaginiamo il nostro Sé come la parte più profonda, autentica ed immortale di noi. Esso vive, esiste sull’asse principale, sull’archetipo primo, la via del ritorno, il sentiero che ricostituisce il tutto, l’Uno. La coscienza è il suo bagaglio e il daimon la sua Voce. L’anima ha una funzione unificatrice di collegamento fra l’io e l’inconscio, il compito di trasmettere le immagini dell’inconscio alla coscienza, il daimon ne è la Voce.
Come sottolineato prima, per Jung tutta la psiche, conscia ed inconscia, ha un nucleo centrale che definisce il Sé e da cui, come raggi di sole, si irradiano tutte le figure archetipiche. Hillman, invece non riconosce la natura monoteistica, cristiana del Sé, come lo intende il suo maestro. Egli ha una visione politeista, in cui gli archetipi sono tanti quanto gli dei, frammentati, indipendenti, senza un’unità, un unico Dio che li compone. Il suo concetto di Anima Mundi non ha l’incisività del Sé, sostiene Franco Livorsi che in un suo saggio dichiara che:
l’Anima mundi, è come uno sfondo in cui si stagliano gli archetipi. Il Sé di Jung, invece è Dio (imago Dei) in noi, ma Dio trascendente-immanente, un mondo-uno, una totalizzazione nella e della psiche, un Dio come “mens interior”, un Sé come il nostro minimo comune denominatore che deve contenere anche il male. (23)
A proposito di un Dio che accoglie anche il male, il daimon di cui parla Hillman, non è sempre il daimon buono cui si riferivano gli antichi greci. Il Codice dell’Anima diventa sfuggente, quando si parla di carnefici, di daimon crudeli. Nel libro leggiamo le storie edificanti di artisti famosi, politici, maestri, discepoli, geni, ma troviamo anche le storie inquietanti del daimon dei bugiardi, violenti, razzisti, stupratori, sanguinari. Viene dunque naturale chiedersi se è giusto seguire sempre il proprio daimon, anche se è un carnefice malvagio. Chi è un carnefice, appartiene comunque a quell’Anima Mundi con cui Hillman ridefinisce il Sé. Le azioni del daimon devono potersi connettere a tutte le altre immagini e conciliarsi in un politeismo psichico. Ogni carnefice è un’inflazione dell’immagine del daimon, che invece si dovrebbe deflazionare per realizzare un daimon efficace, ma l’inflazione uccide l’immagine, come è avvenuto per Hitler o Nietzsche, che hanno trovato nella loro inflazione la fine. L’anima del carnefice, infiammata dalla passione che gli trasmette il daimon non discerne tra bene e male o tra giusto e sbagliato e può portarlo alla follia…
Hillman, parla di anima e di eros in maniera poetica dicendo che mentre l’anima si riferisce a una funzione interna strettissimamente connessa con la vita umana e con il suo destino, l’eros è un ‘daimon’, sta al di fuori e compie incursioni nella vita e nel destino. Noi ci innamoriamo e ci disamoriamo continuamente, per opera sua siamo trascinati e redenti, oppure dannati, ma ciò su cui l’amore opera non è l’amore, bensì l’anima. L’anima è il bersaglio della freccia, il combustibile del fuoco, il labirinto in cui l’eros intreccia la sua danza.(24)
E in Fuochi blu aggiunge che:
Rispondere alla chiamata del daimon, tradire la propria appartenenza, […], può essere una risorsa. Strappando tutto ciò che è noto dal suo solido terreno porta ogni problema in acque più profonde; e questo è pure un modo di fare anima. (25)
L’Anima, per Hillman, influenza il nostro vissuto, anche se in gran parte sarebbe erroneo dire che lo “determina”, perché è certo che, nonostante i condizionamenti, ci autodeterminiamo, come sostiene nel suo Codice, e siamo sollecitati a diventare quello che siamo. In quest’ottica, il vero processo di guarigione è il raggiungimento di una maggiore integrità e completezza. Secondo Hillman, l’anima inconscia anela a ritrovare se stessa, ma non sempre solo in se stessa, e dunque non solo nei sogni, nella vita onirica, ma anche nella veglia, nel vissuto, individuale e collettivo, aprendosi al mondo inteso sia come società, sia come natura. Egli sostiene che siamo come nella caverna di Platone, drogati, bloccati, ottusi, per cui non basta semplicemente svegliarci e guardare, ma occorre ritrovare se stessi e realizzarsi. Il vero fallimento dell’essere umano è la rinuncia a scoprire la propria luce interiore, non comprendere la nostra vocazione. Se ascolti il tuo daimon, se riesci a trovare te stesso, avrai dato alla luce te stesso e fatto di te un essere umano realizzato.
È importante, come suggerisce Kreinheder, comprendere che non dobbiamo contrastare le cose che più temiamo perchè non sono contro di noi, fanno parte della trama della vita, sono energie che se vengono accolte, ci portano verso la nostra realizzazione:
Certamente il destino è immutabile, come non si può alterare il cammino dei pianeti nella loro orbita, ma possiamo cambiare noi stessi in modo da favorire la sua realizzazione, invece di contrastarla. La tensione, le nevrosi, le malattie si sviluppano proprio perché ci si oppone alla propria sorte. Smetti di contrastare la sua trama ma piuttosto prendine parte, abbelliscila, rendila manifesta nel comportamento quotidiano: diventa attore del dramma, aggiungici qualche nuovo ingrediente e tutto comincia a cambiare.(26)
Maria Grazia Monaco è nata a Catania, dove si è laureata in Economia. Ricercatore presso l’Istituto di Scienza delle Finanze dell’università di Economia di Catania fino al 1998, coltiva da sempre l’interesse per la psicologia analitica, ed in particolare per Jung e Hillman. Negli ultimi anni si è appassionata allo studio del Libro Rosso e della psicologia alchemica.
In questo articolo, che si inserisce nel tema “Segreti” dell’ultimo numero di novembre della rivista del CSPL, tratta la figura del Daimon nel mito platonico di Er, ripreso sia da Jung, che da Hillman, e le sue origini immaginali archetipiche. Il daimon, è la voce segreta dell’anima, un richiamo che ci invia messaggi inquietanti, ci induce a realizzare il nostro destino e diventare ciò che autenticamente siamo.