Si è svolto lo scorso 7 Giugno, nella prestigiosa Aula Magna del rettorato dell’Università La Sapienza, il convegno “L’efficacia della psicoterapia psicoanalitica nei contesti di cura”, preceduto da un’audizione presso la camera dei deputati.
E’ il modo, impensabile fino a qualche tempo addietro, con cui gli psicoanalisti di diverse società si sono riuniti per testimoniare il valore di una cura dinamicamente orientata in un mondo in cui le politiche di salute mentale sembrano definitivamente rivolte ad interventi che riducano i tempi di trattamento e si avvalgano di dati concreti di efficacia.
Per la prima volta, forse, gli psicoanalisti si riuniscono politicamente e accettano di intavolare un confronto scientifico basato su prove empiriche oltre che su questioni etiche. Per di più in un’ottica protesa non tanto a rimarcare un’aprioristica superiorità su altre forme di psicoterapia, quanto a rivendicare la necessità di un pluralismo di interventi che nasca proprio da ciò che la ricerca scientifica testimonia.
Insomma, “What works for whom”, cosa funziona per chi e in che modo, per citare uno dei lavori di ricerca del filone di Peter Fonagy che avrebbe avuto la possibilità, anche in anni passati, di costituire un terreno di scambio fecondo con i vari vertici di osservazione di cui l’intervento psicologico si compone.
Difatti, se da una parte la presa di coscienza e l’azione coordinata intrapresa ci inorgoglisce e galvanizza, da un’altra ci lascia un filo di rammarico per il ritardo con cui forse ha preso forma. Viene da chiedersi se tutto ciò sarebbe comunque avvenuto qualora la sanità non fosse andata in contro alla crisi che conosciamo e non avesse sviluppato le simpatie, ormai consolidate, con gli interventi cosiddetti evidence-based che ad un certo punto hanno iniziato, pare, a delegittimare l’utilità delle terapie di orientamento psicodinamico (delegittimazione infondata, come nel convegno si è avuto modo estesamente di dimostrare).
E’ la crisi, lo sappiamo, a muoverci verso forme nuove. In questo senso è ampiamente giustificata la verve con cui i referenti istituzionali freudiani e junghiani (ammesso che queste definizioni abbiano ancora un’utilità) hanno deciso di fare fronte comune a sostegno di quella terapia che riconosce il valore fondante della storia, dei vissuti e degli affetti nell’architettura psichica di individui, gruppi e istituzioni.
Ci auguriamo che sia, al contempo, occasione per una rilettura critica del passato, un passato in cui le divisioni sono avvenute spesso volutamente e oseremo dire anche orgogliosamente. E non ci riferiamo soltanto alla diffidenza con cui gli psicoanalisti si sono confrontati con terapeuti di altri approcci, ma soprattutto alla distanza proprio da quell’ambito con cui adesso, finalmente, hanno deciso di dialogare.
Oggi gli psicoanalisti chiedono audizioni parlamentari non per sottolineare una superiorità auto affermata, ma si presentano con informazioni tangibili anche per i non addetti ai lavori, con dati di ricerca che spiegano come e perché un intervento psicodinamico possa risultare vantaggioso nella cura di psicopatologie che diversamente andrebbero in contro a recidiva, spiegano perché la cura solo dei sintomi sia miope nella misura in cui mette lo Stato di fronte alla possibilità di una più onerosa spesa sanitaria in futuro.
Ripensiamo quindi ai tempi in cui gli psicoanalisti ritenevano la ricerca scientifica un mero artificio di dubbia utilità per la clinica, i tempi in cui alcuni psicoanalisti guardavano ai colleghi che lavoravano fuori dal proprio studio come a degli psicoanalisti non “puri”, i tempi in cui l’oro della psicoanalisi non doveva confrontarsi col bronzo della psicoterapia.
Ma questo appare adesso, con ogni buona ragione, il passato. Un passato semmai da risignificare e il cui insegnamento gioverà a chi si forma alla psicoanalisi oggi e in futuro, sul solco che si è finalmente segnato con questo convegno.