Io, Michele e Caparezza
Michele o Caparezza?
Aprirsi o Chiudersi?
Ragione o Religione?
Servire o Comandare?
Guarire o Ammalarsi?
Michele Salvemini, in arte Caparezza, nato a Molfetta (BA), classe 1973, è uno dei cantautori/rapper italiani più famosi e discussi degli ultimi anni. Questo perché i suoi testi, così come le sue basi, son profondamente articolati, il più delle volte necessitano di un ri-ascolto, non di facile o immediata comprensione. Inutile dire che sono fan, per queste e molte altre ragioni, ma da laureata in psicologia e appassionata di varie espressioni artistiche, ho trovato esaltante il suo ultimo album “Prisoner 709”, sia da un primo ascolto, che da un approfondimento successivo. Credo che indipendentemente dai gusti musicali e dalla conoscenza o meno dell’autore, o dalla condivisione delle sue affermazioni o del suo modo di pensare, questo sia un album degno di nota, per il significato “umano” che esso sguinzaglia, a mio avviso immediatamente palpabile. Perché l’ho trovato un lavoro pieno, pieno di perplessità, pieno di interiorità, pieno di rapporto con l’esteriorità, pieno di riflessione, pieno di passione, pieno di messa in discussione.
Insomma, si intravede, tra le parole dei testi, un uomo che si interroga, che fa dell’arte musicale un ponte per riflettere, forse perché non può fare altrimenti. Ma partiamo dall’inizio. Caparezza, in un’intervista rilasciata a Radio 105, si definisce:
una prigione mentale secondo lui ben rappresentata dalla copertina dell’album, in bianco e nero (da un polo a un altro) e formata da cubi: cella da cui l’artista potrebbe evadere, ma che in fondo non vuole lasciare, perché ha voglia di interrogarsi su di essa. Prigioniero quindi della propria mente, dei propri “ruoli”. Quello che lo stesso Caparezza ha definito un “libro musicale” il cui titolo è nato ispirandosi agli eventi che ruotano attorno alle vicende avvenute alla Standford University nel 1971 dove il Professore di Psicologia Philip George Zimbardo fece l’esperimento che tutti conosciamo come “L’esperimento carcerario di Standford”, oggetto di molte critiche e discussioni, ma anche fonte di quello che successivamente il professore ha denominato “L’Effetto Lucifero” in cui afferma che gli individui sono fortemente influenzati da quello vivono e, oserei dire in generale, dai ruoli “sociali” che a essi vengono attribuiti. Nell’esperimento, infatti, 24 studenti universitari maschi, tra i 20 e i 30 anni, di ceto medio, poco attratti da comportamenti devianti, sono stati suddivisi in guardie e prigionieri, per dar vita a un carcere simulato, nel seminterrato del dipartimento di psicologia della stessa università. Un gioco di ruolo che si è rivelato molto reale, in cui le guardie hanno assunto comportamenti sempre più autoritari e aggressivi verso i detenuti e quest’ultimi hanno vissuto psicologicamente da prigionieri, sempre più annichiliti, impauriti, con forti scompensi emotivi (n.d. R. per chi fosse interessato il film The experiment (2001) per la regia di O. Hirschbiegel racconta le vicende reali dell’esperimento di Zimbardo)
L’esperimento ha avuto fine grazie al Prigioniero 819 (a cui è ispirato appunto il titolo dell’album), il quale ha iniziato uno sciopero della fame per capire se l’esperimento fosse ancora reale o meno. Questa è la storia del settimo “libro musicale” di Caparezza, in cui la prigionia mentale riveste un ruolo importantissimo, ma lo è soprattutto la sua scarnificazione, l’analisi di ogni piccola parte della stessa. Lui la descrive come “un’auto-analisi in 16 tracce”, perché Prisoner 709 in realtà è Prisoner 7 or 9, in cui il numero 0 prende in realtà la funzione della locuzione “o”, perché come riportato all’inizio di questo articolo, il rapper si domanda Michele o Caparezza? Aprirsi o Chiudersi? Ragione o Religione? Servire o Comandare? Insomma, più comunemente, chi sono io? Riesco a essere coerente? C’è un codice che mi identifica?
Sinceramente non so se l’album ha saputo dare delle risposte, ma a mio avviso esse sono un obiettivo secondario, perché sono integrate in un percorso di riflessione che va seguito con una certa attenzione, come dicevo all’inizio, perché ogni traccia ha una sua natura, una sua evoluzione, una sua complessità. La canzone di apertura si intitola “Prosopagnosia” o meglio, quella che io definirei la presa di coscienza, in cui si comincia a prendere atto, a interrogarsi sul quando, come e perché non ci riconosciamo in quello che facciamo o in quello che siamo
[…] si tratta ancora di me, ma non è lostesso [..]
dice Caparezza, una canzone forte, oserei dire, in un certo senso, rabbiosa, violenta.
Ed eccoci allora “Prisoner 709” (la traccia seguente), prigionieri delle nostre stesse domande e delle nostre stesse emozioni. Successivamente, tra le canzoni che mi hanno più colpita “Forever Jung” in cui, con un gioco di parole, Caparezza sottolinea l’importanza del rap come flusso di coscienza, come linguaggio giovanile e come mezzo di comunicazione atto a parlare di sé, a passare in rassegna il mondo e quello che esso provoca
[…] il rap è psicoterapia, quindi materia mia.
O ancora “Una chiave” in cui l’autore urla
[..] no, non è vero, che non sei capace,che non c’è una chiave [..]
riferimento simbolico alla chiave come interpretazione, come lettura del rapporto con la realtà.
Ne segue “Ti fa stare bene”, pezzo inflazionato, passato in radio tantissime volte, inno energico al “devi fare ciò che ti fa starebene”; ho avuto per questo brano più di un pensiero, perché il rapper in conclusione recita
[…] questa canzone è un po’ troppo da radio, ‘sti cazzi finché (ti farà stare bene).
Ed è andata proprio così, il brano, sicuramente orecchiabile, è diventato subito un successo radio, ma perché? Mi sono risposta che forse è perché, come Michele usa il rap per “salvarsi” allo stesso modo noi lo ascoltiamo per motivi affini, ed è quello che in tempi di empasse generazionale, sociale, lavorativa e personale abbiamo bisogno di sentirci dire che energicamente dobbiamo fare quello che ci fa stare bene. Perché oggi non è facile stabilire nemmeno questo, nelle più grande confusione che l’autore chiama “Confusianesimo” – la quarta traccia dell’album – che si potrebbe tradurre in confusione spirituale.
Un’altra canzone degna di nota è sicuramente “Larsen – La Tortura”, in cui l’autore parla del suo rapporto con gli acufeni, patologia che lo ha colpito durante il tour di Museica e che lo ha messo a dura prova, sicuramente come musicista, ma anche a livello personale, lo ha costretto a rivedere le sue abitudini e ha scaturito numerose perplessità, artistiche e umane: insomma, uno dei motivi, dubbi e riflessioni che hanno dato forma e vita all’album. Della serie:
[…] Hai voluto il rock? Ora Tienilo. Fino alla fine.
E’ un album che mi ha fortemente colpita, innanzitutto perché sono fan e condivido il modo di comunicare di questo artista, nonché l’utilizzo che fa del mezzo: mi piace la curiosità, il modo “scientifico” con cui affronta vari argomenti, il suo mettersi in dubbio a 40 anni, nel cercare una nuova “coerenza” che vada bene per ogni momento della sua vita. Insomma, Caparezza cerca prigioni da arredare, dice all’intervistatore che ora va meglio, perché è riuscito ad “allargarla” (si riferisce alla sua/sue cella/celle mentale/i). Consiglio vivamente di ascoltare e approfondire l’album, sia come opera musicale, sia, nel profondo, come opera umana, interessandosi anche al suo creatore, al perché del concepimento. Resta di fatto che, anche se apprezzando e condividendo il suo messaggio, rimango convinta che le “crisi” personali, ovviamente tra le più controllabili e lontane da quadri psicopatologici, hanno molti modi di essere affrontate e vi sono molte risorse “benefiche” a disposizione. Bisognerebbe sicuramente attraverso un complesso processo personale, trovare la propria “chiave”. Caparezza l’ha trovata nella musica. E secondo me, questo disco è una testimonianza di fede in essa.
Michela Farella, Dottoressa in Psicologia clinica della persona, delle organizzazioni e della comunità presso l’Università La Sapienza di Roma, tirocinante presso CSPL e Volontaria in Servizio Civile per il progetto dedicato agli anziani “Partecipi e Consapevoli” presso l’Ass. Televita con sede in Roma.