La presente intervista è tratta dal libro curato da Claudio Bencivenga e Alessandro Uselli Adolescenti e Comunità terapeutiche. Tra Trasformazioni e nuove forme di malessere (Alpes Editore)
A. Uselli
Leggendo le sue riflessioni sul disagio contemporaneo, caratterizzato da un’esigenza estrema di ‘godimento’, ovvero la ricerca di un soddisfacimento compulsivo e fine a se stesso, ci vengono in mente le immagini di molti degli adolescenti che incontriamo nella nostra pratica clinica comunitaria: ragazzi che spesso sembrano trovare la propria integrità solo nella dimensione di un piacere individualistico fine se stesso, che taglia fuori la relazione con l’altro. Ci può aiutare a delineare un profilo generale di questi adolescenti?
M. Recalcati
Il disagio della giovinezza oggi ha cambiato di segno. Sino a qualche decennio fa era impossibile riflettere sul disagio degli adolescenti senza implicare la dimensione più ampia della contestazione politica o solo anche prepolitica e individualistica del sistema sociale dominante. Il grande tema di quel disagio – che è stato il disagio della mia generazione e di quelle immediatamente successive – era quello del conflitto tra la spinta vitale del desiderio e l’ostacolo di un principio di realtà che veniva fatto coincidere dalle generazioni precedenti con l’ordine esistente. Questo conflitto negli ultimi decenni si è stemperato. La lontananza dei giovani dalla politica è solo una delle conseguenze di questo stemperamento. L’impeto del desiderio che esige una trasformazione della vita individuale e collettiva non sembra più caratterizzare la giovinezza contemporanea. Non è un giudizio nostalgico. A me pare una constatazione. Non è nemmeno una condanna morale delle giovani generazioni in sé, le quali, invece, manifestano a loro modo la vitalità del desiderio altrettanto intensamente. E’ il disagio giovanile che ha evidentemente assunto forme nuove. La diffusione epidemica dell’anoressia, della bulimia, di forme variegate di tossicomania, della violenza erratica, delle dipendenze patologiche legate ad oggetti tecnologici sono indici di un ripiegamento del soggetto su se stesso, di un suo ritiro narcisistico che comporta la sostituzione del legame con l’Altro con il legame con un oggetto inumano (droga, cibo, il culto della propria immagine, l’oggetto tecnologico, ecc). In questo modo il nuovo disagio giovanile non sembra prodotto dall’ingresso del corpo nello scambio sessuale ma dalla sua esigenza di evitare questo scambio per rifugiarsi in una dipendenza paradossale dall’oggetto della dipendenza che vorrebbe annullare la dipendenza costituente del soggetto dall’Altro. Insomma una constatazione si impone: la psicopatologia dell’adolescenza non ha più come centro il conflitto tra desiderio e realtà ma la difficoltà a soggettivare il desiderio, la fatica di desiderare, l’assenza, o, come direbbe Lacan, la forclusione del desiderio.
A. Uselli
Lei ha parlato del complesso di Telemaco, ovvero dell’attesa da parte dell’individuo di oggi del ritorno di un senso, di una Legge, che ponga fine al godimento senza freni. Nella situazione di un adolescente con psicopatologia che incontra un organismo di cura come è la Comunità, può avere senso parlare di Complesso di Telemaco, ovvero della speranza che l’istituzione curante possa ristabilire un “ordine delle cose” nella vita del ragazzo?
M. Recalcati
Con la figura del complesso di Telemaco ho voluto offrire un’interpretazione del disagio attuale della giovinezza. Nel racconto omerico la giovinezza ha due ritratti: il primo è quello di Telemaco, il secondo è quello dei Proci. Si tratta di due ritratti antagonistici. I Proci sono coloro che non nutrono alcun rispetto per la casa del padre, per la Legge della città che è la Legge della parola e dell’ospitalità: saccheggiano le dispense della casa di Ulisse, stuprano le sue serve, bivaccano, vogliono possedere incestuosamente la regina che potrebbe essere la loro madre, non fanno nulla della loro vita. Per Omero la “notte dei Proci” è un tempo di dissipazione della vita. Per noi questa è una grande metafora del nostro tempo dominato dall’incuria assoluta del discorso del capitalista. Telemaco rappresenta invece il ritratto del figlio giusto, di una generazione di figli, che diversamente dai Proci, ha a cuore la Legge della città. Per questo Telemaco, diversamente da Edipo, è il simbolo della necessità di ricostruire il patto tra le generazioni. Egli non vuole la pelle del padre e il corpo della madre; non è animato dal desiderio parricida e incestuoso. Attende il ritorno del padre per mettere fine alla notte dei Proci. Non si contrappone alla vecchia generazione ma sa bene che senza la ricostruzione di un patto tra le generazioni non c’è alcuna liberazione possibile. L’attesa di Telemaco è una domanda di padre. Ma questa domanda non è una domanda passiva, nostalgica. Telemaco è un figlio giusto perché non si limita ad attendere il padre ma si mette in gioco, si cimenta in un proprio viaggio. E’ qui che colgo la sua lezione più grande: la generazione Telemaco è la generazione dei figli che non ha paura delle insidie del viaggio, che viaggia senza padre pur ricercando il padre, che non si limita ad attendere passivamente….Nel campo della clinica in istituzione con gli adolescenti l’istituzione stessa può rappresentare la possibilità di fare i conti con l’Altro perché mette i giovani in rapporto con regole, funzionamenti, suddivisioni del tempo e dello spazio, ruoli, decisioni che iscrivono il soggetto in una polis, in una vera e propria comunità. E una comunità è ciò che resiste alla “notte dei Proci”, è ciò che dovrebbe riabilitare la Legge della parola e quella dell’ospitalità contro l’assenza di Legge che caratterizza il godimento incestuoso dei Proci.
A. Uselli
Il dono più prezioso, lei scrive, è la testimonianza, ovvero la trasmissibilità dei valori. Il lavoro comunitario, al di là degli aspetti più specificatamente terapeutici, può avere anche questo valore per gli adolescenti, ovvero di possibilità di tramandare un senso generale e una ‘Legge’?
M. Recalcati
Il senso della Legge, che non è una cosa diversa dal senso del desiderio, non si trasmette tenendo dei discorsi sulla Legge. L’efficacia di una trasmissione è sempre legata al modo in cui essa s’incarna. Voglio dire che se c’è stata trasmissione di un sapere, del senso della Legge e del desiderio, ci deve essere stata testimonianza. Cristianamente è l’incarnazione del Verbo che rende il Verbo stesso credibile. Dove un paziente può incontrare nella vita di una Comunità questa testimonianza? Innanzitutto nel desiderio degli operatori. Nel modo in cui essi si spendono nel lavoro comunitario, nella loro passione, nella loro spinta a fare esistere un’autentica vita comunitaria. Non valgono discorsi generali sulla Legge o sul desiderio; è necessario che questa alleanza – l’alleanza tra la Legge e il desiderio – sia testimoniata, offerta in modo singolare, incarnata nella vita di un testimone. E l’istituzione stessa può essere una testimonianza incarnata.
A. Uselli
Tra i “mali” contemporanei lei annovera la scissione tra libertà e responsabilità, motivandola in questo modo: c’è liberta dove c’è limite. Quotidianamente ci chiediamo quanto e come possiamo limitare i comportamenti dei nostri adolescenti, essendo noi sempre preoccupati del sottile confine che c’è tra un limite che protegge e un limite che non riconosce il “bisogno” dell’altro. Come è possibile gestire secondo lei questa delicata questione nell’equipe terapeutica?
M. Recalcati
Permettimi di riprendere per un momento la domanda precedente. Cosa diciamo quando diciamo che la Legge ha un senso? Quando, dalla parte della psicoanalisi, affermiamo che esiste un senso della Legge? Di quale Legge parliamo? La sola versione della Legge per la psicoanalisi è la Legge della castrazione. Questa Legge iscrive nel cuore dell’umano l’esperienza del limite. Non c’è umanizzazione della vita se questa esperienza non viene sufficientemente soggettivata. Ed è solo questa soggettivazione che rende possibile l’esperienza della libertà. E’ questo che dobbiamo intendere bene quando parliamo di Legge dal punto di vista della psicoanalisi; l’esistenza del limite non serve a reprimere, comprimere, mortificare la libertà ma a renderla davvero possibile. Solo se si ha esperienza dell’impossibile si può davvero rendere viva la possibilità del desiderio. Nella vita di una Comunità terapeutica è fondamentale mostrare lo stretto legame tra la Legge e il desiderio, tra l’esperienza del limite e quella della libertà. Si tratta di un problema complesso. L’esperienza della Legge è l’esperienza della vita insieme e delle sue regole. L’esperienza della libertà è quella a cui la Legge stessa concorre dando la chances ai pazienti di poter manifestare nella vita insieme la singolarità irriducibile del loro desiderio. Attitudini, inclinazioni, anomalie, sintomi marcano lo spazio singolare a cui ogni paziente che accetta la Legge della parola che governa ogni comunità umana ha diritto. Non si tratta però di illudersi. La soggettivazione del senso più proprio della Legge – iscrivere nel cuore dell’umano l’impossibile – non è il frutto di un dressage comportamentale. Facciamo un esempio concreto: quando si stabilisce una regola non è decisivo che essa sia rispettata senza infrazioni. Ma è decisivo che essa renda possibile evidenziare i comportamenti che trasgrediscono il senso condiviso della Legge per permettere a coloro che trasgrediscono di riconoscere il loro atto e di accoglierne tutte le conseguenze che comportano. Solo se esiste una soglia si può rappresentare il suo oltrepassamento . Per questa ragione per la psicoanalisi l’emergere del senso di colpa non è mai solo un fatto patologico ma il segno di un’interiorizzazione soggettiva della Legge.
A. Uselli
Che cosa è quindi, o cosa dovrebbe essere, per lei una comunità per adolescenti?
M. Recalcati
Dovrebbe avere due anime. La prima anima è quella che rende possibile il sentimento di un’autentica ospitalità. E’ l’anima dell’accoglienza, del fare posto al soggetto. Questo significa per molti soggetti che vengono in Comunità a partire da storie piene di ferite e di traumi ricostruire dai piedi la figura dell’Altro. Questo significa che se la storia di questi soggetti ha offerto una rappresentazione inaffidabile, violenta, capricciosa, destabilizzante, angosciante, invasiva dell’Altro si tratta, attraverso il lavoro, terapeutico comunitario, di offrire un’altra rappresentazione dell’Altro, un Altro Altro rispetto all’Altro traumatico. E’ la prima anima di cui deve dotarsi una Comunità terapeutica: rendere possibile un Altro affidabile, regolato, attendibile, fondato sulla Legge simbolica della parola e non su quella arbitraria della violenza. Incarnare la possibilità di un Altro non traumatico, di un Altro che sa accogliere il soggetto.
La seconda anima è quella della valorizzazione della singolarità . Questo è assolutamente decisivo, soprattutto nel caso di una Comunità terapeutica per giovani. Cosa significa? Significa mettere in risalto la soggettività come differenza assoluta, come deviazione positiva dalla norma, come inclinazione anomala. Non si tratta cioè di correggere le storture della vite – rispondendo ad un paradigma pedagogico fatalmente autoritario – ma di renderle preziose. Nel trasformarle in progetti, imprese, vocazioni capaci di durare nel tempo. E’ questa la scommessa in gioco che si rinnova caso per caso: qual è il desiderio più proprio, più singolare, più storto, di quel soggetto? Come possiamo nel lavoro in equipe favorire l’emergere di questa vocazione? Solitamente si tratta di non odiare i sintomi del soggetto ma di provare a dispiegarli in modo tale da estrarne il succo più vitale. Anche il poeta lo canta: dai diamanti non nasce nulla, solo dal letame nascono i fiori…
A. Uselli
Come possiamo far crescere, se possibile, nei ragazzi che incontriamo la dimensione simbolica del ‘desiderio dell’Altro’?
M. Recalcati
Già…come si accende il desiderio? Come si accende una vita? Accendere un computer è facile; basta un click. Ma come si fa con il desiderio? Come si fa con la vita umana? Di nuovo tocchiamo il problema della trasmissione. Come si trasmette il desiderio? Esiste una sola possibilità che questa trasmissione accada. Il desiderio si trasmette solo attraverso l’incontro con un altro desiderio. Per contagio, per prossimità, grazie all’evento dell’incontro. In questo senso la comunità dovrebbe essere il luogo non dove si programmano gli incontri – l’incontro con il desiderio non può mai essere programmato – ma dove si muovono desideri decisi, dove l’incontro con il desiderio dell’Altro e, dunque, con il proprio è sempre possibile…
A. Uselli
In che modo a suo avviso il discorso del capitalista relativo all’Evaporazione del padre può influenzare le istituzioni comunitarie?
M. Recalcati
Le istituzioni comunitarie sono antagoniste per natura al discorso del capitalista. Esse mostrano che le relazioni contano più degli oggetti di consumo, mostrano che il senso della Legge fonda la possibilità del desiderio, mostrano che senza incontro con l’Altro la vita si disperde e appassisce, mostrano che la vita si umanizza solo laddove la sua parola è raccolta e ascoltata. Il discorso del capitalista promuove invece l’idolatria del godimento senza desiderio, l’incuria delle relazioni, riduce il soggetto ad una monade chiusa su se stessa… Per questo noi pensiamo che la crisi che può portare un giovane a seguire un percorso comunitario è sempre l’occasione per ricominciare la propria vita, per darsi un’altra possibilità, per essere un nuovo inizio. E’ il modo con il quale Lacan definiva l’esperienza della psicoanalisi. Cos’è un’analisi? si chiedeva . Risposta : la possibilità di ricominciare.