V’è una tendenza incessante dell’umano sentire, che sa innalzare lo spirito ad alte dimensioni o avvelenarlo scagliandolo in profonda consunzione: la ricerca di significato. Essa è lo spasmodico bisogno di avere a disposizione una spiegazione che consenta alla mente sostenuta dagli affetti di accettare ciò che le accade e di indirizzare il suo sentire e la sua capacità progettuale in confini stabiliti e su terre sicure. A volte, però, il sorriso beffardo del destino è più veloce della paura dell’uomo. Quando esso vince pare inutile ricercare ogni “perché”. Si perde nella casualità del vivere, stemperandosi nell’entropica esistenza di milioni di uomini che procedono innanzitutto attraverso dubbi e ambiguità. Perché il vivere umano in relazione col mondo è come un mare in tempesta nel quale anche cadere e naufragare può essere evento improvviso e imprevisto. Quando ci si trova lì immersi, quando le acque ci sovrastano e ci chiediamo come sia possibile che il passato più prossimo – quello dell’istante prima, della sicurezza e della stabilità – ci sembri così lontano e irraggiungibile, soltanto allora comprendiamo cosa sia la disperazione.
Ovvero: la totale mancanza di scogli cui aggrapparsi, di segnali da inviare.
Poi, il passo è breve e, troppo lontani dalla riva, ci si accorge di poter chiedere aiuto soltanto a se stessi. O a qualcosa che riecheggi nella nostra voce e abbia il sapore della divinità. O della fortuna. Comunque, dell’irrazionale e dell’improbabile.
In quel momento ci si affida semplicemente, in quello specifico istante non ha più valore se le braccia che dovrebbero tenerci siano o meno capaci di accoglierci, né se siano reali o soltanto l’allucinazione di un viandante nel deserto. In quel momento si è più vulnerabili che mai. Ma la mano che emerge dall’acqua alla ricerca di aiuto attira su di sé lo sguardo della tempesta e la raggiunge. Esposti, nella fragilità e nello sconforto, al potere dell’altro, potremmo appigliarci ad un gancio, una mano mendace che conosce bene l’animo umano. Che sa carpirne le debolezze e alleviarle offrendo il miraggio di una sponda lontana. Come l’elisir di eterna giovinezza o i numeri della fortuna.
D’altro canto quando l’animo è alla deriva , e preferisce non vedere e allontanare la consapevolezza della realtà con i suoi limiti e le sue dolorose rivelazioni, in quel momento anche ciò che è illusorio può essere miglior farmaco per la coscienza. Jung sosteneva che è lo stesso inconscio umano, il suo spirito arcaico e collettivo, a proiettare sulle possibilità del reale i fantasmi di antiche credenze, di un mondo sovrannaturale ove tutto sia concepibile e attualizzabile. E noi crediamo a quanto egli dice, poiché conosciamo la necessità dell’uomo di vedere ciò che desidera e fingere di non scorgere quello che si mostra sul ciglio della strada.
É proprio in circostanze simili – durante il sonno della ratio – che la mano che ci offre immagini fittizie e chiede compensi concreti diventa mano amica. Perché ha perfettamente compreso ciò di cui lo spirito necessita: illudersi. Giocare con se stesso per ricreare il reale secondo la propria volontà. E allontanarsi da esso nel momento stesso in cui pretende di trasformarlo.
Le verità esistenziali, quelle che ci contestualizzano e pongono nel mondo quali elementi con ruoli e doveri vengono sostituite di colpo dalle “illusioni”. Delle quali – è inutile nascondersi dietro ostentate razionalizzazioni – abbiamo spesso bisogno. Anzi le ricerchiamo, quasi fossero l’unico espediente per sopportare il marasma della vita, la condanna alla libera scelta e alla responsabilità individuale. Le illusioni fungono da alternativa, quasi un paradiso della psiche dove la logica causale della mente razionale si arresta e lascia che aspirazioni e desideri si facciano trasportare da una zattera poco sicura.
Quando la visione del reale diventa troppo accecante, quando lo sguardo si stanca e duole nel confronto con una verità riverberante e rischiosa, allora gli occhi si chiudono. E ciò che emerge sono quelle istanze fideistiche che materializzano i desideri e vedono la possibilità del loro avveramento. Chi, però, dall’altra parte ci offre queste possibilità miracolose e questi rituali prodigiosi, chi ci offre la via più diretta alla soluzione dei problemi attraverso la loro “negazione”, chi indica la strada senza avvisarci che è soltanto un fondale di scena, gli occhi non li ha mai chiusi. Il suo spirito è rimasto ancorato alla realtà ed alla terra, lasciando che altri si abbandonassero a sogni sciamanici e incantatori di serpenti.
Tratto da “Il Messaggero” del 26/01/2002