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LA SINDROME VAN GOGH

LA SINDROME DI VAN GOGH

nel mio lavoro
rischio sempre la vita
Van Gogh[1]

OLTRE LA PATOLOGIA

Antonin Artaud ha scritto una delle biografie più incisive su Van Gogh. E’ stata pubblicata nel 1945, 55 anni dopo la morte del pittore olandese. L’arte di Vincent, dice Artaud, ‘non attacca un certo conformismo dei costumi ma il conformismo stesso delle istituzioni[2]’. Van Gogh è il prototipo del profeta perseguitato. La psichiatria è stata lo strumento di tortura da parte dei suoi aguzzini[3]. Per otto anni il poeta e commediografo francese è stato internato in manicomio. Sulla pelle ha vissuto, come Van Gogh, il conflitto fra genio, follia e cure psichiatriche. Nel suo saggio in versi Artaud afferma che il pittore non si è ucciso. Non si è sparato da solo dentro una latrina, all’età di 37 anni, a Auvers-sur-Oise. No. Vincent è stato ‘suicidato dalla società.’

‘Un alienato è anche un uomo che la società non ha voluto ascoltare e al quale ha voluto impedire di proferire insopportabili verità’[4].

Lo psichiatra Karl Jasper dirà il contrario. Dall’analisi delle lettere inviate a Theo evidenzierà gli esordi e l’evolversi della malattia. Nel 1922 scriverà uno splendido saggio, che ancora oggi appare ad introduzione dell’epistolario.

Chi ha ragione Artaud o Jasper? Quale è il limite fra genio e follia, fra individuazione e integrazione? Che cosa è l’anticonformismo? Quando cioè l’anticonformismo svincola l’individuo dalle realtà obsolete che lo imprigionano? Quando invece esclude chi lo esercita da qualsiasi crescita relazionale, isolandolo in stravaganze senza finestre?

Le posizioni di Artaud e di Jasper riguardano la psicologia dell’arte e la cura della psiche. Ma riguardano anche ognuno noi, singolarmente. Cercheremo una risposta nella psicobiografia di Van Gogh. Il ribelle disadattato, per antonomasia. Il Nietzsche della pittura moderna occidentale.

DALLA PATOGRAFIA ALLA PSICOBIOGRAFIA

La psicologia ha un forte legame con l’arte. Ma ha anche un debito, che siamo chiamati a saldare. Noi, oggi, qui. Quale legame e quale debito?

Il legame è stato stabilito fin dalla ‘scoperta’ dell’inconscio, agli inizi del ‘900. Il debito invece è contabilizzato a causa di un tentativo di strumentalizzazione. La psicologia dell’arte si è all’inizio servita delle vite e delle opere degli artisti a difesa delle proprie tesi. In realtà i due piani sono disallineati. L’arte è primaria, soggettiva. La psicologia dell’arte è post-hoc, esegetica. Ogni indagine psicologica -per quanto brillante- rimane una sovrapposizione parziale, un plus teoretico, un costrutto, rispetto alla ricchezza del fenomeno artistico.

La psicologia non è superiore all’arte. Non la spiega.

Per questo, in riferimento a Van Gogh-pittore, appare insoddisfacente ogni ipotesi psichiatrica. Psicosi, secondo la scuola tedesca. Anche il fratello più piccolo e una delle tre sorelle di Vincent -è stato evidenziato- moriranno segnati dalla schizofrenia. Epilessia, secondo la scuola francese. Nel quadro dell’ultimo medico, Gachet (1890), che ebbe in cura Vincent, è disegnata una pianta. La Digitalis purpurea. E’ la terapia fitoterapica con cui furono affrontate le presunte crisi epilettiche di Vincent. Ebbene i principi attivi della Digitale avrebbero avuto un ruolo nel delirio cromatico del Van Gogh ‘francese’. L’accumulo di digossina e di digitossina provocano xantopsia. Un disturbo visivo che consiste nella visione gialla degli oggetti bianchi e nella visione violetta degli oggetti scuri. Girasoli e Iris, per intenderci.

Altri studiosi hanno messo in relazione l’ossessione per il giallo con una abitudine alcolica di Vincent. L’assenzio. Un liquore, oggi quasi in disuso, ottenuto dall’Artemisia absenthium. Il suo eccesso, abitudinario per Vincent, determina alterazioni cromatiche della vista. Va bene ma non basta. La psicologia dell’arte non può ridursi ad una patografia, né psichiatrica né psicoanalitica.

Il nostro punto di partenza è diverso: ‘psicobiografico’. Crediamo che la vita di un artista non ‘ingabbi’ i significati della sua opera ma li espanda. ‘Dopo la lezione strutturalista il testo d’arte non può più essere considerato come l’effetto della vita e della malattia del suo autore secondo un nesso deterministico che annulla l’autonomia dell’opera[5]’, spiega Massimo Recalcati.
Seguendo Aldo Carotenuto partiamo dall’assunto che quell’opera per essere creata aveva bisogno esattamente di quella vita. Niente di più. L’artista e le sue creazioni costellano un universo simbolico, in divenire. Un universo il cui mistero è descrivibile ma non risolvibile.
Ma c’è di più. Alla psicologia dell’arte siamo mossi da un interesse psicoterapeutico. Cioè? La pratica clinica è in sintonia con il godimento di un’opera d’arte. Il paziente e il testo artistico chiedono entrambi di essere ‘empatizzati’ prima che interpretati. Non si tratta di un rigurgito di spontaneismo. Come in un’opera, nella stanza d’analisi le immagini prendono vita. L’arte insegna a danzare con i prodotti dell’Anima.

LA SINDROME DI VAN GOGH

Esistono tre Van Gogh.
Il primo è un mercante d’arte dal 1869 al 1875, cioè dai sedici ai ventidue anni. Il secondo compie una scelta pastorale e missionaria, sulle orme paterne. Dal 1876 al 1880. Il terzo è il pittore che conosciamo. Dall’età di ventisette anni fino al suicidio nel 1890. In questi dieci anni di attività Vincent dipinge ininterrottamente. I primi cinque anni in Olanda, i secondi in Francia. Novecento quadri e mille disegni, per limitarci alle opere che ci sono arrivate.
Ebbene, nella psicobiografia dei tre Van Gogh possono essere colte alcune costanti. Le abbiamo riunite, chiamandole Sindrome di Van Gogh. Perché Sindrome? Perché è una terminologia già usata per indicare un assetto psichico non necessariamente patologico. Per ‘sinthomo’ si intende semplicemente: qualcosa che parla. Dal nostro punto di vista i quattro elementi costitutivi della Sindrome di Van Gogh sono: sentimento del sacro, catarsi mimetica, supplenza simbolica e identificazione narcisistico-ideativa. Quattro schemi ricorsivi che sono alla base della fortuna e della sfortuna dell’anticonformismo di Vincent.

La prima caratteristica è un intenso, pervasivo ‘sentimento del sacro’. ‘Cercate di comprendere l’ultima parola di quel che dicono nei loro capolavori i grandi artisti, là dentro sarà Dio[6]’, spiega Van Gogh, sacerdote e pittore.

Dopo aver inutilmente tentato la carriera nella casa d’asta dello zio Cent, Vincent si dispone a seguire le orme religiose del padre. Vuole diventare un pastore protestante. Non ottiene però la licenza pastorale (1878) per il rifiuto, lui poliglotta, di imparare il latino[7]. Afferma che quella lingua morta non gli serve per il mandato che sente di dover compiere. Un integralismo, una assenza di capacità mediative che gli precluderà la conclusione di tutti gli studi. Lo escluderà da qualsiasi appartenenza sociale. Ma soprattutto lo esporrà alla sottovalutazione e alle vessazioni della gente, come spesso capita agli introversi radicali. Ad Arles, qualche anno dopo, ad esempio, verrà indetta una petizione popolare per rinchiuderlo in manicomio.

Al rifiuto di conferirgli la carica sacerdotale Vincent ha una reazione imprevedibile. Senza nessun avvallo, parte in missione evangelica nel Borinage, in Belgio. Fra i minatori. Tre mesi più tardi una istituzione religiosa ne autorizza la missione. Gli fornisce anche una casa e uno stipendio. A Vincent il suo status di privilegiato però appare un impedimento. Regala i soldi e va a vivere, al pari di un mendicante, nella capanna di un minatore. Gli revocano l’incarico. Gli rimproverano di non aver saputo mantenere la dignità del mandato. In più -scrivono sul rapporto- è un oratore disastroso. Vincent non si arrende. Continua a predicare nel Borinage per un altro anno.
Da quel momento il figlio del pastore odierà ogni istituzione religiosa.

Il sentimento del sacro si trasferisce nella pittura. Alla missione fra i minatori seguirà la missione nella Natura. ‘Van Gogh vuole essere pittore del sacro, pittore dell’assoluto, pittore del ‘volto del santo’. Con la precisazione doverosa che per lui il sacro, l’assoluto, il volto del santo, non è mai accessibile attraverso una rappresentazione canonico-religiosa perché il volto del santo coincide con il volto del mondo’, spiega Recalcati.
Il sentimento del sacro è ciò che rende Vincent disperatamente diverso e allo stesso tempo in comunione spirituale con il creato. Soprattutto con i reietti del pianeta. Il sentimento del sacro in Van Gogh chiede stupore. Ma soprattutto coinvolgimento, dedizione, oblazione fino all’annullamento di sé. Ad una condizione, però: che a quell’impegno mimetico corrisponda un sentire autentico. Al di fuori dei protocolli ufficiali e delle convenzioni. Anarchicamente, direbbe Artaud.

I MAESTRI, MAUVE E SIEN

L’olandese è un intellettuale raffinatissimo.
A quattordici anni è fuori dalle scuole. Lo zio Cent, fratello del padre, lo impiega nella Goupil. Una galleria internazionale attiva nel mercato dei pittori contemporanei. Per lavoro soggiorna all’Aia, a Bruxelles poi a Londra. Infine a Parigi. A vent’anni conosce l’inglese e il francese come la propria lingua d’origine. Traduce dal tedesco le poesie di Holderlin. E’ un lettore scrupoloso di Shakespeare. Un divoratore dei romanzi d’oltralpe. Un appassionato della Storia della Rivoluzione francese, ad opera di Jules Michelet. Il primo autore che mette al centro della dinamica rivoluzionaria l’azione del popolo. Il filo conduttore di queste letture? La forza delle classi sociali dimenticate. Una visione ‘pasoliniana’ dei ceto meno abbiente.

Nel campo della pittura adora Millet per i suoi dipinti sui contadini, Delacroix per le sue immagini bibliche e Rembrandt per il talento assoluto. Amerà i maestri-ideali fino alla fine. Ancora poco prima di morire, ne copierà le opere creando capolavori superiori a quelli a cui si era ispirato.

Ebbene Vincent, così devoto ai grandi della cultura, così ossequioso verso le forme elevate di pensiero, si rivela un allievo impossibile. Nella realtà anche i maestri più bendisposti alla fine con lui si spazientiscono. Di loro Vincent serberà il fastidio di richieste di esercizi inutili piuttosto che gratitudine. La scuola, anche quella di pittura, ogni scuola, è per lui una prigione. Il creativo conserva sempre dentro di sé un senso di soffocamento nei confronti della didattica ufficiale. Tanto quanto è per lui gratificante, ossigenante, il dialogo con i maestri che idealmente frequenta.

Unica eccezione, Anton Mauve. Mauve era il marito della cugina di Vincent. Abitava all’Aia ed era un artista già famoso. A me personalmente i suoi quadri veristi piacciono. All’età di 27 anni Vincent ha deciso di dare una svolta alla sua vita. Non più mercante, né sacerdote ma pittore. Ha dipinto fin da piccolo. Nelle lettere con Theo, Vincent dimostra una capacità descrittiva minuziosa e di acutissimo osservatore. Però non ha mai studiato le tecniche pittoriche. Si trasferisce all’Aia (1881). Mauve gli insegna l’uso del colore ad olio e all’inizio dell’anno successivo l’uso dell’acquarello.

‘Theo, che grandi cose sono mai il tono e il colore! E chiunque non impari a sentirli, vive lontano dalla vita vera. Mauve mi ha insegnato a vedere molte cose che prima non vedevo’[8], scrive Vincent estasiato al fratello minore.

Ma fa anche di più, Mauve. Insieme a Theo, allestisce per Vincent uno studio.L’idillio dura poco.
Van Gogh delude le aspettative. Va a vivere con una prostituta senza dimora e incinta. Si chiama Clasina Maria Hoornik, detta Sien. L’ha portata con sé proprio in quello studio che doveva diventare la sede del suo riscatto sociale. Simbolicamente ci si può domandare: perché Sien? Quale dimensione dell’eros la sua presenza compensa? Perche Vincent ritiene essenziale affiancarsi ad un elemento di scandalo con il quale boicotta una carriera ufficiale appena iniziata?

Si potrebbe rispondere che la pittura ‘olandese’ di Vincent è costituita da Mauve più Sien. Vincent non vuole rinunciare ad esporsi per quello che è. La sua eroica ‘etica della soggettività’ gli impone scelte provocatorie, disallineate. Sien è l’Ombra, un femminile illecito, scabroso, tenero e laido allo stesso tempo. Nello studio allestito da Mauve, Sien è per Vincent la ricerca di una autenticità ‘erotica’ più profonda.

Sien è la modella di Vincent. Ne usciranno quadri e disegni divenuti famosi. Come Sorrow, Tristezza (1882). Il padre è infuriato. Mauve evita Vincent e non risponde alle lettere. Lo accusa di ‘comportamento vizioso’. Theo minaccia di non inviargli più i soldi. Per Vincent è una prospettiva mortale. I suoi quadri non si vendono; per tutta la vita Vincent non è mai stato economicamente autonomo. Dopo molti mesi di isolamento, e dopo un ricovero per gonorrea, Vincent lascia Sien. Torna a vivere a casa dai genitori. Alla sua pittura manca ancora qualcosa.

L’epilogo avviene in occasione della morte di Mauve, nel 1888. Vincent si trova ad Arles, in Provenza. E’ all’apice della produzione. Il pittore olandese dedica al suo ex tutore uno dei quadri ‘giapponesi’ più delicati. Il mandorlo rosa. Ecco che cosa mancava alla pittura di Vincent in Olanda: l’essenzialità, la purezza dei colori e della luce. L’intima sobrietà delle forme, come nell’arte del Sol Levante. Vincent spedisce il quadro alla vedova.
Il mandorlo rosa sarà l’unico atto di riconoscenza verso i maestri-reali.

LA CATARSI MIMETICA E GLI AUTORITRATTI

‘Fino alla fine fu sostenuto da una fede che niente doveva alla chiesa o ai dogmi. Guardò sempre alla sostanza, al senso profondo dell’esistenza[9]’, dice di Vincent, Jasper

Il sentimento del sacro in Van Gogh si manifesta attraverso una ‘catarsi mimetica’. Tradotto: io sono l’Altro o non sono niente. Solo quando io e l’Altro siamo tutt’uno, indistinguibili, arrotolati, impastati, diventiamo significanti. Vincent ‘è’ la realtà che disegna. Questo è il suo genio.

E’ il motivo per cui non si firma mai con il cognome. Usa la sigla ‘V’ oppure il semplice nome Vincent. Come Rembrandt, il suo più grande maestro. Il cognome Van Gogh rappresenta l’insopportabile sovrastruttura che ha sempre rifiutato. Vincent è l’umile operaio che si mimetizza nella sua opera.La definizione di catarsi mimetica deriva da una intuizione di Rene Girard[10]. Il desiderio mimetico è la pulsione a ripetere l’altro, dice l’antropologo francese. Per Girard il meccanismo mimetico è universale. Per Van Gogh -secondo la nostra tesi- è la sua unica fonte di salvezza.

Nella catarsi mimetica Parigi rappresenta uno spartiacque. Uno spostamento del baricentro. Prima era il mondo dei diseredati a dettare le regole. Lo sforzo di Vincent in apparenza era solo di adattamento. Ne sono un esempio le atmosfere tetre, deprimenti dei contadini olandesi dipinti a Nuenen.

Da Parigi in poi è la realtà a conformarsi alle introspezioni visionarie dell’artista olandese. La sua soggettività diventa il tramite di un lavoro alchemico di ricostruzione e di liberazione della materia da se stessa. Il giallo divorante del periodo di Arles –nei girasoli, nei campi di grano, nella casa e nella stanza dove egli abitava- oppure le contorsioni ipnotiche del periodo manicomiale di Saint-Remy -nei cipressi, negli iris, negli olivi, nelle notti stellate- sono il sigillo di uno stile di appropriazione. Il modo di ‘dare anima’ agli oggetti. L’estrazione dalla Natura del ‘centro incandescente della Cosa[11]’, per dirla con Recalcati.

Quando avviene questo passaggio? A Parigi, in coincidenza con il periodo degli autoritratti. La fase narcisistica dello specchio ‘benevolo’.

A Parigi Vincent acquista consapevolezza delle proprie capacità di pittore. Impara dall’impressionismo l’uso del colore. Frequenta (1886) la scuola di Cormon. Due mesi dopo, l’abbandona. Conosce i migliori pittori della ‘ville lumiere’. Forma con alcuni di loro –Toulouse-Lautrec, Emile Bernard, Paul Gauguin- il gruppo del ‘petit boulevard’. Sono coloro che espongono sulle pareti del caffè Le Tambourin, di madam Segatori. Una ex-modella italiana con cui Vincent stabilirà una relazione. Finirà cacciato dal locale, per mano del nuovo amante della padrona. Il fratello lo fa entrare in contatto i pittori più quotati del momento. Monet e Seurat, fra gli altri. Loro, già famosi, costituiscono il ‘grand boulevard’. Espongono nella galleria gestita da Theo. Ebbene a Parigi il risveglio dell’Io coincide con la fase degli autoritratti, fra il 1886 e il 1887.

Van Gogh è autore di circa trentacinque autoritratti. La maggior parte dei quali, ventotto, sono stati eseguiti nella capitale francese. La psicobiografia ci racconta che Vincent si compra uno specchio. Il fratello Theo, che lo ospita, si è assentato per un viaggio. A causa del
costo elevato dei modelli Vincent si rinchiude nell’appartamento. Inizia a disegnare se stesso in lavori di sperimentazione. Nei primi ritratti utilizza le tele già disegnate con i nudi, presso lo studio dell’antipatico Cormon. Nei successi gira le tele e dipinge l’autoritratto sul retro. Poi compra nuove tele. Un progressivo aumento di dignità dell’oggetto raffigurato: lui. Infine, quando lascia Parigi, dipinge l’autoritratto più grande, per dimensioni. Il primo in cui si raffigura con la tavolozza.
E’ il segno di un traguardo identitario e professionale, ormai raggiunto.
Da questo momento in poi Vincent si trasformerà in un creatore di favole.

LA SUPPLENZA SIMBOLICA E LA CONSACRAZIONE DEGLI OGGETTI

Il terzo elemento di quella che abbiamo voluto chiamare la Sindrome di Van Gogh è la ‘supplenza simbolica’. Così l’ha battezzata Massimo Recalcati, autore di una splendida psicobiografia sul pittore olandese. La supplenza simbolica parte dalla percezione di uno scollamento. Niente di ciò che per gli altri è già dato, per lui pulsa. Il mondo è come una tela vuota. Vincent è condannato, a differenza della gente comune, a ricostruire i suoi mondi, prima che gli diventino familiari.
E’ il destino di ogni personalità creativa. Ripetere la genesi del cosmo.
In Van Gogh questa condanna diventa arte.

Rispetto al primo elemento, che abbiamo definito ‘sentimento del sacro’, la supplenza simbolica rappresenta l’asseto operativo. L’elaborazione di nuovi linguaggi. In fondo la supplenza simbolica è la parte sana di Vincent. Ma anche quella dentro la quale si consuma.
Le due supplenze simboliche alle quali si è affidato per dare valore al reale sono state: la religione e l’arte. Entrambe, personalissimamente intese. Due supplenze in continuità. Sia per i temi religiosi dei suoi quadri quanto, soprattutto, per l’attitudine a ‘consacrare’ la vita ordinaria.

La consacrazione ad esempio degli oggetti umili, come le scarpe. Heidegger[12] sul ciclo delle scarpe di Van Gogh scriverà un saggio. Ne inizierà una polemica con lo storico dell’arte Shapiro e con il filosofo Derrida. Lacan riprenderà il discorso. Il fine dell’arte non è imitare le cose ma disvelarne l’essenza. Si domanda da questo punto di vista Recalcati[13]: ‘’Lo stato di abbandono delle scarpe non è lo stesso stato che Van Gogh vive come un destino? Le scarpe non sono allora forse l’autoritratto più riuscito di Vincent Van Gogh?’.

Vincent rende sacre le piante: i girasoli, espressione di una vita direzionata, desiderosa, piena di aspettative. Una vita recisa, così come i girasoli vengono dipinti dopo l’abbandono di Gauguin. Vengono progressivamente sostituiti dagli Iris. Sono i fiori del prato del manicomio di Saint-Remy, dove è stato ricoverato. Fiori caduchi, privi di aspirazioni, ammassati. Vincent rende sacri i cipressi funerei. I covoni di grano, prima generosi nel periodo di Arles. Poi avvolgenti, altissimi, cupi, minacciati dai corvi nei periodi successivi. Costruisce agiografie intorno ai contadini: nel seminatore di grano, ad esempio. Nella versione provenzale –rispetto a quello olandese di alcuni anni prima- il seminatore diventa un santo. Sulla sua testa il sole forma un’aureola. Dalle sue mani invece di semi escono gocce d’oro.
Vincent non è religioso nel senso canonico del termine. Per questo i ritratti a sfondo biblico o confessionale sono pochi. All’inizio e alla fine dei suoi dieci anni di attività.

A Neunen, quando è costretto a vivere nella casa pastorale del padre, dipinge tele di disappunto verso la religione ufficiale. Ad esempio: ‘Lasciando la Congregazione della Chiesa Riformata di Neunen’ o ‘La Vecchia Chiesa di Neunen’. Ma soprattutto, in occasione della morte nel 1885 del padre, l’ex missionario dipinge ‘Natura morta con Bibbia’. Quadro in cui è raffigurata una Bibbia, aperta nei versetti di Is 53. Sono le pericopi in cui è preannunciato l’avvento di un Salvatore che cambierà il mondo. Accanto, sul tavolo, vi è un romanzo chiuso di Emile Zola. Il romanzo si intitola ‘La gioia di vivere’. Narra il disfacimento di una famiglia tradizionale borghese. La Bibbia rappresenta la fede tradizionale del padre Theodorus, che detestava i romanzi veristi francesi. Li definiva immorali. Vincent li adora.

‘Anch’io leggo la Bibbia, di tanto in tanto, come leggo Michelet o Balzac o Eliot; ma nella Bibbia vedo cose diverse da quelle che vede papa e non posso trovarvi tutto ciò che lui vi trova interpretando secondo la sua mentalità accademica[14]’, scrive in una lettera a Theo.
Bibbia e naturalismo. E’ il confronto fra due supplenze religiose. La prima istituzionale. La seconda, inedita e tormentata. Modernissima.
La supplenza simbolica è anche nel quadro intitolato ‘I mangiatori di patate’ (1885). Il capolavoro, è stato detto, della prima metà della vita artistica di Vincent. Quella in Olanda. Il dipinto è dismorfico, claustrofobico. Lontano anni luce dagli approdi di colore, ai quali giungerà il Van Gogh francese.
Ne ‘I mangiatori di patate’ raffigura una tavolata di contadini riuniti al lume di candela per cena, all’interno di una stanza. In realtà, spiega Vincent, l’episodio si ispira ad una rivisitazione laica e pauperistica dell’ultima cena di Rembrandt. I contadini sono i nuovi apostoli di un Cristo incarnato nei lavoratori della terra.

Dopo una latenza di alcuni anni, i quadri a sfondo religioso ricompaiono nel periodo ‘psichiatrico’ di Vincent. Tre opere in particolare. Due copie di Delacroix, infinitamente più emozionanti degli originali. Raffigurano una Pietà in cui il Cristo ha il volto dell’autore. Nell’altro quadro è dipinto un Buon Samaritano, dalla barba rossa, che aiuta a far scendere dal cavallo un uomo senza forze. Le uniche pittore neotestamentarie di Vincent sono copie. Rappresenta la difficoltà dell’autore ad accedere autonomamente ad un discorso di religiosità formale, non naturistica, bruscamente troncato? La sua impossibilità a salvarsi da solo, ora?
Nella terza pittura una donna si dirige -lungo una strada tortuosa- verso la Chiesa di Auvers. L’aspirazione al ritorno ad una religiosità più collettiva, più tradizionale? Un sentimento di devastazione che chiede di trovare accoglimento? O forse solo, come hanno fatto notare alcuni, un avvicinamento al cimitero, situato nel retro della Chiesa?

L’IDEALIZZAZIONE NARCISISTICO-FANTASMATICA E IL TRAUMA DEL NOME

Il quarto e ultimo elemento della Sindrome di Van Gogh è l’idealizzazione narcisistico-fantasmatica. E’ un meccanismo perverso che -dal nostro punto di vista- si situa all’origine dei fallimenti relazionali di Vincent. All’origine della sua sofferenza.
Tutto lo sforzo immaginativo-proiettivo (noi l’abbiamo chiamato ‘catarsi mimetica’) che a Vincent è servito a rendere indimenticabili gli oggetti dei suoi capolavori -contadini, autoritratti, scarpe, girasoli, iris, campi di grano, cipressi, olivi…- è lo stesso che lo ha emarginato dolorosamente nei rapporti interpersonali. Il dispositivo psichico che lo ha condotto all’immortalità come artista, lo ha recluso in un isolamento senza finestre.
Perché? E’ stata formulata un spiegazione psicoanalitica, a tinte patografiche.

Van Gogh nasce in Olanda il 30 marzo 1853. Lo stesso giorno, un anno prima, ai genitori era nato morto il primogenito. Vincent Willem ne eredita il nome. E’ vero che ‘la funzione del nome proprio è quella di iscrivere un soggetto non solo e non tanto nel registro dell’anagrafe, ma in quello assai più significativo dell’ordine simbolico[15]’. Ma non so fino a che punto sia possibile dimostrare la conclusione di Recalcati. Cioè che la famiglia abbia mancato di ‘particolarizzare l’esistenza di Vincent, poiché questa esistenza non è stata concepita come un valore in sé, non è stata voluta per se stessa, ma solo come la sostituzione del figlio traumaticamente perduto[16]

Secondo questa tesi, Vincent avrebbe avuto fin dall’inizio della suo vita un Altro idealizzato con cui confrontarsi. Un Altro rispetto al quale non poteva che risultare inadeguato.
Lo stesso meccanismo di confronto idealizzato che Vincent ha dovuto sopportare in famiglia, coattivamente lo applica nelle relazioni. Da qui la difficoltà a porsi in condizione paritaria nelle situazioni amicali o affettive. In altre parole, Vincent non è in grado di sopportare la discrepanza fra l’altro come egli lo vorrebbe e l’altro come si manifesta. O è completamente disinteressato o impone standard di intimità inaccettabili. Il dramma del suo schema è: o sei come io intimamente ti sento o non sei affatto.
Un fatto biografico è certo. ‘Hai un carattere difficile’, è la frase che nelle lettere con Theo riferisce di sentirsi più spesso ripetere. La frase che più lo irrita. La più vera, dunque.

LE DONNE E GLI AMICI

E’ nelle relazioni il tallone d’Achille, la vera follia di Vincent. Il suo dolore più acuto. Sensibilità e fondamentalismo gli impediscono di stabilire rapporti comuni con le donne e con gli amici. ‘Non ha fortuna con la gente’, scrive Japer[17]. Gli rimane solo Theo.

Con le donne Van Gogh è maldestro. Introverso, non bello, squattrinato, ha due esperienze giovanili. Fallimentari. Esperienze caratterizzate da una trama comune: la pretesa di imporre, quasi unilateralmente, il suo sentimento.
A Londra, quando è in carriera come mercante d’arte, si innamora della figlia della padrona di casa, Ursula. Dopo un anno di silenzio decide di rivelare il suo interesse. Ursula gli risponde di essere già impegnata. Vincent non si rassegna. L’impiegato olandese attua uno stalking ingenuo e controproducente. Va a vivere a Ramsgate a pochi chilometri dalla casa della sua principessa. Alla fine Vincent si arrende. Smette di interessarsi sia a lei che al lavoro nella Goupil. Dopo la delusione per un amore mai iniziato, ‘switcha’. Comincia gli studi per diventare ‘pastore’.

La seconda passione amorosa riepiloga bene i meccanismi dell’identificazione narcistico-fantasmatica. In cui l’oggetto d’amore perde i suoi connotati identitari e viene violentato con aspettative irreali. Tornato dall’esperienza missionaria nel Borinage, Vincent va a vivere dai suoi genitori. Qui si innamora della cugina Kee. Kee è vedova e ha un bambino. Ma è preoccupata della mancanza di autonomia economica del pretendente. Un uomo che ha fama di essere più stravagante che affidabile. Risponde decisa: ‘No, mai!’ Vincent riempie pagine di lettere a Theo reinterpretando a suo modo la risposta. Il ‘No, mai’ è un atto di riserbo, forse di immaturità ma non di rifiuto, spiega. Deciso a correggere Kee dal suo errore, Vincent si reca a casa degli zii. I genitori di Kee lo accolgono imbarazzati e nascondono la figlia. Gli spiegano l’assurdità della sua insistenza. Vincent si ferma in un albergo del paese per alcuni giorni. Per tutto il tempo Kee si sottrae alla vista dell’insistente cugino. Prima di ripartire, Vincent va un’ultima volta a casa degli zii. Mette la mano sinistra sul fuoco di una lampada. Avverte che avrebbe lasciato bruciare la carne, finchè Kee non fosse comparsa.

L’esito dell’incontro, soprattutto fra i parenti, è disastroso. Vincent lascia la casa paterna e va a vivere all’Aia. Da quella delusione amorosa in poi, la sua vita sarà la pittura.
Perché Vincent rifiuterà l’unica donna disposta ad amarlo? Margot Begeman: signora di quarant’anni, benestante. La donna tenterà il suicidio e Vincent la lascerà. Forse perché per dipanarsi il meccanismo narcisistico-fantasmatico ha bisogno di un vuoto, non di un pieno. L’amore di Vincente si attua nel sostituire con le proprie emozioni quelle assenti dell’altro.

In tutte e due i casi, sia con Ursula che con Kee, è in atto un medesimo protocollo psichico. Una identificazione narcisistico-fantasmatica che si manifesta come ostinazione. Una autolesiva incapacità di scindere la propria soggettività dalla reale condizione emotiva dell’altro. All’inevitabile smacco segue sempre un agito. Cambio di professione, mano bruciata. In seguito: orecchio tagliato, suicidio.

Con i pochi amici Vincent si comporta allo stesso modo. Un esempio clamoroso è la sua relazione con Gauguin. Gauguin viene sollecitato ad andare ad Arles da Theo, fratello di Vincent e impresario di Gauguin. Prima del suo arrivo, Vincent inizia a disegnare la serie dei girasoli. Il suo stato d’animo e come quei fiori. In una posizione di attesa adorante di fronte all’ospite-Sole. Nella casa gialla, Vincent vuole con Gauguin iniziare un riscatto impossibile. Progetta di istituire un enclave di pittori. Dopo circa due mesi di convivenza l’esperienza è già finita. Vincent è deluso. Pieno di rabbia si taglia l’orecchio e lo dona a Rachel, la prostituta preferita da Gauigin. Quella stessa che a Vincent era stata sottratta dall’avvenente amico. Perché l’orecchio e perché il macabro dono? Forse perché la parte ricettiva in quella relazione di venerazione era stata la più offesa. Rachel e Vincent sono uniti dall’abbandono del medesimo uomo.

Si è spesso ipotizzato un interesse omosessuale non esplicitato, da parte di Vincent. Non è escluso. L’unica certezza è che Vincent non riesce a convivere con le posizioni depressive, che inevitabilmente seguono i suoi insuccessi relazionali. Nessuna elaborazione. Solo comportamenti reattivi, sempre più impulsivi, cruenti. Automutilanti. Diciannove mesi dopo il taglio dell’orecchio, Vincent si spara.

LETTERE A THEO

La più duratura e la più potente delle identificazioni si instaura con Theo, il fratello minore. Theo e Vincent vivono a distanza, ad eccezione di un breve e tribolato periodo a Parigi. Sono però in simbiosi. I due movimenti di una medesima pennellata.
L’epistolario fra i due comprende 668 lettere. La prima è datata 1872, quando erano entrambi nella Goupil; l’ultima lettera è trovata nella tasca di Vincent suicida. Vi è scritto: ‘nel mio lavoro rischio sempre la vita’[18]

Vincent condivide con Theo le sue riflessioni artistiche e anche le sue contorsioni emotive. Theo, silenzioso, provvede alla parte pratica, quotidiana, economica dell’esistenza. Ebbene ognuno dei due non esiste senza l’altro. Lo stile proiettivo narcisistico-fantasmatico di Vincent, nei confronti di Theo raggiunge un accordo tacito e totale.

‘Per questo ogni volta che l’alterità fa la sua apparizione –per esempio nella forma della moglie di Theo o di suo figlio Vincent- la coppia immaginaria si frantuma e tende a scompensare la stabilità psichica di Vincent[19]

Lo dimostrano le drammatiche corrispondenze fra gli ‘abbandoni di Theo’ e la cronologia delle ricadute psichiche di Vincent. La lite con Gauguin e il taglio dell’orecchio avviene la notte di Natale del 1888. Theo gli aveva da poco annunciato di volersi sposare con Johanna Bonger, detta Jo. ‘Poi altre crisi guarda caso nel giorno del matrimonio e quando seppe che Theo aspettava il bambino. L’ultima più forte, lo prese il giorno in cui il piccolo vide la luce[20]’.
Infine il suicidio di Vincent, a 37 anni. Avviene nel luglio del 1890, in una latrina all’aperto di Auvers-sur-Oise. Un paese a circa un’ora da Parigi, dove invece abitava Theo con la sua famiglia. La pistola –simbolicamente- era stata chiesta da Vincent ad un contadino, per scacciare i corvi che infestavano i campi. La biografia tradizionale vuole che ‘Campo di grano con corvi’ sia stata la sua ultima opera. Vincent è psichicamente assediato.

Ebbene il gesto estremo coincide con la comunicazione che Theo non sarebbe più andato a trovarlo, come aveva promesso. Ma si sarebbe recato con la moglie e il figlio altrove.
E’ l’ennesimo, insopportabile tradimento. L’irruzione di una alterità che spezza il paradiso di una follia a due. Senza la totale disponibilità fantasmatica del suo doppio, Vincent non vive. Neanche Theo.
Il fratello, di quattro anni più giovane, muore pochi mesi dopo. Lascia alla moglie: il figlio Vincent, pochi soldi e una casa a Parigi. Ma anche 200 opere, che non hanno valore di mercato.
A Jo consigliano di distruggerle. Il suo progetto è diverso. Pubblica l’epistolario fra il marito e il cognato, per la prima volta, nel 1914.
Con gli anni, grazie ad uno spirito imprenditoriale molto olandese, Jo e suo figlio diventeranno i promotori della fama mondiale di Vincent Van Gogh.

Antonio Dorella

NOTE

[1] LT, 358 in Recalcati Massimo, MELANCONIA E CREAZIONE IN VINCENT VAN GOGH, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, p. 76

[2] Artaud Antonin, VAN GOGH IL SUICIDATO DELLA SOCIETA’, Adelphi, Milano, 1988, p. 14

[3] Artaud Antonin, VAN GOGH IL SUICIDATO DELLA SOCIETA’, Adelphi, Milano, 1988, p. 14

[4] Artaud Antonin, VAN GOGH IL SUICIDATO DELLA SOCIETA’, Adelphi, Milano, 1988, p. 17

[5] Recalcati Massimo, MELANCONIA E CREAZIONE IN VINCENT VAN GOGH, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, p. 8

[6] Recalcati Massimo, MELANCONIA E CREAZIONE IN VINCENT VAN GOGH, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, LT 195, p. 96

[7] Guerri Giordano Bruno, FOLLIA?, VITA DI VINCENT VAN GOGH, Bompiani, Milano, 2015, p. 20

 

[8] LT 21/12/1881, Van Gogh Vincent, LETTERE A THEO, Guanda, Milano, 2017, p. 126

[9] Van Gogh Vincent, LETTERE A THEO, Guanda, Milano, 2017, p. 5

[10] http://www.cipajung.it/quaderni_roma/5/17.pdf

[11] Recalcati Massimo, MELANCONIA E CREAZIONE IN VINCENT VAN GOGH, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, p. 74

[12] M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, 1935-1950

[13] Recalcati Massimo, MELANCONIA E CREAZIONE IN VINCENT VAN GOGH, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, p. 101-118

[14] Lettera a Theo del 21/12/1881, Van Gogh Vincent, LETTERE A THEO, Guanda, Milano, 2017, p. 127

[15] Recalcati Massimo, MELANCONIA E CREAZIONE IN VINCENT VAN GOGH, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, p. 23

[16] Recalcati Massimo, MELANCONIA E CREAZIONE IN VINCENT VAN GOGH, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, p. 23

[17] Van Gogh Vincent, LETTERE A THEO, Guanda, Milano, 2017, p. 5

 

[18] LT, 358 in Recalcati Massimo, MELANCONIA E CREAZIONE IN VINCENT VAN GOGH, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, p. 76

[19] Recalcati Massimo, MELANCONIA E CREAZIONE IN VINCENT VAN GOGH, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, p. 32

[20] Guerri Giordano Bruno, FOLLIA?, VITA DI VINCENT VAN GOGH, Bompiani, Milano, 2015. P. 113

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