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Vivere è facile a occhi chiusi. Un film di Fernando Trueba (2013)

Cara lettrice, caro lettore,

ti parlerò di un pellicola che mi ha deliziato: Vivere è facile ad occhi chiusi (Vivir es facil con los ojos cerrados), di Fernando Trueba, un sensibilissimo regista spagnolo. Uscita nel 2013, è stata assai premiata in Spagna, eppure soltanto adesso è giunta in Italia. Si tratta di una commedia che si ispira a persone e fatti reali ed evidenzia numerosi temi psicologici. Per ragioni di spazio, però, sottolineerò soltanto due aspetti: l’incontro tra il Giovane e l’Anziano e l’amore per la libertà. Sono punti distinti, e all’apparenza distanti, che, per altro, si correlano strettamente tra loro.

Il film, ambientato nella Spagna franchista del 1966, quando il paese vive nel quasi totale isolamento e in un clima di malcelata repressione poliziesca, mentre la cultura nazionale è asfissiata da un cattolicesimo ipocrita e autoritario. La superficie perbenista della società, una cappa di regole autoritarie e perverse, cela forti tensioni etiche, morali e politiche che premono per venire alla luce. È in questo clima che un adulto e due giovani si ritrovano per caso insieme, spinti da aspirazioni assai diverse ma – si svelerà nel viaggio – uniti da un afflato comune. Complice è la strada che conduce al deserto dell’Almería, quella landa incontaminata dove Sergio Leone ha girato i suoi spaghetti western e dove Richard Lester sta in quel momento realizzando So I wan the war, una surreale commedia antimilitarista, tra i cui protagonisti spicca John Lennon. Infatti l’adulto, che nella realtà si chiamava Juan Carrión Gañán e nella finzione “Antonio” (un magnifico Javier Cámara), si sta dirigendo, alla guida della sua fiammante 850 FIAT, alla ricerca del celebre componente dei Beatles. Insegnante di latino e inglese presso un umile collegio religioso di Albacete, Antonio è uno scapolo un po’ pingue e attempato, ma non un solitario, anzi è un uomo animato da un inestinguibile desiderio di amore.

È una persona sensibile e generosa, costretta a vivere nella gabbia di un mondo avaro affettivamente, coercitivo e prepotente. Soffre nel vedere l’educazione impartita ai ragazzi dai preti e dalla scuola in generale e, nel modesto perimetro della sua indipendenza, stabilisce un modo totalmente diverso di rapportarsi ai giovani: il suo insegnamento dell’Inglese avviene proprio mediante le canzoni dei Beatles, poiché la spontaneità, l’immediatezza e, al contempo, la complessa semplicità del loro stile toccano il cuore di ognuno, risvegliandolo alla propria condizione, aprendogli gli occhi su sé e sul mondo che lo circonda.

Il film esordisce proprio mostrando Antonio che fa comprendere quale dolore e solitudine si avvertano nella famosa canzone “Help” e che ammissione di smisurato bisogno dell’altro essa contenga. Si capisce che l’insegnante sta, in questo modo, velatamente parlando di sé, ma soprattutto sta additando ai ragazzi la loro stessa sofferenza incistata nella nei patimenti del Paese; Antonio lascia trapelare, senza nulla esplicitare, che la tendenza a chiudersi in se stessi e negare il bisogno dell’altro, per il terrore della risposta deludente che questi potrebbe dare, è una catena malefica che ci si deve scuotere di dosso. Il grido di aiuto potrebbe essere proprio quello del popolo iberico, prigioniero di se stesso, che finalmente denuncia al mondo la sua condizione, e aperte le porte, rinuncia al proprio “guscio autistico”.

Venuto a conoscenza della eccezionale presenza di Lennon in Spagna, è naturale che Antonio decida di superare ogni ostacolo pur di conoscerlo. In quell’occasione potrà rivelargli quanto è salvifica per lui e i ragazzi la musica dei Beatles e potrà chiedergli di aiutarlo a riempire gli spazi vuoti sul quaderno in cui annota i versi del quartetto. Infatti, ascoltando le canzoni su Radio Lussemburgo (la radio di stato spagnola censura le canzoni dei gruppi anglosassoni), non sempre riesce a decifrarle per intero. Questo piccolo compito racchiude poeticamente una grande metafora del desiderio: richiamandoci a una completezza originaria, questo, in realtà, ci sospinge sempre più in là nella vita, laddove regnano l’ignoto e il destino che effettivamente ci appartiene.

Gli altri protagonisti sono due adolescenti: una ventenne e un sedicenne. Belén (una deliziosa Natalia De Molina) è costretta dalla famiglia a trascorrere la gravidanza lontana da Malaga, la sua città, per sgravare in gran segreto in una residenza di suore. Le religiose, falsificando i documenti di nascita, venderanno il neonato a dei genitori adottivi. La ragazza, in questa crudele visione del mondo, è dunque puro corpo senza autonomia, da dirigere e manipolare, è materia svuotata d’intenzionalità, sulla quale esercitare un potere di irregimentazione e normalizzazione. Il sesso, pertanto, è l’unico modo con il quale, in questo tipo di società, la soggettività femminile riesce a manifestare una ribellione, l’anelito a scegliere la propria condizione psicologica, morale e materiale. Le intenzioni della madre sarebbero che Belén rientrasse a casa dopo il parto, per sposare un benestante detestato dalla giovane. Sempre più angosciata da questa prospettiva, la ragazza fugge dall’istituto. Chiedendo passaggi agli automobilisti, salta infine sulla macchina di Antonio e lo segue nel viaggio.

Poco dopo, anche Juanjo (un convincente Francesc Colomer) viene caricato sulla 850. Il ragazzo è, a sua volta, appena fuggito dalla numerosa famiglia di origine, alla quale è assai legato e dalla quale è amato, ma in cui respira con sempre maggior insofferenza l’approccio autoritario del padre poliziotto. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il perentorio ordine paterno di tagliarsi i capelli, che Juanjo porta più lunghi e ribelli, secondo la moda della prima metà degli anni ’60. È evidente che quella zazzera assume un valore simbolico preciso nel loro discorso: rappresenta l’oggetto di una “castrazione paterna” avvertita come non autorevole, ma autoritaria, e di conseguenza inaccettabile, dato che essa non sembra schiudere alcun orizzonte culturale, ma semmai precluderlo.

Antonio, con grande intuito psicologico, sin dall’inizio del rapporto con i ragazzi, adopera l’ironia, la burla, l’umorismo, per esorcizzare il fantasma autoritario di cui potrebbe essere investito a causa del loro transfert. Quando, avendo rivelato lo scopo della sua missione in Almería, Juanjo commenta acidamente che lui preferisce i Rolling Stones ai Beatles, Antonio arresta immediatamente la macchina e muta la sua espressione gioviale in una indignata e collerica; quindi scaccia fermamente il ragazzo dall’auto. Belén, che già prova una simpatia per Juanjo e che trova ingiusto ed eccessivo il comportamento dell’insegnante, abbandona anch’essa la macchina. Antonio non sembra affatto pentito del suo gesto e lo enfatizza. Quando, però, i due ragazzi, sconfortati, si sono un po’ allontanati lungo la strada deserta, ride di gusto della beffa: li ha solo presi in giro, vuole che sappia che il suo era un gioco …

Proseguendo nel percorso, i tre, tra varie difficoltà e momenti di grazia, nella natura forte e incontaminata del deserto e della costa, tra la muta povertà di un’umanità di poveri pescatori e agricoltori dimenticati dalla storia, tentano di portare a compimento una scelta personale, scoprendo chi sono davvero. In effetti il viaggio appare lo specchio del vivere stesso, dove ad ogni istante devono rispondere sempre più convintamente alla chiamata della propria autenticità e riscrivere nel proprio cuore la linea di un destino all’apparenza già stabilito.

Aiutati da un romantico e prodigo barista catalano (l’ottimo Ramon Fontserè), che attende pazientemente un’infedele moglie italiana e sogna Claudia Cardinale, si legano l’una all’altro: il timido e sentimentale Antonio s’invaghisce di Belén, che lo ricambia di tenero affetto, ma non di passione; Juanjo scope gioie e delusioni d’amore proprio con la ragazza, dalla quale viene iniziato al mistero del sesso; Belén, a sua volta, sostenuta da Juanjo, accetta di rischiare la difficile sfida di vita che le comporterà essere ragazza-madre, e cercherà l’indipendenza lavorando da parrucchiera, a Madrid; Antonio e Juanjo stringono un patto generazionale tra giovane e adulto, un’affettuosa solidarietà maschile, che consente al ragazzo di trovare una possibile forma di rapporto con il padre, pur sentendo che tra loro si apre un abisso. Antonio, com’è accaduto al vero Juan Carrión Gañán, riesce, dopo vari tentativi falliti, a incontrare John Lennon, che lo riceve nella sua roulotte, sul set, con simpatia ed entusiasmo: non solo lo aiuta nel riempire le falle del quaderno del professore, ma accoglie il suggerimento di pubblicare i testi delle canzoni sui seguenti album dei Beatles, a cominciare dal prossimo, l’epocale Sergent Pepper Lonely Hearts Club Band (1967).

Il successo umano di quest’impresa è fondamentale perché Antonio raccolga in sé il coraggio che sgorga dalla sua enorme dignità di uomo e compia l’atto che la coroni: al brutale e gigantesco contadino che con i suoi compari aveva violentemente scorciato i capelli di Juanjo, dopo avergli inutilmente chiesto che si scusasse, getta all’aria, con la gloriosa 850, la coltivazione di pomodori: segno che nessuna violenza tra le generazioni può essere accettata e che solo dal rispetto e il reciproco riconoscimento tra adulto e giovane, tra Senex e Puer, da questa forma di amore per ciò che ci precede e ci segue, nasce la libertà di vivere secondo la propria più personale natura.

Infine Juanjo, tornando a Madrid con il padre e Belén, mette in moto il nastro su cui è si ode la voce di John Lennon – un prezioso regalo che il Beatle aveva fatto ad Antonio e che questi aveva poi affidato alle mani del ragazzo. L’ipnotica e dolcissima voce del cantante, accompagnata dalla sola chitarra: intona Strawberry fields forever, canzone di riscoperta delle sensazioni infantili e trip lisergico, ritorno a un mondo primordiale dove tutto è poeticamente possibile per i sensi liberi di vagare e ritrovarsi; lì si ascolta il verso che dà appunto nome al film «living is easy with eyes closed» (“vivere è facile ad occhi chiusi”): il cui rimando alla libertà di percepire soggettivamente la realtà si sovrappone all’immagine ironica ed inquietante di un popolo che chiude gli occhi sulla sua sua autentica condizione storica ed esistenziale.

Recensione curata da Francesco Frigione

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L'autore
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Francesco Frigione
Psicologo e psicodrammatista analitico, a lungo ha collaborato con la cattedra di Aldo Carotenuto, presso la facoltà di Psicologia della “Sapienza” di Roma. Forma psicoterapeuti e insegnanti. Ha fondato e dirige il webzine Animamediatica (www.animamediatica.it) e il suo quadrimestrale internazionale di approfondimento.