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Il nero e il bianco

ENRICO

Il nero e il bianco. 

Cinque ritratti clinici di donna in un gruppo di psicodramma
(
Edizioni Magi, Roma, 2015)

Leggendo un libro ci si accorge quasi subito se è stato partorito o assemblato. Se la materia di cui l’autore parla nasce da una manovalanza personale, da un sincero desiderio di mettersi in gioco, rischiando se stesso su ciò che si considera importante, oppure se il manoscritto è un’operazione di copia-incolla, un ‘relata refero’. Un pacchetto regalo senza oggetto.
Insomma leggendo un libro vero si capisce l’autenticità di chi si propone. Quanto cioè egli crede in quello che dice e quanto si è sporcato le mani con le faccende di cui tratta.

L’opera prima di Enrico David Santori, Il nero e il bianco, nasce sulle tracce di una tesi di specializzazione. E’ uno di quei libri di cui si percepisce con piacere la corrispondenza fra l’opus e il suo artifex. L’unione alchemica fra testo e autore, fra le vicende narrate e il pathos che le ha animate.

Il nero e il bianco è un testo di psicologia clinica sincero, commovente, ben distribuito, godibile da qualunque lettore, dalla prima all’ultima pagina. Il suo autore è uno psicodrammatista.
Chi è uno psicodrammatista? Per quel che ho capito è uno psicoterapeuta che lavora in gruppo, adottando principi e tecniche molto particolari. Teatrali, quasi. Lo psicodramma psicodinamico o psicoplay di Enrico Santori si rifà alla lezione di Jacob Levi Moreno, contemporaneo di Sigmund Freud.
A Roma, Santori lavora fianco a fianco con Ottavio Rosati, perfezionatore di questo prezioso strumento clinico e fondatore di una scuola di specializzazione sullo psicodramma (IPOD – Istituto per lo psicodramma ad orientamento dinamico).
Ottavio Rosati non fa lo psicodramma, lo è‘, sintetizza l’autore.

In calce al libro, Enrico Santori ringrazia gli altri maestri, che hanno contribuito alla sua formazione.Aldo Carotenuto, suo mentore, in primis.

Enrico è un professionista della psiche che ha il gusto dell’esperienza clinica. La prima qualità di chi si mette analiticamente a disposizione degli altri. Solo il ritorno al piacere della clinica può salvare la psicologia dalle sue presunzioni.
Il libro rivela uno psicoterapeuta che è strettamente coinvolto in quello che dice e che riesce ad offrire – secondo l’espressione di Lacan – racconti costruiti con “parole piene”. Considero Enrico Santori vicino a me, da molti punti di vista. Il peggior servizio che potrei offrirgli è un panegirico. Mi limito a rilevare che la ‘espressività’ è la sua dote, anche in veste di scrittore.
Il nero e il bianco lo dimostra. Il libro parla con passione e parla chiaramente. Il nero e il bianco parla a coloro ai quali piace immergersi – senza veli – nell’atmosfera analitica. A coloro che sanno nutrirsi delle emozioni e delle ‘soluzioni psicodrammatiste’, raccontate in maniera brillante e comprensibile.

Sforzo divulgativo non comune nel settore. Anzi da molti la semplificazione viene talvolta percepita come una inaccettabile riduzione della complessità del sapere psicoterapico. Viene erroneamente confusa con una tendenza alla banalizzazione. Al contrario.

I cinque ritratti clinici di donne – Elettra, Zoe, Vera, Dorothy e Alma – che Santori ci presenta nel suo scritto, ci invitano ad entrare con lui, discretamente, all’interno del setting. Setting nel quale sono previsti incontri di gruppo, affiancati da altri individuali. Al termine degli incontri gruppali, è suggerito al paziente di scrivere una e-mail riepilogativa della sua personale esperienza. Lettera che Enrico in alcuni casi inserisce nello scritto.

I cinque ritratti clinici mi hanno colpito anche per le audaci scelte terapeutiche, a disposizione dello psicodrammatista. Scelte paradossali, improntate alla ‘platealizzazione’ del sintomo e dei suoi possibili rimedi. Come quando ad Elettra – con l’aiuto delle amiche – Enrico propone di mimare il momento del parto, per liberarsi dall’oppressione di un peso che le grava sulla pancia. Gesto simbolico rappresentante la ricerca di una femminilità liberamente generatrice, che in Elettra invece è da due generazioni gravemente violata.

Oppure quando a Zoe, ‘una bella ragazza di trent’anni’, la fimmana, alla quale dalla madre è sempre stato insegnato che la donna senza un uomo è niente’, Enrico consiglia un contro-atto terapeutico. Quello dei ‘quattordici biglietti’. Per quattordici giorni consecutivi Zoe scrive un foglio anonimo in cui ristruttura la frase ‘la donna senza un uomo non è niente’ con una frase nuova, ogni giorno diversa, sul valore del femminile. Il biglietto viene lasciato nella cassetta delle lettere indirizzato a sua madre. Solo alla fine dell’esperimento Zoe si rivelerà alla famiglia come l’autrice delle missive. Nel corso della terapia a Zoe viene anche assegnato un altro stravagante compito. Per superare il trauma di un abuso infantile mai comunicato adeguatamente, causa dell’attuale disagio con le figure maschili, le viene chiesto di realizzare un pene. Attraverso l’uso di una bottiglietta e di un nastro adesivo costruisce un oggetto falliforme che poi brucia in spiaggia.

Vera è bloccata da un falso-Sé. Una immagine stereotipata e insincera di se stessa le impedisce l’accesso alla dimensione pulsionale. In terapia le viene chiesto di ‘battere il marciapiede in una strada di campagna vestita da lucciola trash’. Opportunamente protetta, è accompagnata e osservata ad una certa distanza dalle amiche. Non basta. Per superare le frustrazioni provocate dalle sue resistenze cliniche, le viene proposto un altro rito. La paziente è avvolta con cinque metri di pellicola trasparente dalla testa ai piedi. Al bozzolo vengono appese le foto dei genitori. Vera si libera con difficoltà dal suo impedimento. Poi prende le foto del padre e della madre e le pone in una scatola. Infine seppelisce la scatola. Nella seduta successiva la paziente riferisce una novità: ha avuto il suo primo rapporto sessuale, decisamente in età non più adolescenziale.

Casualità? Coincidenza? Sincronicità? Vero e proprio effetto terapeutico? Lo psicodramma si situa all’incrocio inspiegabile di queste domande. La narrazione del caso clinico dimostra tuttavia che con quel gesto qualcosa in Vera si è mosso. E si è mosso nella direzione auspicata. Questo è ciò che terapeuticamente conta.

Nella seconda parte del libro sono presenti gli elementi più teorici. Ad esempio la funzione alchemica della psicoterapia, sulla scia dell’intuizione junghiana e dello studio sui colori di Claudio Widmann. Il grande tema della creatività, secondo il dettato carotenutiano brillantemente rivisitato dall’autore, anche attraverso cenni alla propria biografia. Nella seconda parte sono contenuti anche estratti di ‘plays’, cioè delle sedute di psicodramma condotte in gruppo da Enrico.

La trascrizione di un caso clinico è un genere letterario a sé. Un format che può diventare lezione di stile, autocelebrativo encomio del proprio modo di affrontare e risolvere il disagio psichico, oppure altro. Cioè ricerca, sperimentazione, rispetto per le diversità, autocritica da parte del terapeuta, consapevolezza nel gestire le empasse, accettazione delle scommesse non vinte e volontà di rinarrare tutto -candidamente- per aiutare e aiutarsi a capirne di più.

La trascrizione di un caso clinico è un’arte nell’arte. Significa difficile riflessione su ciò che è stato riflettuto nella stanza d’analisi. Significa impegno individuale nel descrivere percorsi clinici che al contrario sono indescrivibili e interpersonali. Significa capacità di condurre il lettore nell’atmosfera di quello specifico incontro, senza scadere nell’ovvio né nella elucubrazione. Questo splendido crinale Enrico Santori con il suo libro lo ha percorso, dandoci il gusto di accompagnarlo.

Recensione curata da Antonio Dorella, Presidente del CSPL fondato da Aldo Carotenuto, psicoterapeuta.

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Antonio Dorella