Virginia Salles: “Spazi oltre il confine. Temi e percorsi della psicologia del profondo
tra C. G. Jung, Stanislav Grof e la Cabalà” (Alpes Italia, 2014)
Il libro di Virginia Salles è molto stimolante e offre diversi spunti di riflessione. I capitoli sono articoli scritti in momenti diversi e ognuno è orientato più specificamente verso un determinato aspetto della psicologia del profondo e transpersonale.
I capitoli hanno una propria autonomia e possono essere letti indipendentemente, o seguendo un qualsiasi ordine scelto. Hanno una struttura a rete. Mentre si prosegue la lettura si osserva che ogni capitolo è intimamente interconnesso agli altri.
Nonostante la varietà dei temi trattati e la diversità dei piani, il libro ha un comune denominatore, cioè la nozione di confine, o più precisamente del superamento dei confini già indicato dal titolo. La lettura diventa particolarmente interessante nell’avvertire la vivace passione e eleganza con cui l’autrice si muove, integrando con abile coerenza la sua esperienza umana e professionale. Nel farlo, esprime coraggiosamente il proprio pensiero, in continuo dialogo con la voce di svariati autori, che come lei osarono “cantare fuori dal coro”. Nonostante la loro diversità, questi autori hanno in comune la libertà di pensiero, la curiosità, il coraggio e il senso dell’avventura, l’esplorare nuove regioni della mente e della realtà e, last but not least, uno spiccato entusiasmo e passione per la vita.
Il confine è a mio vedere il filo rosso che attraversa tutto il libro percorrendo regioni di frontiera dove si osserva la tipica tensione e conflitto tra l’insofferenza dei confini vissuti come gabbia e il vitale bisogno o desiderio del superamento di questi confini. Sarebbe possibile commentare ogni capitolo del libro tenendo in mente come nucleo tematico questo campo di forze.
Nella psicoanalisi freudiana il setting è un elemento basico e a tal punto centrale da essere spesso trattato come un sinonimo del proprio metodo psicoanalitico. Il setting definisce un contesto clinico ed è delimitato da precisi confini. Lungo la storia della psicoanalisi, una grande parte della letteratura tecnica e teorica ha messo a fuoco la questione del setting. I problemi e le difficoltà della gestione del setting e del suo adeguamento alla realtà clinica del paziente hanno generato negli anni una vera e propria battaglia sulla tecnica con una visibile impronta ideologica[1].
Nel considerare il “setting olotropico” è necessaria un’attenta valutazione delle capacità di una determinata persona di mettersi in contatto con “l’ignoto” o con traumi sepolti. Si deve inoltre poter contare su un setting adatto e un terapeuta rassicurante e fiducioso, che abbia molto tatto e un grande rispetto del timing. E non solo, è anche molto importante che il terapeuta abbia lui stesso intrapreso una avventura “oltre il confine”. La mia esperienza con Virginia, nelle varie dimensioni della nostra conoscenza, ma anche da quello che posso percepire come lettore dei suoi scritti, mi permette di dire che lei possiede queste qualità.
Commenterò il setting terapeutico della respirazione olotropica prendendo in considerazione i primi due capitoli del libro, “L’angelo dell’angolo della casa rotonda” e “SOS Emergenze spirituali”, nei quali Virginia parla prevalentemente della sua esperienza clinica con questo tipo di terapia esperienziale. Il mio interesse nel commentare questo aspetto clinico è collegato al fatto di trovarmi in una particolare posizione che mi consente una doppia visuale, sia a partire dalla mia esperienza come psicoterapeuta sia da quella vissuta come “respiratore”, dato che ho partecipato a diversi gruppi di respirazione olotropica.
Ritengo che il setting transpersonale adoperato da Virginia sia un elemento fondamentale e che offra un importante sostegno al buon andamento dei processi terapeutici presenti nel suo lavoro. È un setting particolare e diverso da quelli tradizionali di ispirazione freudiana o junghiana. Forse in questo senso dovrei utilizzare l’espressione “setting” tra virgolette. Il sorprendente cambiamento di Elma, nel passare dalla condizione di una “paziente psichiatrica” alla conquista della capacità di sognare e intraprendere un percorso di autonomia (descritto nel capitolo “SOS Emergenza spirituale”), come viene raccontato da Virginia, ci dà un’idea delle potenzialità che questo tipo di lavoro può far emergere.
Nel mettere a fuoco il “setting olotropico” elencherò di seguito, un po’ schematicamente, alcuni elementi che lo caratterizzano. Con questa descrizione penso di poter chiarire non solo la sua peculiarità, ma anche il perché lo ritengo adatto all’esperienza di esplorazione degli spazi oltre il confine.
Il processo terapeutico (tipico) è composto da due tempi: un primo tempo, di preparazione, ha inizio con una psicoterapia individuale in un setting junghiano. L’attenzione si concentra maggiormente sull’analisi dei sogni. L’analista inoltre favorisce lo sviluppo dell’Io e stimola la curiosità del paziente verso una ricerca personale e il suo movimento verso una maggior autonomia. In un secondo tempo si può accedere ad un altro setting di gruppo: la respirazione olotropica.
Nei casi in cui il paziente è desideroso e ritenuto preparato ad andare oltre il confine del setting iniziale (junghiano) può proseguire il suo percorso facendo esperienza di questo nuovo “setting”, più adatto e contenitivo per una esperienza più radicale e profonda: i gruppi di respirazione olotropica (tecnica inspirata al lavoro di Stanislav Grof).
Il “setting” olotropico offre il necessario sostegno e rappresenta un cambiamento importante, date alcune delle caratteristiche che lo contraddistinguono. Nel gruppo di respirazione: si passa dal setting individuale al “setting” di gruppo; si passa dal lettino alla posizione sdraiata per terra; si passa dalla comunicazione prevalentemente orale e visuale all’esperienza di respirazione profonda, che favorisce e stimola l’introspezione e il contatto interno profondo: la percezione delle sensazioni corporali, del flusso di immagini e di emozioni. Tutto questo viene facilitato dall’uso di bende che occludono la visione, in un ambientale accogliente, accompagnato da un continuo flusso di musiche evocative.
Nel gruppo si passa inoltre dalla posizione di asimmetria analista-paziente a una posizione di parità e reciprocità con il sitter (assistente): una presenza silenziosa e rispettosa, che rimane a fianco del “respiratore” potendo essere d’aiuto quando sollecitato. Virginia osserva il movimento dei “respiratori” e interviene solo quando sente che sia necessario. Il “respiratore” in un secondo tempo diventa, a sua volta, il sitter del suo precedente sitter. Tale inversione delle posizioni mi sembra arricchire l’esperienza che può essere vissuta dai due fronti.
Inoltre, nei gruppi avviene una notevole dilatazione del tempo che passa dai 50/60 minuti della seduta alle 5/6 ore di esperienza nel gruppo. Una tale dilatazione del tempo inspira un senso di atemporalità, uno stato di “flusso” che favorisce l’immersione nei nuclei creativi. Considerando la lunga durata di ogni gruppo e la profondità dei possibili “viaggi”, sono utili per l’organizzazione dell’esperienza i momenti iniziali di riscaldamento e il racconto dei sogni, ben come il lento percorso verso il termine. La realizzazione della mandala e la successiva condivisione dell’esperienza con i membri del gruppo aiuta a elaborare e a “finire” l’esperienza anche se l’esperienza interiore continuerà a evolvere nel tempo…
Recensione curata da Gilberto Villela, psicoanalista.
[1] Freud e i suoi più fedeli discepoli, in accordo con i precetti tecnici di Freud, hanno sempre difeso la necessità di un rigoroso mantenimento del setting mentre svariati psicoanalisti, a cominciare da Ferenczi, avvertirono molto frequentemente l’esigenza di adoperare una tecnica più malleabile e un setting più flessibile nel lavoro con alcuni tipi di pazienti, generalmente quelli più disturbati.
Una delle obiezioni ai cambiamenti del setting era che tali cambiamenti (l’allungamento delle sedute, la diminuzione dell’asimmetria analista-paziente, l’accettazione di espressioni non verbali, dei sintomi, ecc.) favoriva l’attivazione incontrollata della patologia, degli acting out e di tutta una serie di sintomi “disturbanti”, infine una regressione contraria al buon andamento dell’analisi classica. Winnicott e Balint (il principale seguace di Ferenczi) sono stati praticamente gli unici a valorizzare la regressione nella sua valenza positiva, ritenendola intrinsecamente necessaria e terapeutica (Franz Alexander con la tecnica dell’Esperienza emozionale correttiva è stato criticato dall’ortodossia e allontanato dal campo della psicoanalisi ufficiale). Balint e Winnicott hanno contribuito enormemente all’aumento della sensibilità clinica nei confronti delle nuove tipologie di pazienti. Cioè, coloro che esulavano dalla tipologia più marcatamente nevrotica, e pertanto non riuscivano a inquadrarsi o a beneficiare di un’analisi entro i confini del setting classico. Lavorando nell’ambito degli stati regressivi, Winnicott ha diretto la sua attenzione clinica al processo regressivo verso la dipendenza assoluta, mentre Balint ha distinto due tipi di regressione: la regressione benigna (o per il riconoscimento) e la regressione maligna (o per la gratificazione). Non c’è spazio qui per descrivere le caratteristiche dei loro setting.
C’è da rilevare soltanto che, anche se loro hanno contribuito ad allargare e ad affinare il setting rendendo la situazione clinica più malleabile e facilitante, il fatto di seguire comunque alcuni aspetti delsetting tradizionale non permetteva loro di offrire lo spazio e il di tempo necessari ad una regressione ottimale. C’è anche il fatto che la flessibilità del setting in una analisi intensiva come la loro (da tre a cinque sedute settimanali) favoriva l’attivazione di un processo di regressione verso la dipendenza totale del paziente, comportando rischi e problemi considerevoli, nel caso in cui non fosse fatta una accurata selezione dei pazienti.