Da La Stampa del 14 febbraio 1975
«Se Jung è conosciuto meno di Freud in Italia — ma su questo ” meno ” c’è da discutere —, tutto dipende, a mio avviso, dalla pagina stessa di Jung. Jung scrive in modo ellittico, si sforza di suscitare emozioni nel lettore: emozioni non sempre semplici. Era un introvertito intuitivo e di pensiero. Era un autore interdisciplinare, non solo un medico psichiatra: ha approfondito vari campi dello scibile, i più impervi, la mitologia, l’alchimia, la storia delle religioni: e i suoi scritti sono cosi densi di esperienze intellettuali che il lettore medio non vi tiene dietro. Con Freud è diverso; la sua struttura logica è positivistica, è esemplificativa. Leggendolo, chiunque ha l’immediata sensazione di capire».
Sto parlando con Aldo Carotenuto, un analista di scuola junghiana, diviso fra Napoli e Roma. Ha quarantadue anni, ed oltre a curare pazienti è il primo, della cordata cui appartiene, ad essere entrato come docente di psicologia analitica (tale la dizione con cui viene indicata la disciplina junghiana) in una università italiana.
Insegna a Roma, presso il corso di laurea in psicologia della facoltà di Magistero. « Vede », mi ha detto poco prima: « quest’anno a giugno si laureeranno i primi psicologi italiani, a Roma e a Padova. I corsi vennero istituiti quattro anni fa. C’è un boom della psicologia, simile a quello che anni fa ebbe la sociologia: nelle nostre università questa è l’ultima malattia di moda. Ma cosa farà il primo migliaio di psicologi, una volta uscito dalle aule di studio?».
La domanda gli suona retorica sulle labbra, con gli occhi fa mostra di disillusione. Gli chiedo chi siano gli studenti che frequentano psicologia. «Anni addietro avrebbero studiato filosofia. Potrebbero avere interessi di tipo spiritualistico, o altro di simile». È scettico sull’avvenire degli studi di psicologia in Italia? «I corsi sono affollati e si affollano sempre di più: Crescono, e lo si vede con chiarezza, l’interesse e la serietà di questo interesse. Ma le strutture del Paese sono quelle che sono. Fra i medici stessi la diffidenza verso l’analisi del profondo è ancora diffusissima».
Ma torniamo a parlare della penetrazione italiana del pensiero e del metodo di Carl Gustav Jung: il quale, attraverso Ernst Bernhard, uno junghiano arrivato in Italia dalla Germania nel 1935, ha avuto da noi un paladino dei più fini. Bernhard è stato l’animatore, con Boby Bazlen, della casa editrice « Astrolabio », la prima casa editrice italiana che abbia pubblicato testi di Freud, di Jung, di Adler e dei loro discepoli, libera da qualsiasi settarismo. Fu Bernhard a riunire un primo gruppo di intellettuali di estrazione la più diversa, da Adriano Olivetti a Giorgio Manganelli, che si fecero in qualche modo porta voci del verbo junghiano. Si trattò, comunque, di una diffusione nella qualità: non numericamente interessante.
«Jung sapeva benissimo, persino scrivendo, di trattare i propri problemi con difficoltà. C’è una pagina dei suoi Ricordi, curiosamente espunta dall’edizione italiana, in cui confessa che quanto va argomentando è oscuro. Ma questa oscurità, aggiunge, è la medesima della realtà psichica. La psiche è oscura e difficile».
Quale tipo di paziente sceglie di essere curato da un analista di linea junghiana? «I pazienti sono di due tipi. C’è lo sprovveduto che si rivolge dove capita. Sono la maggioranza: e le confesso che danno un discreto scoramento. C’è poi il cliente selezionato: l’uomo di cultura, l’outsider, il drogato, il disadattato. Si rivolgono a Jung, perché nella sua dottrina trovano un messaggio particolare: la loro malattia è il segno di una personalità perduta, ma è anche l’unico modo che essi hanno per riguadagnarla o combatterla. Per Freud la malattia è sempre un peccato: per Jung no».
Da una simile risposta i problemi che nascono sono diversi. Chiedo anzitutto se c’è imbarazzo a trovarsi unicamente con pazienti in qualche modo privilegiati, sia per censo che per cultura. «La professione dello psicoanalista ha a che fare soltanto con pazienti ricchi…». Le ipotesi per infrangere questa regola, o questo destino che non può non alimentare una qualche cattiva coscienza? «L’analisi è un rapporto a due, e le regole sono quelle che sono. Tre sedute settimanali, con una tariffa per seduta che varia fra le quindici e le ventimila lire. Molti analisti lavorano nei centri di igiene mentale. Ma Roma, una città di oltre due milioni di abitanti, è servita da un solo centro simile, quando invece ce ne vorrebbe uno per isolato, se non per condominio. Lei si rende conto allora di quale è lo stato delle cose? La soluzione non è psicanalizzare gratis. Né c’è la penicillina per curare le nevrosi».
Dunque, quale può essere la soluzione? «Fare in modo che la gente non si ammali» E come? «Qualcuno dice che la nevrosi è inevitabile. Ma non v’è dubbio che una società competitiva come quella in cui viviamo sia assai più nevrotizzante di una società non competitiva. Le radici delle nevrosi più diffuse non sono oggi mio avviso da sessualità, ma da aggressività. Si fanno esperimenti in questo senso a Cuba e in Cina, e sono sicuro che nevrosi come quelle che noi analisti sperimentiamo nella nostra società, laggiù non sono riscontrate».
Al solito la soluzione è politica. «Certo. Basterebbe, le ripeto, istituire i centri di igiene mentale di cui il Paese ha bisogno. Anche in quel caso, però, l’analisi non potrebbe essere che un rapporto a due…». Ma c’è un’altra questione che vale la pena tentare di illuminare. Se per Freud la malattia è pur sempre una macchia dello spirito, in che senso per Jung non lo è? «Oggi si parla molto di antipsichiatria. Cioè, in molti sono convinti che non vi siano malati di malattie mentali. Quella che è considerata per tale è soltanto una forma di reazione psicologica a costrizioni esterne, il risultato di un conflitto: insomma, il modo in cui un individuo esprime questo conflitto. All’origine di questi criteri di valutazione c’è Jung, unicamente Jung. Aniela Jaffè, la curatrice del volume dei Ricordi junghiani, in un suo saggio dal titolo The myth of meaning, cita a questo proposito Ronald Laing, l’autore dell’io diviso. Per Laing, è Jung il padre dell’antipsichiatria, il primo che abbia dissodato il terreno in questo senso. Jung aveva capito con chiarezza che i processi schizoidi sono processi di autoguarigione. La schizofrenia è un viaggio che l’individuo compie all’interno di sé, ma al fine di guarire, di salvarsi: e a questo viaggio va lasciato il massimo di libertà possibile».
A questo punto, Carotenuto si avvicina allo scaffale della sua libreria, e cerca con gli occhi e le mani un volume, poi torna a guardarmi: «Jung dice anche, e questo è molto interessante, che è difficile diagnosticare la malattia di pazienti che siano stati trattenuti a lungo in un ospedale. La vita d’ospedale incide sul cosiddetto malato: la malattia non è un dato immobile, è qualcosa che non si può scindere dalla sua vita. Anzi, è la sua vita». Non c’è dubbio che il rovesciamento di prospettiva inaugurato dall’antipsichiatria un risultato lo ha avuto: quello di dissolvere certa sclerosi delle dottrine.
E ci si batte, anche per stabilire chi abbia detto per primo che il malato di mente non è tale, ma tradisce un tumultuoso bisogno di salute. Dunque, la malattia è una forma di soggezione alla società, sia essa la società borghese dei primi del secolo o quella competitiva ed aggressiva in cui siamo calati? O è un modo attraverso cui ci liberiamo da ogni soggezione e spaziamo liberi nei campi del sogno e dell’immaginazione? Jung stesso, era il 1913 e la rottura con Freud avvenuta da poco, volle affrontare i mostri del proprio inconscio, calarsi dentro la sua nevrosi possibile per spiegarsi più compiutamente le nevrosi dei pazienti che avrebbe incontrato; e scrisse: « Per poter cogliere le fantasie che mi sollecitavano dal “sottosuolo”, dovevo, per così dire, sprofondarmi in esse: cosa che provocava in me non solo una violenta opposizione, ma una vera paura. Temevo di perdere il controllo di me stesso e di divenire preda dell’inconscio e, quale psichiatra, sapevo fin troppo bene ciò che volesse dire. Comunque, dopo lunghe esitazioni, mi resi conto che non c’era altro modo per venirne a capo. Dovevo accettare la sorte, e dovevo tuttavia osare impadronirmi di quelle immagini, poiché altrimenti correvo il rischio che fossero esse a impadronirsi di me». È, la malattia mentale, una lotta con l’angelo o una lotta con i mostri?
Enzo Siciliano