Sulla capacità di amare e lavorare oggi.

 

Ho sempre trovato seducente la frase di Freud per la quale il benessere psicologico di un individuo potesse essere desunta dalla sua capacità di amare e di lavorare. Seppure sia una ipersintesi di una teoria molto complessa, nella semplicità di questa frase si rintraccia il valore quotidiano che il pensiero psicoanalitico possiede. E’ di comune esperienza: guardiamo alle persone a noi vicine a noi stessi e ci rendiamo conto che attraverso la relazione che una persona instaura con la persona amata e con il suo lavoro scorgiamo il suo “stare bene”. Cartine tornasole delle vicissitudini della libido, dei suoi investimenti possibili e impossibili.

Kohut più avanti riconoscerà un’incompletezza a quanto espresso da Freud: capacità di amare e lavorare sì, ma con soddisfazione. Un accento necessario per il fondatore della psicologia del Sé, per il quale il narcisismo diviene l’organizzatore fondamentale dello sviluppo e della salute psichica. Per Kohut insomma non basta essere capaci di amare e lavorare, bisogna sentirsi soddisfatti da queste attività, bisogna stare bene, sentirsi migliori.

Come talvolta avviene nella speculazioni psicoanalitiche manca però un attore fondamentale a questo quadro: l’altro. L’altro che in una relazione amorosa retroagisce su di noi con le sue caratteristiche, influendo sulla nostra stessa capacità di amare. E analogamente l’altro che è il lavoro, che ancora una volta influisce sulla nostra capacità di lavorare creativamente e con soddisfazione.

E’ da questo punto di vista che voglio proporre una riflessione che cerchi di capire quanto di quel seduttivo aforisma freudiano sia possibile oggi, ai tempi dell’amore e del lavoro 2.0

I nostri due autori sembrano guardare all’amore e il lavoro come due attività lineari, come a dire che sapere amare implica saper lavorare e viceversa. Del resto da un punto di vista teorico è così: di base c’è la capacità di investire, che di per se indica che le energie del soggetto non sono imbrigliate in blocchi o grovigli nevrotici in grado di limitarne l’espressione. Se l’individuo è libero di essere creativo, può esserlo tanto in ambito d’amore che di lavoro. Il suo compito è di elaborare i propri conflitti per poter investire nei rapporti, col mondo e con gli oggetti.

Quanto oggi però potremmo dire che chi non riesce a lavorare o a trarne soddisfazione sia bloccato in una forma di nevrosi? Si possono ancora adottare le categorie dell’intrapsichico per la generazione che oggi si approccia al mondo del lavoro raccogliendone molte volte frustrazioni e depressioni non consone alla propria fase di vita?

La realtà psicologica è sempre attiva e trasversale alla realtà storica e sociale, ma non è avulsa da essa. E’ per questo che penso che oggi la sanità di un individuo non sia più semplicemente desumibile dalla sua capacità di amare e di lavorare, nell’epoca della saturazione lavorativa per i più giovani, dei contratti a termine, dell’impossibile futuro da costruirsi. E anche la capacità di amare si accoda a questo, una riflessione che né Freud né Kohut hanno potuto concepire a quel tempo: amare quando il lavoro non lo permette. Di fronte alla depressione del non poter individuarsi – laddove il lavoro col suo guadagno economico, agevola lo svincolo evolutivo – l’amore può essere un baluardo ma può essere anche ostacolato o impossibile. Ostacolato perché il senso di non realizzazione personale che un lavoro non adeguato comporta, si ripercuote sulla possibilità di vivere una relazione liberamente.

Un legame sono estremamente convinto si basi sull’incontro di due individualità – anche di due solitudini, come voleva il poeta Rilke – di due storie che si incontrano e si toccano, si influenzano, ma mai si fondono. Per questo anche il migliore degli amori non può retroagire nel curare il senso di insoddisfazione che la mancata realizzazione personale comporta, pur funzionando da base sicura.

E allora la capacità di amare cede alla possibilità di lavorare. Al capace si sostituisce il possibile. Individui che si allontanano, non si comprendono, si perdono, perché impossibilitati a costruire la propria felicità individuale che è l’unico prodromo possibile all’unione con l’altro.

Come psicoterapeuti siamo chiamati a confrontarci con questa realtà, quella che non pochi autori ormai hanno appreso a considerare come frutto di una crisi storica più che di una psicologica. Credo però che non tutti gli psicoterapeuti siano sufficientemente informati su questo germe di nichilismo di cui molti pazienti sono portatori loro malgrado, e che talora incarnano attraverso un emergenza sintomatica che racconta non solo la propria fatica di vivere, ma la fatica di vivere nella realtà contemporanea.

Lo psicoterapeuta oggi ha ancora il compito di proteggere le facoltà sane dell’individuo dalla pulsione di morte. Ma non solo da quella pulsione di morte di matrice kleiniana, a base innata, ma anche da quella del nostro tempo, quella che si attiva quando l’individuo non trova finalizzazione ai propri sforzi creativi e a un certo punto abdica riportando interamente su se stesso il proprio fallimento.

E’ questa la pulsione di morte 2.0, la naturale tendenza ad appassire quando la nostra creatività è limitata o inibita, quando sperimentiamo un rifiuto reiterato come quello che oggi la realtà offre a molti individui naturalmente portati a investire sul mondo. Non è solo l’individuo nevrotico il paziente di oggi, ma anche il paziente sperimentalmente reso nevrotico, da una organizzazione sociale che lo rifiuta o lo accetta solo part-time, a progetto, come automa, infischiandosene delle sue personali caratteristiche e confinandolo a mero esecutore di ordini. Ordini che non gli permetteranno nemmeno, come un tempo accadeva a suo padre, di costruirsi un futuro o di amare con naturalezza.

E allora al terapeuta spetta di difendere la naturalezza dell’individuo e in un certo senso anche la sua nevrosi, che altro non è che la reazione più semplice che un individuo può sviluppare quando qualcuno non vede validata la propria esperienza umana. Il setting come luogo di protesta alla massificazione alienante e al nichilismo, l’ammortizzatore delle spinte mortifere che ogni individuo sperimenta allorquando il suo potenziale creativo è neutralizzato e rifiutato.

In questo vi è anche un compito sociale, si è in questo modo non solo terapeuti dell’individuo, ma terapeuti del mondo, come voleva Hillman. E’ un compito di resistenza attiva. Oggi la capacità di amare e di lavorare è un obiettivo, un obiettivo terapeutico, sociale, rivoluzionario.

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L'autore
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Alessandro Uselli
Specialista in Psicologia clinica e Psicoterapeuta. alessandro.uselli@gmail.com