Durante il matrimonio di suo figlio, Olive – il personaggio-titolo della recente miniserie della HBO – appare disperata e sembra precipitare sempre di più nel vuoto, dinanzi allo sguardo attonito dello spettatore. Fuori, in giardino, insulta una ragazzina per aver raccolto un fiore e poi, dentro casa, si trascina tra gli invitati come un’anima in pena finché non trova un po’ di pace: si chiude in una stanza, dorme e russa nel bel mezzo del matrimonio.
Il suo vestito floreale, così ridicolo, sembra proprio l’emblema della sua inadeguatezza; in quel giorno di festa sembrano tutti felici: gli sposi, gli invitati, i genitori della sposa, il padre dello sposo… tranne lei, Olive. Per lei i sorrisi, che abbondano in queste circostanze, possono essere solo espressione della falsità e ipocrisia altrui… e la sposa certamente renderà infelice suo figlio. La Festa è un luogo insopportabile per Olive, anaffettiva, come per chiunque non sia in grado di coinvolgersi emotivamente con gli altri.
Olive Kitteridge è una miniserie televisiva americana in quattro puntate appena trasmessa da HBO, diretta da Lisa Cholodenko e basata sull’omonimo romanzo di Elizabeth Strout (Fazi 2009, premio Pulitzer). La vicenda si svolge nell’ultimo periodo del novecento in un paesino del Maine dove vive Olive (interpretata da Frances McDormand, Stati Uniti, 2014), ex insegnante e moglie del farmacista.
A prima vista la protagonista di Olive Kitteridge risulta sgradevole e terribilmente antipatica allo spettatore, ma dall’indignazione si può passare molto presto alla compassione, se si riesce a superare l’impatto iniziale e proseguire nell’esperienza. Lei è sotto l’influsso della “bile nera”, come si diceva un tempo: prigioniera della melanconia che – sia come fenomeno esistenziale che sotto l’etichetta clinica della depressione – viene molto ben ritratta nel romanzo di Elizabeth Strout e risulta credibile anche nell’adattamento televisivo.
I due primi episodi della serie mostrano come la melanconia possa essere contagiosa: Olive, con il suo sguardo sofferente e disincantato, influenza l’ambiente tutt’intorno: il male dilaga, si espande dalla famiglia alla comunità. La passività enigmatica del personaggio che non affronta la sua sofferenza, ma fugge, si nasconde dietro la sua corazza di scetticismo, spiazza lo spettatore, che non riesce a liberarsi di Olive con il suo stato emozionale piatto: Olive non sente più…
Tutto inizia con Olive che si prepara per suicidarsi. A questo punto, la scena del suicidio si interrompe e la trama retrocede, si ritorna indietro nel tempo, di venticinque anni. Tradurre la depressione per mezzo di immagini richiede grande sensibilità e maestria nell’uso delle metafore: nel film Melancolia, il regista Lars von Trier si è avvalso del crash imminente di un pianeta errante con la Terra come allegoria del “malessere” esistenziale. La tragicità del personaggio Olive e le vicende quotidiane della piccola comunità del Maine, così come sono rappresentate nella miniserie televisiva, nel loro contenuto essenziale non differiscono molto dalla tragedia apocalittica del film di von Trier, in tutta la sua fatalità.