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I deliri non psicotici

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Il delirio, evento altamente problematico nella dinamica psichica, viene tradizionalmente associato alla follia. Chi delira “esce dal seminato”[1] e non ha più a disposizione il legame con la realtà presupposto che permette sul piano della comunicazione e dello scambio, la produzione di verità e di significato. Altrettanto conosciuta è l’equivalenza posta dalla psichiatria tra il delirio e la psicosi, che si basa sulla perdita di contatto in entrambi i casi con la realtà.

Ogni definizione di delirio deriva dalla concezione filosofica di alcune categorie: “realtà”, “ragione” e “verità”. Esquirol definisce il delirio secondo la seguente teoria:

 un uomo delira quando le sue sensazioni non sono in rapporto con gli oggetti, le sue idee non sono in rapporto con le sue sensazioni, i suoi giudizi e le sue determinazioni sono indipendenti dalla sua volontà.[2

In questo caso è presente, come afferma Mahieu (1996), una concezione del delirio come stato, invece che come formazione ideativa errata, tanto più che la follia è causata, sempre secondo Esquirol, dal deragliamento delle passioni. In accordo con la suddetta concezione di delirio come prodotto di un errore che determina una corrispondenza sbagliata tra percezione del mondo esterno e rappresentazione soggettiva, J. Falret (1864) afferma che il fenomeno delirante è associato a un’ invalidità della capacità di giudizio che genera appunto delle valutazioni erronee. Questa concezione del delirio è anche presente nel sistema nosografico utilizzato dal DSM IV in cui l’idea delirante viene descritta come una credenza erronea, associata a una interpretazione sbagliata delle percezioni o delle esperienze, che differisce dall’idea prevalente per il grado di convinzione che la supporta.

Una definizione come questa esprime l’idea secondo la quale l’attività di pensiero è vista come una funzione specchio della realtà, la cui esattezza dipende dalla corretta interpretazione delle percezioni. Sembra estremamente convincente e stimolante l’ipotesi di A. Jeanneau (2002) che si basa su una serie di questioni di rilevante importanza per la psichiatria. L’autore, affronta e cerca di spiegare la nozione di delirio a partire da una serie di interrogativi sulla possibilità di fondare una lettura unitaria del delirio. Sulle differenze strutturali e funzionali che separano le varie espressioni, sul rapporto tra delirio e psicosi, su quali deliri possono essere definiti psicotici, e quali non psicotici. Egli prende in considerazione la molteplicità delle definizioni esistenti sul campo per introdurre una prospettiva psicoanalitica all’interno della psichiatria e, si mette a confronto, da psichiatra-psicoanalista nutrito di nozioni fenomenologiche, con le nosografie classiche che chiarisce e ridisegna in modo critico.

In particolare vengono esaminati quegli aspetti necessari alla pratica clinica, mettendo in evidenza il compito centrale di un’osservazione volta alla ricerca di dettagli importanti in grado di far luce sull’insieme di fenomeni osservati che, a loro volta acquisiscono significato per il fatto di collocarsi all’interno di una struttura specifica e distinguibile dalle altre. Una clinica ricca di osservazioni, il cui legame con l’elaborazione teorica e con l’identificazione nosografica non può essere eluso, assume una certa rilevanza se la si interroga con lo scopo di trovare nei fenomeni non soltanto un significato psicologico, quanto soprattutto un valore strutturale. Una questione che è importante affrontare è quella delle divergenze teoriche che ruotano attorno alla definizione di un fenomeno psichico così importante come quello del delirio. Altra questione riguarda il tipo di metodologia dell’osservazione utilizzata in psichiatria, da cui se ne ricava una specifica conclusione teorica sul fenomeno.

Di tutt’altro aspetto è invece la concezione fenomenologica del delirio, orientata alla identificazione delle strutture psicopatologiche dotate di significato. Questa prospettiva strutturale è interessata a individuare le forme umane normali e anormali dell’esser-ci e dell’essere-con, nella globalità del loro dispiegarsi attraverso lo spazio e il tempo vissuti. Altrettanto significativa è la concezione freudiana, che intende il delirio come un lavoro ricostruttivo della realtà, ovvero un tentativo da parte del soggetto di ricostruire condizioni accettabili di pensiero mediante la ricerca della neo-realtà delirante che, sia pure nella forma del sintomo, restituisce un ruolo agli oggetti del mondo esterno. La prospettiva freudiana illustra il fenomeno psicopatologico del delirio come precedentemente illustrato, tenendo in considerazione, come sostengono Rosa Maria Salerno e Marco Alessandrini, nella postfazione al lavoro di A. Janneau, che

la teoria dell’inconscio come vera realtà psichica, la concezione dinamica della mente, il ruolo del conflitto e le vicissitudini dell’energia libidica sono gli elementi costitutivi della cornice di riferimento al cui interno si rende possibile una simile lettura del fenomeno psicopatologico.[3]

Questa visione psicoanalitica del fenomeno delirante ha avuto una notevole influenza sul pensiero di Bleuler e sulla sua definizione di schizofrenia nella quale il delirio è visto come sintomo secondario che illustra la funzione di adattamento della parte sana della mente come reazione ad una primaria Spaltung. Il delirio in questo caso viene visto come un sintomo positivo che consente al soggetto

di produrre un senso di qualche tipo e di ricostruire una sorta di equilibrio in seno ad una organizzazione mentale più o meno gravemente minacciata.[4]

In riferimento alla concezione strutturale di Freud e in linea con il concetto di “automatismo mentale” suggerito da De Clerambault, successivamente, J. Lacan, fa una distinzione di base tra deliri isterici e schizofrenici, definendo questi ultimi come costituiti dalla “presenza di alterazioni nella catena elementare del pensiero”[5]. L. Pistoia, invece, individua due filoni di pensiero psichiatrico che distinguono il delirio in demenzialismo e affettivismo. Nel primo caso il delirio coincide con un deterioramento della ragione che determina un errore intellettivo. Nel secondo caso, la produzione delirante è secondaria al turbinio e all’alterazione delle passioni, la cui attività anomala non può non incidere sulla capacità razionale e di giudizio.

Nella prospettiva della psicologia del profondo, P. F. Pieri sostiene che il delirio “nelle sue varie forme, viene essenzialmente considerato come qualcosa di non oggettivo o di non intersoggettivamente condivisibile, ma non per questo come qualcosa che l’oggettività o l’intersoggettività debbono zittire”. Il delirio va ascoltato e interrogato soprattutto prendendolo come un “materiale del soggetto attraverso il quale il soggetto stesso si trova, suo malgrado e quindi inconsciamente, a pensare se stesso e il mondo che si danno sulla quota psichica. Per questa via C. G. Jung invita a considerare il delirio non come una esaltazione della fantasia… “che si oppone al principio di realtà.., bensì come un’esaltazione, semmai, del pensiero individuale sul mondo rispetto ai saperi collettivamente condivisi sul mondo stesso…”. In questa prospettiva l’Io del soggetto ha il compito di integrare nel campo della coscienza questo pericoloso fattore psichico poiché la sua finalità è di condurre il soggetto all’individuazione. In questa prospettiva si potrebbe parlare di “errore dell’Io” il quale non riuscirebbe a reggere

la tensione psichica prodotta dalla coppia di opposti psichici costituita, da un lato, dalla propria identità profonda, e dall’altro da tutti gli altri, per cui si assiste al passaggio enantiodromico in cui l’Io mette il Sé al posto del mondo visto dalla prospettiva degli altri.[6]

In definitiva il delirio viene descritto come “quella convinzione più o meno complessa e sistematizzata che permane di fronte all’evidenza della sua falsità, illogicità e inspiegabilità”. Vediamo adesso, come affrontare e fornire una spiegazione strutturale del sintomo. Tenendo conto dei vari paradigmi nosologici posti dalla psichiatria, dalla psicoanalisi e dalla fenomenologia, e proprio mediante questa chiave di lettura risulta possibile spostare l’attenzione dal sintomo delirante alla persona che delira, la cui personalità è coinvolta nella produzione di una particolare forma di pensiero che si configura come stato delirante in contrapposizione all’emergere episodico di un’idea delirante.

Una ricerca del significato e dell’evoluzione dell’organizzazione delirante, ripropone una definizione del delirio che rimanda alle consuete dicotomie psichiatriche nella quali è sostanziato l’inquadramento e la definizione del sintomo: acuto/cronico, cognitivo/affettivo, opacità/senso.

Questa modalità di descrizione sintomatologica fornisce alla psichiatria una possibilità di lettura delle manifestazioni psicopatologiche costruite su criteri volti a individuare le caratteristiche del fenomeno psichico, conferendogli una fondazione scientifica basata come precedentemente sottolineato, su inquadramenti psicopatologici. A tal proposito infatti, dobbiamo segnalare i suggerimenti teorici che propongono Rosa Maria Salerno e Marco Alessandrini sempre nella loro postfazione, quando citano J. Chazaud il quale sostiene che “nessuna psicopatologia può esistere senza il tempo diagnostico-nosologico” e, sulla difficoltà complessa di individuare “sintomi precisi, isolati e sempre intrinsecamente riconoscibili”, Griesinger, che dice

Due individui possono dire o fare la stessa cosa, per esempio dichiarare la loro credenza nell’influsso delle streghe o il loro timore di essere condannati per l’eternità: l’osservatore, che sa che cosa vuol dire tutto ciò, riterrà l’uno alienato e l’altro sano di mente

e , Kraepelin il quale riprende da Griesinger la sfiducia nei sintomi, e passa dall’approccio sintomatologico a quello clinico, basato, più che sui segni esteriori, sulle caratteristiche dell’esordio e sul suo sviluppo evolutivo.[7] A differenza dell’approccio medico in cui la malattia viene riconosciuta in un sintomo specifico, in psichiatria invece, il sintomo non può essere indipendente dalla presenza o dall’assenza di altri sintomi. Nel caso del delirio, esso è collegato alla menomazione di facoltà riguardanti il giudizio, la percezione, il pensiero. Nel caso della nevrosi isterica ad esempio, la sua organizzazione strutturale rimane invariata nonostante la presenza di manifestazioni deliranti, tuttavia non rientra nel disturbo psicotico. Il delirio, quindi, non si manifesterebbe come fenomeno unitario.

Torniamo così, a Jeanneau, il quale si chiede se è corretta una definizione unica di delirio o se all’interno di questo fenomeno è possibile rintracciare continuità tra il delirio-onirico, quello isterico, quello melanconico, quello paranoico e quello schizofrenico. Egli sostiene che non è possibile trovare un punto in comune tra le varie forme deliranti, in quanto ciascuna si differenzia per il modo in cui si è evoluta e per le cause da cui ha avuto origine. Viene così esclusa sia l’ipotesi di una esperienza o di un momento comune che abbia dato inizio alle varie forme deliranti, che quella della contrapposizione tra acuto e cronico; quindi, il concetto di perdita di realtà, tipico della psicosi, si è rivelato non-utile per descrivere il delirio. Inoltre, più che parlare di delirio, che rimanda all’idea di un fenomeno chiuso in se stesso, è preferibile ricorrere, al verbo delirare in quanto rende più semplice la possibilità di individuare l’emergere di fenomeni psichici con caratteristiche differenti. È possibile però, accomunare tratti comuni ai diversi modi di delirare, e A. Jeanneau, ne mette in evidenza alcuni. Tra i caratteri fenomenologici, viene messa in risalto la necessità impellente di una realtà esterna che è l’unica possibile, e l’imprigionamento del pensiero diretto verso quell’unica verità esterna.

Il delirio, quindi, non coincide necessariamente con la psicosi nonostante entrambi i fenomeni siano legati al rapporto con la realtà. “Un approccio puramente descrittivo non sembra consentire progressi nella messa a fuoco e nella delimitazione differenziale dei fenomeni psicotici, focalizzare la delimitazione differenziale dei fenomeni psicotici, del tipo di realtà che essi mettono in questione e del modo in cui la mettono in questione”.[8]

Il DSM IV non specifica con esattezza il concetto di psicosi, ma ne delinea alcuni aspetti, descrivendoli. In base a una concezione più estesa, possono essere chiamate psicotiche solo le idee deliranti e le allucinazioni; ma è possibile che vengano definite anche psicotiche quelle allucinazioni di cui viene riconosciuto il carattere allucinatorio (le eidolie allucinosiche di Ey) e i fenomeni schizofrenici positivi (ad es. i disturbi del linguaggio). In senso ancora più ampio sono definiti psicotici quei fenomeni di “rottura dei limiti dell’Io” e quelli in cui è presente un inadeguato “esame di realtà”. Come si può notare, sul piano descrittivo, il concetto di psicosi rimane generico, ma rimane una buona definizione psicopatologica se si pensa alle definizioni apportate in campo psicoanalitico e fenomenologico.

A tal proposito è utile ricordare alcuni tra i concetti fenomenologici: quello minkowskiano di “perdita del controllo vitale”, quello binswangeriano di “esistenza inautentica”, quello blankeburgiano di “perdita dell’evidenza naturale”, tutti riguardanti la schizofrenia.

Dal punto di vista psicoanalitico invece, vengono sviluppate definizioni basate sulle intuizioni freudiane circa le differenze tra psicosi e nevrosi, prendendo in considerazione i meccanismi di difesa, il disinvestimento libidico e la perdita di realtà nella psicosi. Sarà J. Lacan (1956) a delineare un confine tra psicosi e nevrosi, fondandolo sulla nozione di forclusione, derivato dall’approfondimento e dall’estensione del concetto freudiano di Verwerfung (rigetto). Rifacendosi alla biforcazione strutturale proposta da Freud tra nevrosi e psicosi, Lacan conferma l’ipotesi della discontinuità tra le due patologie, per cui la prima deriverebbe dal processo di rimozione, mentre la psicosi dal processo di forclusione. Si tratta di due processi di rimozione differenti. Nel caso della nevrosi la rimozione riguarda il desiderio, nella psicosi invece non è il desiderio ad essere rimosso ma la realtà, o come afferma Lacan il fondamento che struttura la realtà, cioè “ il Nome del Padre”, significante della castrazione simbolica. Freud parla di rimozione della realtà. Nella nevrosi è posto al centro il soggetto del desiderio, mentre nel caso della psicosi, al centro è il soggetto in rapporto con la realtà in quanto è il quadro stesso della realtà che viene meno, che si disgrega perché non c’è più il significante (Nome del Padre) che lo sostiene.

Jeanneau propone di utilizzare il concetto di psicosi relativamente alla schizofrenia e il concetto di delirio psicotico alle varie espressioni del delirio schizofrenico, nel tentativo di collocare le insufficienze mentali che non trovano spazio in termini psicoanalitici e distinte strutturalmente da altre psicopatologie che rientrano nel campo della psicosi, nelle quali non è presente il problema dell’identità soggettiva e dell’organizzazione simbolica del pensiero. L’unica vera psicosi sarebbe, quindi, la schizofrenia, costituita dall’estraneità a se stessi e dall’impossibilità di rispecchiamento nell’incontro con l’altro per carenza di spazio psichico proprio, e al contempo di spazio condivisibile.

Questa lettura psicoanalitica della schizofrenia, operata da Jeanneau, lo conduce a includere in essa unitamente alle forme deliranti acute anche le organizzazioni deliranti croniche (deliri schizofrenici, parafrenie fantastiche kraepeliane e la psicosi allucinatoria cronica) ritenute dall’autore come organizzazioni difensive. Sembra inoltre importante la clinica proposta da Jeanneau che ruota attorno alle differenzazioni tra i vari disturbi della coscienza. L’alterazione della coscienza di Ey, è conseguenza di problematiche più profonde che trovano origine nell’ organizzazioni nevrotica, psicotica o depressiva. [9]

La rivisitazione in ambito lacaniano della distinzione freudiana nevrosi/psicosi porta a riconsiderare le follie isteriche e a collegare l’isteria ai significati deliranti proprie del concetto bleuleriano di schizofrenia. Basandosi sull’insegnamento di Lacan, Maleval affronta il problema dei deliri isterici distinguendoli da quelli psicotici per l’assenza di componenti strutturali legate al fallimento della funzione simbolica e quindi, in particolar modo, dall’assenza di disturbi del linguaggio. Maleval ribadisce che alla base del meccanismo psicotico vi è la forclusione del Nome del Padre, mentre nell’isteria la rimozione. In tal caso il delirio mantiene le proprietà del sintomo isterico, è organizzato come un sogno, è sostenuto dal desiderio e rimane nell’ambito della nevrosi, incentrata sulla conflittualità edipica. Nel delirio isterico è possibile ricostruire una storia seguendo un filo logico che contrasta con l’immobilità del discorso psicotico.

Vergote trova una corrispondenza tra le rappresentazioni erotico-mistiche, frequenti nel delirio e le fantasie remote, al limite delle rappresentazioni fantasmatiche, che si manifestano a volte all’esordio dell’isteria. In tal caso il soggetto coglie nei significanti mistici una sorta di linguaggio terapeutico che gli consente di sottrarsi alla rimozione mediante l’investimento diretto di rappresentazioni sostitutive. Vergote aggiunge “il nevrotico subisce la violenza della sua compulsione ad allucinare”.

Jeanneau riconferma l’autonomia del delirio isterico, costituito dalla conflittualità relazionale, da un certo grado di compromesso, dall’irrompere del fantasma che si trasforma in evento e in azione, dalla conservazione del livello simbolico, il cui simbolismo è sostenuto dal peso eccessivo della pulsione. Il fautore di questo tipo di delirio è il desiderio, il cui soddisfacimento è spostato nelle allucinazioni oniriche alle quali il soggetto si abbandona passivamente, mentre il carico d’angoscia che rende tormentoso il delirio isterico, rimanda al senso di colpa nevrotico. Il delirio isterico si pone, secondo l’autore, nel nodo critico tra conflitto e depressione ed è caratterizzato dal ribaltamento topico, dall’onnipotenza allucinatoria e dalla tendenza idealizzante.

L’analisi attenta dell’evoluzione di questa particolare forma delirante, dà spazio a un’altra famiglia di deliri non psicotici: deliri che si situano all’interno della struttura depressiva. In questo caso l’interesse principale è quello di assicurarsi la presenza dell’altro, utile per il mantenimento delle proprie identificazioni narcisistiche, anche attraverso il ricorso alla funzione delirante. L’artefice di questa forma di delirio è quindi la mancanza, la perdita di libido associata alla scomparsa di un oggetto troppo importante da poterne sopportare l’eventuale assenza, tanto che il melanconico tenta di trattenere a tutti i costi mediante l’incorporazione, anche al costo degli attacchi di odio rivolti contro quelle parti di sé con cui l’oggetto viene a coincidere.

Jeanneau sceglie di seguire la semiologia dell’oscillazione tra la melanconia e la mania, tra l’ipocondria e l’accusa persecutoria di un Super- Io, che mediante l’espulsione dell’oggetto interiorizzato, recupera le sue origini esterne. Sulla stessa linea narcisistica si pongono, secondo una continuità logico-strutturale, la persecutorietà del delirio querulomane e il controllo incessante dei deliri passionali (in primis quello della gelosia, sinonimo della passione senza amore), che esprimono a loro volta la soluzione delirante al rischio di una mancanza oggettuale insostenibile; e vi trova posto anche il delirio di rapporto dei sensitivi, esempio caratteristico di un collegamento tra struttura di personalità e ambiente che rappresenta totalmente l’evoluzione delirante.

Mentre il delirio isterico è legato a una esplosione libidica e i deliri contro-depressivi tentano di tamponare una perdita libidica, i deliri psicotici invece, fanno trasparire una qualità anti libidica e le tematiche ipocondriache, omosessuali e persecutorie che li attraversano indicano un vissuto di sconfinamento intrusivo dell’altro nel corpo, nello spazio, identità e pensiero, prigioniero di una originaria e radicale insicurezza che danneggia i fondamenti del loro costituirsi. Il delirio psicotico è caratterizzato da una paura generale, in cui lo smarrimento travolge la possibilità stessa di esistere, nel momento in cui la sessualità richiama, nell’incontro con l’altro, una intollerabile demarcazione da sé e l’invasione alienante dei propri incerti confini. Ecco il motivo per cui lo psicotico è perseguitato dalla propria sessualità: perché gli è mancata la possibilità prima di tutto di percepirsi al di là di se stesso in virtù della differenza dei sessi, nell’importanza di uno spazio e di un tempo ben definiti, e mediante la profondità dello sguardo materno. È a questo che fa riferimento Lacan quando parla della carenza di quel significante che si ripresenta persecutoriamente nella realtà.

Il delirio quindi serve per costruirsi nuovi punti di riferimento, nuove regole che normalizzano gli scambi con gli esseri, e cerca di riempire le lacune nel sistema simbolico mediante un’ipersignificazione senza significanza. Il delirio psicotico non origina da un pensiero che si evolve in delirio, ma nasce dal delirio stesso, e questo spiega il perché diviene spontaneo come forma di pensiero. È necessaria una clinica in grado di sostituire quel linguaggio interiore psicotico che il soggetto usa per aiutarsi a rappresentare la realtà anche se in modo distorto, con un linguaggio esterno che lo aiuti a mettere in ordine quella realtà così deformata e bizzarra.

L’allucinazione uditiva psicotica ha modi diversi per manifestarsi, non ha un’origine precisa ed è indipendente dalla funzione visiva; il delirio deriva, in tal caso, dal bisogno di espellere dalla mente un fenomeno psichico che, non avendo senso, di fatto non presenta peculiarità psichiche. La realtà psicotica è caratterizzata quindi non da frasi irricevibili, ma da fenomeni incomprensibili. Diversa è invece la realtà delirante del versante nevrotico o narcisistico “non solo è necessaria all’equilibrio del gioco conflittuale, ma è anche adeguata al funzionamento mentale”.

Amato Luciano Fargnoli, pubblicato in Idee in Psicoterapia, vol. 7 Gen-Apr. 2014, pp. 47-55.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Blankenburg W., (1971) La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie paucisintomatiche, Cortina, Milano, 1998.

De Cleambault G. G., Automatismo mentale. Psicosi passionali, Metis, Chieti, 1994.

Del Psitoia L., Psicopatologia: realtà di un mito in Atque. Materiali tra filosofia e psicoterapia, 1996.

Ey H., Traité des hallucinations, Masson , Paris, 1973.

Jeanneau A., I deliri non psicotici, Editore Marietti, Milano-Genova, 2002.

Lacan J., Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, in Scritti Vol. II, Einaudi, Torino, 1974.

Maleval J. C., Folies histeriqué et psychoses dissociatives, Payot, Paris, 1981.

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Resnik S., Isteria in Enciclopedia VII, Einaudi, Torino, 1979.

Vergote A., Dette et désir deux acses crétiens et la derive pathologique, Seuille, Paris, 1978.

[1] Jeanneau A., I deliri non psicotici, Editore Marietti, Milano-Genova, 2002, pgg. 220-221.

[2] Jeanneau A., op. cit., Milano-Genova, 2002, pag. 220.

[3] Vedi postfazione in A. Jeanneau, op. cit., Milano-Genova, 2002, pag. 222.

[4] Jeanneau A., op. cit., Milano-Genova, 2002, pag. 222.

[5] Jeanneau A., op. cit., Milano-Genova, 2002, pag. 222.

[6] Pieri P. F., Dizionario junghiano; Bollati-Boringhieri, Torino, 1998, pag. 202.

[7] Jeanneau A., op. cit., Milano-Genova, 2002.

[8] In A. Jeanneau, op.cit., Milano-Genova, pag. 232.

[9] Jeanneau A., op. cit., Milano-Genova, 2002, pag. 236.

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