Psicoanalisi e terapie psicodinamiche. Jeremy D. Safran
Psicoanalisi e terapie psicodinamiche. Jeremy D. Safran

INTRODUZIONE

‘Non sono mai stato a mio agio nell’identificarmi esclusivamente in una tradizione terapeutica’, dice l’autore. Safran si interessa alla psicoanalisi perché la considera un multiverso e non un circolo chiuso. Non serra la porta a nessuna delle esperienze cliniche di diversa derivazione. Questo aspetto ci rende profondamente simpatico l’autore e la sua opera. Negli anni ’80 Safran muove i primi passi dal cognitivismo, poi si interessa all’approccio interpersonale (Safran, Segal 1990), poi alla terapia umanistica (Greenberg, Safran 1987), poi alla psicoanalisi relazionale (Safran, Murray 2000) infine si occupa del rapporto fra psicoanalisi e buddismo (Safran 2003). Nell’introduzione è stato scritto che il suo motto sarebbe potuto essere: unus ego et multi in me. Guai ad identificarsi con un credo, ergendosi a paladino di dottrine immutabili!

La sua multidisciplinarietà gli ha consentito di gettare le basi per un nuovo approccio terapeutico –di cui intelligentemente non rivendica l’unicità- che chiama Brief Relational Therapy (Safran 2002). Terapia relazionale breve. Le caratteristiche del modello psicodinamico breve sono: focus sulla relazione terapeutica e centralità del controtransfert. Ma allora perché fra le tante alternative cliniche Safran parla di psicologia dinamica? Perché la psicologia dinamica può diventare il contenitore delle altre e perché la psicologia dinamica funziona.

‘Contrariamente ad un comune pregiudizio, ci sono in realtà prove sostanziali e sempre in aumento dell’efficacia dei trattamenti psicoanaliticamente orientati e della validità di diversi costrutti psicoanalitici’ (p. 6)

E allora perché la psicologia dinamica non è più di moda? Perché la psicoanalisi convince sempre meno? In una parola: perché sta languendo nel panorama psicoterapeutico?

Safran, americano, distingue fra la cultura europea e quella americana, attribuendo a quest’ultima gran parte delle responsabilità. Tra le tendenze culturali che negli Stati Uniti tendono a marginalizzare la psicoanalisi ‘si possono elencare una propensione per l’ottimismo, per la rapidità, per il pragmatismo, per la strumentalità e per l’intolleranza verso l’ambiguità. (p.7)’ Tutti questi elementi tuttavia ‘possono anche trovarsi associati ad un’ingenuità che tende a sottovalutare la complessità della natura umana e la difficoltà del processo di cambiamento.’ In particolare ‘la cultura americana tradizionalmente tende a sorvolare sulle domande più tragiche della vita, a sposare la convinzione per la quale noi tutti possiamo essere felici se solo ci impegniamo abbastanza (p. 7).’ E questo non è sempre vero.

Ma soprattutto l’eclissi della psicoanalisi, secondo Safran, è dovuta alla prevalenza al suo interno delle tendenze conservatrici su quelle rivoluzionarie. L’eclissi della psicoanalisi è legata alla adozione di canoni di rigore formale, che ella stessa ha voluto imporsi.

‘La psicoanalisi ebbe inizio in parte come critica radicale agli effetti patogeni della repressione sociale e della conseguente rimozione della sessualità (p.9)’.

Ferenczi, Adler, Abraham, Reich, Fromm e l’Istituto di Francoforte, Fenichel erano attivisti sociali e a volte politici, oltre che psicoanalisti. Il viraggio avviene, secondo Safran, nel 1938. E’ l’anno in cui l’APA, l’American Psychoanalytic Association, ha stabilito di restringere ai soli medici la partecipazione al training psicoanalitico ufficiale. Con questa scelta la psicoanalisi diventa una professione remunerativa, prestigiosa e conservatrice, ‘che attraeva candidati più interessati a diventare membri rispettati dell’establishment che a sfidarlo’ (p. 13). Da qui anche l’aumento dello squilibrio fra il potere dell’analista e le esigenze del paziente; da qui l’istituzionalizzazione, la normalizzazione sociale degli esiti delle terapia. L’atto sanzionatorio di questo arroccamento si è avuto con il DSM-III (1980). La psicoanalisi è definitivamente estromessa dallo studio dei disturbi mentali. Diventa una elite speculativa fuori dal main stream della ricerca scientifica (e dai finanziamenti dei colossi economici mondiali).

Ora potrebbe esserci la riscossa, da una posizione (‘fortunatamente’) di forzata marginalizzazione. ‘Potrebbe darsi che alcuni tratti rilevanti che stanno emergendo nella psicoanalisi americana contemporanea siano più vicini alla sensibilità propria dei primi psicoanalisti che a quella della psicoanalisi americana nei suoi giorni di gloria, negli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta.’ La prima acquisizione di questo arretramento è che appare obsoleta la distinzione fra psicoanalisi, la forma pura, da una parte, e le terapie psicoanalitiche o psicodinamiche, le forme spurie, dall’altra. Se è vero che alcuni pazienti potrebbero ancora trarre beneficio dalle caratteristiche ‘auree’ della psicoanalisi freudiana (lettino, totale astinenza dal rapporto diretto con il paziente, terapia a lungo termine e intensiva) è altrettanto vero che sempre più pazienti si trovano a proprio agio con altre modalità di setting. Senza negare la validità dei parametri associati con la psicoanalisi classica, essi possono diventare parte degli strumenti degli attrezzi di un terapeuta psicodinamico più attento all’ascolto della varietà delle richieste.

 STORIA (DELLA PSICOANALISI IN AMERICA)

Il libro di Safran inizia con Freud. L’autore ripercorre le origini della psicoanalisi, per individuarne la parte ancora vitale e soprattutto per seguirne i mutamenti, una volta trapiantata in territorio yankee. Viene ricordato l’incontro a Parigi con il rinomato neurologo Jean-Martin Charcot e poi dal 1886 la collaborazione con il mentore viennese Josef Breuer. Fino alla pubblicazione nel 1900 dell’Interpretazione dei sogni, il libro che valse a Freud l’ammirazione del direttore dell’Istituto Burgholzli di Zurigo, Eugen Bleuer, e la stima dei giovani brillanti psichiatri del suo staff. Fra i quali il più rinomato era Carl Gustav Jung.

Il viaggio in America nel 1909 di Freud e Jung su invito di Stanley Hall presso la Clark University pone le fondamenta per la radicazione della psicoanalisi nel nuovo continente. La Seconda Guerra Mondiale, con la persecuzione di un gran numero di analisti ebrei, determina l’emigrazione in massa degli studiosi della nuova scienza verso paesi stranieri, di cui i più gettonati erano proprio l’Inghilterra, l’America Latina e gli Stati Uniti. Fin qui niente di nuovo. A questo punto che cosa succede? Qual è, secondo Safran, il percorso autodistruttivo che la psicoanalisi americana intraprende? Perché insomma il suo attecchimento in terra stelle-a-strisce è stato così fugace, contagiando negativamente il giudizio sulla psicoanalisi in tutte le altre parti del mondo? Safran, per rispondere, parte da lontano.

Nell’opera di Freud, secondo l’analisi a ritroso dell’autore americano, vi sono essenzialmente quattro grandi ‘scoperte’. L’uso delle libere associazioni, la nozione di resistenza, il concetto di transfert e l’abbandono della teoria della seduzione a favore della teoria strutturale. Teoria in cui la psiche è tripartita in Es, Io e Super-Io, in seguito alla pubblicazione (1923) del libro L’Io e l’Es. Alla morte di Freud nel 1939 le cose si complicano. In particolare cominciano a farsi largo nuove scuole psicoanalitiche. In particolare la psicologia dell’Io, nata ad opera della figlia del maestro viennese, Anna. La psicologia dell’Io sottolinea la necessità di comprendere il funzionamento difensivo dell’Io. La dimensione pragmatica di questa corrente consente il suo facile trasferimento da Londra in America, grazie all’emigrato austriaco Heinz Hartmann. Negli USA la psicologia dell’Io diventa il Corano e il New York Psychoanalitic Institute la Mecca della psicoanalisi, fino agli anni ’60.

La seconda importante tradizione psicoanalitica oltre Freud è conosciuta come la teoria delle relazioni oggettuali. Essa nasce dalla rivale londinese di Anna Freud, cioè l’emigrata austriaca Melanie Klein (1882-1960). Fairbairn e poi Bion ne affiancano, proseguono e chiariscono concettualmente il pensiero in Europa, fino al nostro Antonino Ferro. In America Latina invece la corrente kleiniana viene accolta da autori importanti come Ignacio Matte Blanco. Ma è in America, secondo Safran, che sorge la vera sfida al post-freudianesimo, ossificato nei dogmi della psicologia dell’Io. I tre paladini del pensiero psicoanalitico pluridimensionale – che tanto piace a Safran e a noi con lui- sono: Sullivan, Kohut e Greenberg.

Harry Stack Sullivan (1892-1949) nel 1946 insieme alla Thompson (allieva di Ferenczi) e a Fromm fonda il William Alanson White Institute di New York. L’istituto diviene il centro della psicoanalisi interpersonale americana. Il secondo eretico è Heinz Kohut (1984) che pone il baricentro analitico nell’aiuto ai pazienti a costruire un senso di Sé coeso e a trasformare il senso di vuoto in uno di vitalità e di autenticità. Al suo pensiero, che riprende alcuni autori del Middle Group come Balint e Winnicott, egli dà il nome di psicologia del Sé.

Il terzo e più importante paradigma americano (post-psicologia dell’Io) nasce in coincidenza con la pubblicazione del libro di Jay Greenberg e Stephen Mitchell, Le relazioni oggettuali nella psicologia analitica (1983). Il libro segna una svolta nella psicoanalisi. Esso introduce e fa accettare la prospettiva interpersonale all’interno della psicologia dell’Io. L’ultima tradizione psicoanalitica –a latere delle precedenti- è riconducibile a Lacan (1901-1981) e alle teorie post-lacaniane. Secondo l’autore francese l’obiettivo dell’impegno nel setting è di riappropriarsi del proprio desiderio, separandosi dal desiderio dell’Altro, acquisito durante l’infanzia. In America Latina la psicoanalisi lacaniana si afferma come background culturale contro l’egemonia delle dittature dagli anni ’60 agli anni ’80. Ma è con la psicologia relazionale che avviene la vera svolta nel post-freudismo.

TEORIA

In questo capitolo Safran introduce due grande temi. Nel primo indaga l’obiettivo della pratica psicoanalitica. In particolare cerca di chiarire la distanza assunta dall’analisi nei confronti del concetto di felicità. Aspetto importante, dal momento che è alla base della disaffezione dell’arte analitica dalla odierna sensibilità americana. Nel secondo l’autore si sofferma sui costrutti-chiave, ancora attualmente operativi, che distinguono la psicoanalisi dalle altre tradizioni psicoterapiche.

‘La psicoanalisi trasforma la miseria nevrotica in infelicità comune’, diceva Freud nel 1895. Al di là del pessimismo del padre della psicoanalisi, quello che forse rimane attuale è il tentativo di distinguere la sofferenza esistenziale, ineliminabile, dalla sofferenza nevrotica, oggetto della terapia. Tradotto con un linguaggio positivo, molti psicoanalisti parlano di ‘imparare a vivere con vitalità’ (p. 44). Anche la dimensione della sofferenza. Ecco allora che l’aforisma di Freud potrebbe essere modernizzato in: ‘la psicoanalisi restituisce la vitalità, non la felicità’. Operata questa correzione, tuttavia, l’antagonismo fra psicoanalisi e ‘medicina correttiva’ –quella di moda nelle odierne psicoterapie- rimane. Le dimensioni valoriali di tolleranza dell’incertezza, di accettazione dell’irriducibile ambiguità dell’esistente e di etica dell’onestà di fronte alla complessità si oppone al furor sanandi delle semplici tecniche terapeutiche. La psicoanalisi non può che essere controcorrente rispetto agli obiettivi, ad esempio, della MCO, il managed care organization, i movimenti terapeutici basati sull’evidenza.

La psicoanalisi non insegna la felicità; tantomeno insegna l’adeguamento ai criteri che la società detta come più idonei ad un agire comune. Nel continuum con gli assunti ‘soggettivanti’ della cultura romantica, nata nel XVIII secolo in Europa, la psicoanalisi difende l’autenticità dell’individuo. E’ la scienza chiamata a tutelare il singolo di fronte ‘agli effetti mortiferi delle convenzioni sociali e del conformismo nella vita degli individui’ (p. 48).

Schon polarizza le due modalità terapeutiche con due definizioni: razionalità tecnica e riflessione-in-azione. La prima è basata sugli stili di problem solving. La seconda, quella della psicoanalisi, è un processo di valutazione che implica l’integrazione della soggettività del tutto unica del terapeuta e del paziente, allo scopo di trovare un modo di operare specifico per quella specifica forma di aiuto. La psicoanalisi è più rivolta alla individuazione del singolo che alla sua integrazione nel collettivo. Con tutto il carico di felicità e di infelicità che questo processo comporta.

L’altro tema proposto da Safran in questo capitolo riguarda i concetti chiave attualmente validi della psicoanalisi. Il primo è l’inconscio. ‘Noi non siamo padroni a casa nostra’, è l’intuizione fondante della psicologia dinamica. Sia quando viene concettualizzato in termini freudiani tradizionali sia quando l’inconscio viene espresso come luogo delle esperienze che non sono state simbolizzate, o ancora come Stati dissociati del Sé, il vero collante delle psicoterapia dinamiche rimane l’esistenza di una dimensione non consapevole.Il mistero di ciò che ci supera affascina tutte le espressioni della psicologia dinamica.

Il secondo concetto-chiave è il ruolo significativo che l’indagine sulle fantasie assume nella comprensione del paziente. Un terzo concetto chiave, acquisito solo con lo sviluppo del pensiero analitico, è il passaggio da una psicologia monopersonale ad una bipersonale. Il terapeuta insomma è parte attiva e non osservatore del processo. Altri concetti-chiave canonici -e ancora validi- sono: la presenza delle difese, della resistenza, del transfert e del controtransfert.

Più nuovo e sofisticato ma non meno utile è l’enactment, la messa in atto. L’enactment è ‘uno scenario ripetitivo messo in scena nella relazione fra paziente e terapeuta’ (p. 60). Esso riflette il contributo inconsapevole delle storie personali, dei conflitti, dei modi caratteristici di gestire le relazione da parte di entrambi. L’enactment è ciò la psicologia cognitiva chiama il ‘copione’. Ebbene, secondo Philip Bromberg (1998), non solo l’enactment è un errore in cui è ‘normale’ cadere, ma esso è anche lo strumento che consente di conoscere i nostri pazienti ‘al rovescio’. ‘Ciò che i nostri pazienti non riescono a comunicarci attraverso le parole viene comunicato con il comportamento non verbale e l’azione, e il solo modo in cui possiamo arrivare a comprendere l’importanza degli aspetti dissociati dell’esperienza interna del paziente è quello di svolgere un ruolo complementare nei loro scenari relazionali e percepire come ci fa sentire svolgere questo ruolo’ (p. 61) L’enactment è un costrutto non facile, ma operativamente molto utile.

Altro concetto-chiave di crescente consenso è l’alleanza terapeutica. Safran ha dedicato un precedente libro (Safran, Muran 2000) alla negoziazione dell’alleanza come strumento esso stesso di cambiamento. L’atteggiamento del terapeuta è -come detto- il concetto-chiave più profondamente cambiato dagli inizi della psicoanalisi ad oggi. Parlare di astinenza, anonimato o neutralità ha senso solo come sollecitudine verso la riflessione dell’impatto che ogni condivisione delle informazioni del terapeuta provoca sulla psiche del paziente. Non più come veto immodificabile.

Più rischiosa è l’adozione di un altro concetto-chiave della moderna psicologia dinamica. La self-disclosure. Ne esistono di due tipi, distingue Safran. Potrebbero essere chiamate: self-disclosure di informazione e self-disclosure di controtransfert. La prima può interferire con il processo terapeutico o avere conseguenze impreviste o potenzialmente dannose. Nei pazienti la volontà di conoscere il terapeuta è sempre permeata di ambivalenza. Nella self-disclosure di controtransfert invece il terapeuta rivela aspetti dei propri pensieri o dei propri sentimenti all’interno delle sedute. Essa può diventare un modo utile di ‘mettere in parole quello che si verifica implicitamente nella relazione terapeutica’ (p. 66), per poterlo esaminare.

Gli ultimi due concetti chiavi della moderna psicologia dinamica derivano dalla sostituzione della teoria delle pulsioni (sessuali) di Freud con altre più complesse. In particolare la prospettiva motivazionale e la teoria dell’attaccamento. Un esempio della prima è la teoria di Licthenberg (1989) e dei suoi 5 sistemi motivazionali. L’origine invece della teoria dell’attaccamento deriva dagli studi e dalle ricerche sprimentali e etnologiche di Bowlby (1980).

 PROCESSO PSICOTERAPICO

Ed eccoci al cuore del libro! In questo capitolo vengono discussi due temi centrali dell’operatività analitica: i principi di intervento e i meccanismi di cambiamento. Al termine vi è una dettagliata esposizione della Terapia Breve Psicodinamica, -di cui Safran è l’ideatore – a partire dal confronto con le terapie a lungo termine. Su questo ultimo paragrafo non ci soffermeremo.

Le possibili forme di intervento clinico sono state così schematizzate da Safran: all’inizio vi è la formulazione del caso. Malgrado esistano diverse modalità di formulazione, la base è quasi sempre costituita dalla ricerca della organizzazione di personalità del paziente. Ad esempio per la psicologia dell’Io e per la moderna teoria del conflitto (versione aggiornata della psicologia dell’Io) l’organizzazione di personalità si costruisce dal conflitto fra i desideri inconsci e le difese nei confronti di quest’ultimo. Invece le teorie delle relazioni oggettuali, le teorie interpersonali e quelle relazionali formulano i casi enucleando le relazioni oggettuali interiorizzate, che portano l’individuo a mettere in atto pattern ripetitivi e disadattativi.

La formulazione del caso prevede il reperimento delle coordinate di funzionamento –emotivo, comportamentale e cognitivo- del soggetto in analisi. I dati ricavati dal terapeuta provengono da una grande varietà di informazioni: dalle storie narrate dal paziente, dai modelli interpersonali inscenati nel setting e dalla continua riflessione del terapeuta sui suoi stati d’animo e sui suoi contributi, durante la relazione terapeutica.

Per quanto riguarda quest’ultimo ‘radar’, l’accento è posto dalla moderna psicologia dinamica sull’importanza di mantenere una mente aperta e ricettiva che raccolga le informazioni non solo dal paziente ma anche dalle esperienze che l’analista fa del proprio controtransfert. Donnel Stern parla di ‘fusione di orizzonti’, espressione mutuata dal filosofo Gadamer. L’unico modo per capire veramente i nostri pazienti è entrare nel loro mondo relazionale e recitare inconsciamente con loro in diversi scenari. Solo consentendo a noi stessi di essere usati in questo modo e riflettendo sul nostro controtransfert, possiamo entrare in sintonia con gli aspetti dissociati della loro esperienza. Non certo in ordine cronologico, Safran cita -dopo la formulazione del caso- un altro intervento fondamentale del processo terapeutico: l’empatia. Kohut l’ha valorizzata chiamandola anche introspezione vicariante. Daniel Stern ne ha discusso come sintonizzazione affettiva.

Storicamente l’intervento più decisivo, l’interpretazione -terza forma di intervento- oggi non gode della stessa sicurezza d’efficacia. Al di là della scuola di appartenenza è comunque bene distinguere fra accuratezza ed utilità. Un’interpretazione può essere precisa, pur provocando più danni che benefici per il momento o il modo in cui viene espressa al paziente. Al contempo una forte alleanza terapeutica consente la condivisione delle interpretazioni più minacciose. ‘Lo stato mentale del terapeuta (in altre parole il grado in cui il terapeuta si sente connesso empaticamente al paziente) è importante almeno quanto il contenuto specifico della sua interpretazione, o anche di più’ (p. 79).

Accettabile è l’uso della chiarificazione, del supporto o dei consigli quando è richiesto o questi servono a ridurre lo squilibrio di potere. Mostrare di poter giocare a carte scoperte con i pazienti è meglio che impegnarsi in un processo di occultamento. L’accettazione di queste modalità ‘attive’ di intervento da parte del terapeuta, permettono alla psicologia dinamica di Safran di muoversi con libertà dal versante interpretativo a quello supportivo, senza legami ideologici con la psicoanalisi.

Proseguendo nei principi di intervento, si arriva ad una delle forme più sofisticate d’interpretazione. L’interpretazione del transfert. Essa ha lo scopo di mettere a fuoco il qui e ora della relazione terapeutica; indirizzando il paziente su qualcosa di nascosto che si sta verificando nel presente. La sua caratteristica è proprio l’immediatezza e la vividezza. Safran l’ha chiamata in passato ‘metacomunicazione’. ‘La metacomunicazione consiste nel processo per il quale si tenta di uscire dalla sequenza relazionale che viene messa in atto in un dato momento, assumendola come oggetto di reciproca indagine’. Esistono, dice Safran, diversi tipi di metacomunicazione: un terapeuta può proporre un’osservazione in forma ipotetica riguardo a ciò che succede fra lui e il paziente. Un altro può comunicare un’impressione soggettiva circa quello che il paziente sta facendo. Un altro ancora prende spunto da un’impressione soggettiva, ad es: ‘mi accorgo di non riuscire a dire niente di utile in questo momento’. Il must è: considerare la metacomunicazione sempre come una ipotesi di doppia origine (paziente e terapeuta) e mai come un esercizio di distaccata supremazia, soprattutto quando l’alleanza terapeutica è debole.

Più classiche sono – altro principio di intervento- le interpretazioni extratransferali, cioè quelle che non fanno riferimento diretto alla relazione terapeutica. Le interpretazioni extratransferali rimangono utili, dice Safran (e io concordo), a condizione che si eserciti una sensibilità clinica aggiuntiva. Bisogna che il paziente si senta veramente confuso e sia in cerca di comprensione e che l’interpretazione sia espressa dal terapeuta in modo tale da facilitare una successiva esplorazione, più che in modo da chiudere l’argomento.

A pieno diritto dentro lo strumentario di un terapeuta psicodinamico vi è l’’interpretazione genetica di transfert’. La ricostruzione storica della genesi del sintomo, insomma. ‘Questo tipo di interpretazione comporta la formulazione di un’ipotesi riguardo al ruolo che le esperienze evolutive di un individuo giocano nel dare forma ai conflitti presenti (p. 84)’. Il rischio? Porre troppa enfasi nella scoperta dei pattern infantili autosabotanti può portare ad una certa fissazione con il passato, senza dar corso ad una volontà di reale cambiamento. Una forma di intellettualizzazione del processo terapeutico, insomma.

Non in discussione è un ulteriore principio di intervento, considerato da Freud la via regia all’inconscio. Il lavoro con i sogni. Utile in particolar modo con i pazienti che hanno difficoltà ad entrare in contatto e ad esprimere la loro vita interiore in terapia. Alcuni consigli pratici per l’analisi dei sogni: ascoltare il sogno con la massima apertura, registrando le emozioni che suscitano nel terapeuta. Porre attenzione al modo in cui il sogno viene narrato e chiedere al paziente le emozioni che accompagnano la rievocazione. Lasciare al paziente la possibilità di raccontare il sogno una seconda volta, più lentamente, con la licenza di interromperlo per averne delucidazioni. Considerare il materiale del sogno come quello di un gioco a due, interattivo, con il quale costruire un significato condiviso. Particolare attenzione va anche posta agli aspetti del sogno che costituiscono dei riferimenti alla relazione o al terapeuta (‘allusioni al transfert’).

Accanto al lavoro sui sogni, gli altri due principi d’intervento più tipicamente psicodinamici sono: l’interpretazione delle resistenze e l’interpretazione delle difese. Per quanto riguarda le resistenze in terapia esse includono: l’arrivare tardi in seduta, il non presentarsi alle sedute, il verificarsi di lunghi periodi di silenzio o di incapacità di comunicare, il riempire la seduta con chiacchere superficiali o conversazioni da salotto, il mancato pagamento delle sedute, l’eccessiva compiacenza e ciò che viene detto ‘fuga nella salute’. Cioè il riferire una rapida, improvvisa e transitoria riduzione dei sintomi, per evitare l’esplorazione dei problemi più profondi.

Nell’interpretazione delle difese, il terapeuta deve sempre valutare che il paziente non percepisca l’atto come troppo confrontativo o critico. Si rischierebbe l’empasse, tema delicatissimo al quale Safran ha dedicato un precedente libro. L’empasse si crea quando né il paziente né il terapeuta riescono a riconoscere in modo genuino il valore della prospettiva dell’altro. A questo punto il compito del terapeuta è di facilitare lo spostamento verso una posizione terza. Una posizione di alternativa alla dicotomia fra ‘tu hai ragione’ e ‘io ho ragione e tu torto’. Questo passaggio richiede ‘di fare esperienza dell’altro come di un soggetto più che come un oggetto, mentre allo stesso tempo si rimane in contatto con la propria soggettività’. Dislocazione non facile, ma essenziale e fertile per qualsiasi tipo di evoluzione psichica del paziente al fine di riconoscere le dinamiche psichiche da cui è abitato.

La gestione della fase conclusiva della terapia viene considerata da Safran uno dei principi d’intervento più delicati ed essenziali. Ma rappresenta anche – dal mio punto di vista – uno dei temi più disattesi in letteratura. Una conclusione ben gestita, dice l’autore, può giocare un ruolo cruciale nell’aiutare i pazienti a consolidare i possibili progressi ottenuti grazie alla terapia. Al contrario, una conclusione gestita maldestramente può avere un impatto negativo sull’intero processo terapeutico. Di solito sono i pazienti che introducono l’argomento con il terapeuta: o perché sentono di aver raggiunto l’obiettivo prefissato o perché frustrati dalla mancanza di progressi. In ogni caso il terapeuta deve saper esprimere rispetto per il valore della decisione ultima del paziente. Quando tuttavia il terapeuta sente che la decisione è prematura, occorre esplorare le ragioni per le quali il paziente si è così esposto: insoddisfazione, delusione, rabbia….

L’analisi delle ambivalenze inconsapevoli del paziente – altro principio d’intervento – presenti alla fine della terapia non deve rischiare la svalutazione del paziente e delle sue motivazioni esplicite. Il terapeuta deve saper accettare e restituire sia le emozioni negative che quelle positive a lui rivolte Anche quando il paziente manifesta indirettamente il suo desiderio di interrompere il lavoro non presentandosi alle sedute, il terapeuta può cercare di fissare un’ultima seduta in cui poter esprimere più chiaramente che cosa gli succede. Ma senza forzature.

In fondo nella fase conclusiva della terapia, più che in qualsiasi altro momento del percorso clinico, è necessario – ultimo principio d’intervento – sapere coltivare un’atmosfera che tollera l’ambiguità e l’incompiutezza, dice Safran. Anzi proprio questo può essere il principale messaggio di commiato dall’analisi. ‘Imparare a convivere con l’ambiguità e con una sensazione di parziale incompletezza è un risultato evolutivo importante’. E’ uno dei modi per misurare il valore di una terapia ‘abbastanza buona’.

Il secondo grande capitolo – come detto – è dedicato ai meccanismi di cambiamento. Perché una terapia funziona? Attraverso quali interazioni psichiche? La prima risposta storica da parte della psicoanalisi è stata: rendere conscio l’inconscio. Il presupposto è che nel divenire consapevoli dei nostri desideri inconsci e delle nostre difese noi aumentiamo la possibilità di scegliere. Centuplichiamo il grado di incidenza e di responsabilità.

Un secondo meccanismo di cambiamento proposto, corollario del precedente, è stato il ruolo dell’insight emotivo e della comprensione. Dove per insight e comprensione si intende una dimensione cognitiva intimamente legata a quella affettiva. Ebbene, per molto tempo si è ritenuto che il luogo privilegiato di esercizio dell’insight fosse l’interpretazione del transfert (Strachey, 1934). Il rischio ovviamente è stato quello di cadere in una analisi di tipo intellettualistico. Oggi si privilegiano altre dimensioni, in particolare quelle esperenziali. Il terzo meccanismo additato per il cambiamento è l’espressione delle emozioni e dei desideri.

Un altro, molto citato nei due decenni precedenti, è la ricostruzione del significato sotto forma di narrazione storica. Il cambiamento avviene in concomitanza con la co-costruzione di narrative adeguate. Attraverso di esse il paziente ‘comprende’ come le strategie di coping elaborate nell’infanzia per assecondare particolari contesti sono ora diventati disfunzionali e disadattivi. Viene così sollecitato a sviluppare altri modelli di comportamento, più adatti alle mutate realtà e soprattutto alle proprie esigenze interiori.

Un quarto meccanismo proviene dalla tradizione cognitiva-comportamentale: l’aumento del senso di agency. Il paziente con la terapia comincia sempre più a percepire che la sua vita è nelle proprie mani. La capacità sincretica dell’autore costituisce per me uno degli aspetti più apprezzabili del libro. Amo Safran proprio per il coraggio di queste contaminazioni teoriche fra psicodinamica e cognitivismo!

Ma – qui la sensibilità psicodinamica interviene a correggere quella cognitiva – deve diventare meccanismo di cambiamento anche il riconoscimento dei limiti della propria agency. Winnicott ne parla come di ‘disillusione ottimale’. A me viene in mente il valore dato alla fase depressiva nelle formulazioni teorico/cliniche della Klein.

Un altro meccanismo di cambiamento, molto citato nella psicoanalisi relazionale, è quello che Alexander chiamava ‘esperienza emozionale correttiva’ (1948) e Lyons-Ruth ‘conoscenza relazionale implicita’ (1998). Comportandosi (anche nel non verbale) in modo diverso dai caregivers del paziente, il terapeuta offre al paziente una nuova esperienza relazionale che sfida i suoi schemi disfunzionali oppure, per dirla con un altro linguaggio, mette in crisi i suoi modelli operativi interni o le sue relazioni oggettuali interiorizzate. Insomma da questo punto di vista il compito del terapeuta è quello di disincastrarsi gradualmente dal copione relazionale messo in atto in modo automatico dal paziente. Il nodo centrale per l’analista è: all’inizio accettare di assumere un ruolo antico, per poi sforzarsi di uscirne, frantumandolo.

Bion (1970) è il grande teorico di un altro delicatissimo meccanismo di cambiamento, che egli chiama ‘contenimento’. Non il contenimento come holding, alla Winnicott, ma il contenimento come capacità del terapeuta di accogliere, elaborare e restituire le emozioni negative ‘gettate’ su di lui dal paziente. I famosi elementi beta e alfa.

In un ordine di cui non sempre è facile capire il criterio, Safran cita fra i meccanismi di cambiamento anche la regolazione affettiva reciproca fra paziente e terapeuta, alla maniera di quello che succede fra madre e bambino. Citando Tronick (2007), l’autore specifica che il senso di efficacia e di fiducia personale nel bambino si ottiene attraverso la sana gestione dei momenti di rottura e riparazione. Cioè? Secondo il paradigma della rottura e riparazione, una delle funzioni terapeutiche principali in analisi è legata alla capacità della diade di accettare e dare senso alle incomprensioni relazionali. Le empasse, come Safran le chiama.

Con un linguaggio leggermente diverso, ma descrivendo lo stesso costrutto di riparazione relazionale, la Boston Change Process Study Group (BCPSG) parla di ‘momenti di incontro’. Che cosa sono? Per Jessica Benjamin sono momenti ‘magici’ di connessione cognitiva-affettiva, in cui a due esseri umani sembra di percepire una stessa versione della realtà. E che cosa c’entra questo con il meccanismo di cambiamento? Secondo la BCPSG il momento di incontro si verifica quando sia il paziente che il terapeuta si affrancano dai loro schemi di riferimento per la creazione di un nuovo contesto intersoggettivo. Ad esempio la risposta del terapeuta ad una domanda personale del paziente. Come è giusto rispondere? Un new moment non offre molto tempo per riflettere e si verifica solo se il terapeuta accetta la sfida in modo spontaneo e autentico.

Anche nella mia esperienza personale al termine di alcune analisi i pazienti mi hanno riferito come momento topico del loro percorso alcune espressioni ‘di getto’ che avevo usato in circostanze di particolare delicatezza relazionale. Ma anche nel ricordo della mia personale analisi con Carotenuto, uno dei momenti in cui ho deciso di continuare è stato quando alla mia affermazione che non credevo del tutto al potere della psicologia, Aldo mi rispose: ‘Neanche io, mica sono scemo!’.

Molto citato è l’ultimo meccanismo di cambiamento di cui parla Safran la mentalizzazione. La mentalizzazione è un costrutto ambizioso di Fonagy, con il quale egli si propone di unificare gli scopi della psicologia dinamica e di quella cognitiva. E, a mio parere, ci riesce in parte. La mentalizzazione misura la capacità cognitiva e affettiva del soggetto su due fronti. Sul versante endopsichico: il contatto con i propri sentimenti e i propri desideri. Sul versante relazionale: la capacità di distinguerli e di confrontarli con quelli degli altri, modulandoli a secondo dei contesti. L’esercizio mentalizzante continuo del terapeuta sul paziente offre un modello imitativo per il paziente stesso. Utile in particolar modo ai pazienti più gravi. Termina così il capitolo relativo ai meccanismi di cambiamento operati dalle psicoterapie.

Gli ultimi due capitoli riguardano i processi di valutazione di efficacia sulla psicologia psicodinamica e i suoi possibili sviluppi futuri. Al di là di alcune giustapposizioni di concetti che appaiono non sempre conseguenziali, il libro di Safran ha un grande merito: insegna a prendere in mano i costrutti psicodinamici, a modellarli, a non considerarli ipostasi o tabù. Insegna ad usarli in modo moderno per non esserne succubi; a confrontarli e ad integrarli con i paradigmi delle altre discipline cliniche. Il libro di Safran è un inno alla libertà e alla serietà della psicologia dinamica. E’ un peana alla capacità di ciascun analista di costruirsi il proprio personale modello, nel rispetto degli essudati che la ricerca e la tradizione ci hanno consegnato e nella più profonda attenzione alle richieste dei pazienti con cui egli lavora.

Mi piace terminare l’analisi del testo con una frase dell’autore che condivido profondamente:

’Credo che la psicoanalisi del futuro dovrà abbandonare l’enfasi sulla purezza ‘ideologica’, con i suoi elementi di snobismo, e riconoscere che la psicoanalisi come terapia esiste in una serie di forme, durate e frequenza delle sedute diverse’ (p. 164).

Ma soprattutto concordo con l’affermazione di Safran quando indica la via di questo rinnovamento. L’incontro fra tradizione psicoanalitica e tradizione cognitivista.

‘Un modo in cui la psicoanalisi esisterà in futuro consisterà nella continua assimilazione dei concetti e delle modalità di intervento psicoanalitici in altre forme di intervento, in particolare nella terapia cognitiva’ (p. 163).

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Antonio Dorella