Il cibernauta appassionato di cinema e curioso di sapere che cosa la critica e gli spettatori pensino di un film, troverà in modo più o meno diffuso negli approdi sicuri della rete un’opinione abbastanza negativa dell’ultimo lavoro di Pupi Avati: Un ragazzo d’oro. Il film del regista bolognese può apparire modesto a molti, ma non si potrà non riconoscere la bravura, davvero elevata, di Riccardo Scamarcio, e la buona interpretazione di Cristiana Capotondi. Un discorso a parte merita la star Sharon Stone, che sembra recitare tristemente la controfigura di se stessa. La trama è apparentemente semplice: Davide Bias (Scamarcio) affetto da un disturbo ossessivo-compulsivo è costretto a controllare la sua malattia con una cura farmacologica che produce l’effetto collaterale negativo di bloccargli l’immaginazione creativa necessaria per la sua attività di scrittore. Dopo l’ennesimo rifiuto da parte di un’agenzia di pubblicare i suoi racconti Davide cade in una condizione di prostrazione, accentuata dalla difficile relazione con la fidanzata (Cristiana Capotondi) ancora coinvolta sentimentalmente con il suo vecchio compagno. Un evento irrompe, però, a scombussolare la vita di Davide: la morte del padre, avvenuta per suicidio, come si scoprirà nel racconto. Davide si trova, così, a rivedere la sua difficile e combattuta relazione con il padre, regista di scarso successo, al quale muove accuse pesanti e gravi, ma verso il quale nutre anche sentimenti di sincero amore collegati ad un ricordo d’infanzia: la vittoria in una gara di salto ad ostacoli ottenuta con il suo aiuto. Insieme al papà il bambino si sente imbattibile: «insieme siamo invincibili… possiamo farcela».
Nello sviluppo del filo narrativo il film intreccia diversi temi, spesso costituiti da luoghi più o meno comuni: il rapporto tra follia e creatività; il lento scivolare verso la perdita di se stesso; lo specchio come riflesso di una identità ricercata e immaginata; il rapporto profondo e inconscio tra padre e figlio. Quest’ultimo tema emerge con prepotenza, ma la sua interpretazione può essere affrontata da diverse angolature psicologiche. Una di queste è il processo di completa identificazione di Davide con la figura genitoriale e il successivo smarrimento del proprio nucleo d’identità. L’ambivalenza dei sentimenti verso il padre si trasforma gradualmente dall’iniziale rifiuto nella completa assunzione dell’immagine paterna: sostituzione di un io con un altro io, quello dominante e potente che ogni bambino sperimenta nella relazione con la figura paterna.
La scena psicoanalitica rappresentata dal film è quella della mancata risoluzione dell’Edipo e della negazione del proprio Sé per assumere quello paterno e compierne il mandato. C’è chi, come Marianne Krüll, ha visto nella relazione tra Sigmund Freud e il padre Jacob un’ambivalenza affettiva segnata anch’essa dal mandato paterno: il riscatto della dignità ebraica violentemente offesa quando Jacob raccontò a Sigmund bambino di essere stato umiliato da un antisemita che gli aveva fatto cadere il berretto nuovo di pelliccia e gli aveva intimato di scendere dal marciapiede. Nel caso del film di Avati, invece, siamo dinanzi al riscatto della dignità artistica della figura genitoriale che, a differenza del vissuto di Freud, conduce ad un’assenza di salvezza, alla lontananza dal mondo, alla confusione tra la fantasia e la realtà, allo smarrimento di se stesso nell’unione immaginaria del padre e del figlio: perdita di Sé in un’altra personalità che annulla ogni individuazione per appagare in forma allucinatoria il desiderio infantile di onnipotenza.
La storia di Davide rievoca passi di Io e l’inconscio di Carl Gustav Jung:
Bisogna perciò stare all’erta contro il pericolo di cadere in preda alla dominante [si tratta per Jung, di una dominante dell’inconscio collettivo, un archetipo, formatosi nella psiche umana da tempo immemorabile in virtù di un’adeguata esperienza] della personalità mana. Il pericolo non è solo di assumere la maschera di Padre, ma anche di cadere vittima di questa maschera se un altro la porta … Rendere coscienti i contenuti che costruiscono l’archetipo della personalità mana, significa per l’uomo liberarsi per la seconda volta e veramente dal padre, per la donna della madre, e sentire quindi per la prima volta la propria individualità.
Al di là del suo valore artistico il film di Avati ha il merito di suscitare interrogativi su questo versante dell’accadere psichico.