Pubblicato in Giornale Storico del Centro Studi Psicologia e Letteratura fondato da Aldo Carotenuto, Vol. 17 – Ottobre 2013 (Fioriti Editore)
Uno dei frammenti della mia esperienza di allievo di Aldo Carotenuto che mi ha lasciato ricordi tuttora vivi e pregnanti è la capacità che aveva, nel corso delle sue lezioni così come nelle conversazioni fuori dalle aule, di destabilizzare chi lo ascoltava attraverso alcune frasi ad effetto – dette volutamente e peraltro con un certo compiacimento – che ribaltavano le concezioni comuni, scardinando gli impliciti su cui il pensiero di ciascuno, senza saperlo, si poggia. Il risultato immediato, o almeno quello che io ricordo vivevo in quelle situazioni, era una sorta di disorientamento, che nell’immediato procurava onestamente anche non poca irritazione: il terreno franava sotto ai piedi, verità che sempre avevo appreso a considerare irriducibili, venivano criticate e poste al livello delle nostre menzogne più lunghe, per dirla con Nietzsche.
A ben vedere, questo fenomeno è quello che su larga scala ha accompagnato il personaggio Carotenuto, soprattutto a seguito di alcuni dei suoi scritti più controversi, basti ricordare su tutti “Amare-tradire. Quasi un’apologia del tradimento”. Questa caratteristica di Carotenuto, di proporre verità distanti dal sentire comune, di per sé è comunque abbastanza banale e più che rendergli merito potrebbe al contrario circoscrivergli un’aurea da santone, impregnato di narcisismo.
Se questi ricordi sono tuttora nello scenario della mia personalità è per il valore che essi hanno avuto alla prova del tempo, quando a distanza di anni sono riuscito a comprendere e rendere mio il significato intimo di molte delle cose che era solito dire e che io allora non capivo. Insomma, Carotenuto non era un santone per questa semplice ragione, dal sapore squisitamente junghiano: ciò che diceva era come un seme gettato su un terreno il più delle volte non pronto ad accoglierlo, ma che appena lo diventava, se lo diventava, attecchiva e fruttificava.
Il ricordo che anima questo scritto è il seguente. In una lezione Carotenuto disse una frase che suonava più o meno in questo modo: “La situazione per la quale si è di fronte a qualcuno implorandolo di non lasciarci, è una delle più belle della nostra esistenza, e ciascuno di voi deve augurarsi di poterla vivere”.
Contrariamente a quanto d’abitudine ciascuno era abituato a sperare per se stesso e per gli altri, Carotenuto ci stava augurando di soffrire, di soffrire per la perdita di un oggetto amato, di soffrire il suo abbandono. Ci augurava quella sofferenza che, come lui stesso sottolineava spesso, è la più acuta che ci è dato patire.
Credo sia facile comprendere perché suonasse bizzarro questo messaggio, cresciuti come siamo nell’idea dell’amore preconfezionato, dotato di istruzioni per l’uso, in cui l’augurio è quello di vivere in maniera imperitura un sentimento che si presuppone debba essere immutabile ed eterno. Carotenuto ci augurava, al contrario, di vivere l’esperienza della fine, della sofferenza e dell’umiliazione.
Come affermato poc’anzi, mi ci sono voluti anni prima di riuscire a inscrivere nella mia vita il senso di quella frase, preso com’ero a quel tempo alle prime battute della mia “educazione sentimentale”. Ma anno dopo anno, esperienza dopo esperienza, abbandono dopo abbandono – ora carnefice, ora vittima – penso di aver compreso e fatto mio ciò che quella frase voleva in se recare e a comprendere che essa custodiva un valore che andava molto più lontano della situazione amorosa.
Gli abbandoni donano. Donano più di quanto il nostro carattere, volto all’omeostasi e alla ritenzione, ci consenta di concepire. Donano più di quanto la nostra cultura, tesa a educare l’individuo alla costruzione di certezze solide, ci permetta di considerare lecito. Perché, come sovente accade, la psiche si ripiega verso l’indagine di se stessa a partire dalla sofferenza, e nessuna sofferenza rende l’individuo così a contatto con se stesso come quella della perdita.
Ma il senso del discorso che stiamo muovendo non vuole far coincidere perdita e abbandono, nonostante i due siano ovviamente legati. Presto o tardi ciascuno di noi arriva a rendersi conto del moto di cambiamento costante che è connaturato alla vita e a comprendere che la spinta a ristabilire un ordine a noi sempre noto – quella che Freud chiamava “coazione a ripetere” – è condannata ad arenarsi.
E’ la desolante consapevolezza della natura transeunte dell’esistenza. A questo tipo di consapevolezza sappiamo che non è dato appellarsi. Tale è il versante della perdita, al quale l’individuo può rimettersi con inerme arrendevolezza.
Vi è però un altro versante, il versante per il quale assunta su di se questa caratteristica dell’esistenza, si sceglie di imprimergli il proprio segno, accettando che i cambiamenti siano i propri cambiamenti, che le perdite siano le proprie perdite. Se le perdite sono le proprie, non saranno afinalistiche, ma riconosceranno un senso inscritto nella storia dell’individuo. Ne consegue che la natura del tutto personale della perdita, non potrà che riconoscere un tornaconto, ancora una volta del tutto personale: un dono, il dono dell’abbandono.
Scoprire in una perdita la propria perdita, riguarda sia chi sceglie di abbandonare sia chi è abbandonato da qualcuno o da qualcosa: a entrambi spetta immergersi in una dimensione di autoconoscenza, al di là della quale si sarà inevitabilmente cambiati in nome di un’acquisizione, qualunque sia stato il prezzo da pagare.
Il viaggio simbolizza bene il percorso dell’individuo di fronte all’abbandono e non a caso una delle prime conversazioni della società psicoanalitica di Vienna fu dedicata al tema del viaggio. La dimensione del viaggio è estremamente correlata all’esperienza della conoscenza di se. Ma ancor di più: il viaggio è collegato anche all’esperienza della perdita dei propri confini, del perimetro delle proprie certezze. Il viaggio è metonimia dell’abbandono. Qualunque vero viaggio comporta un momento nel quale l’individuo sceglie di perdersi, scommettendo sulle acquisizioni che troverà. E il vero viaggio, il viaggio al cui ritorno non si sarà più gli stessi, all’inizio non può che comportare anche una quota di timore e sgomento.
Timore, sgomento, sofferenza: la via attraverso la quale il cambiamento può diventare metamorfosi. Questa metamorfosi è esattamente l’archetipo del dono dell’abbandono: niente può più essere come prima. E’ come se la sofferenza fosse un enzima, un catalizzatore, che rende possibile un processo che altrimenti vedrebbe solo un gattopardiano esito, quello che tutto cambia senza che nulla in realtà sia cambiato.
Ciò che Carotenuto intendeva dire in quella mattina universitaria è secondo me condensato in questa riga estratta da uno dei suoi scritti:
“Quando si ha il coraggio di capire che abbiamo già perso tutto, si diventa l’interlocutore di se stessi” (Carotenuto, 1987, p. 91)
La perdita totale a cui Carotenuto fa riferimento è l’illusione di ricomposizione di un originario oggetto d’amore, il percorrere all’indietro il trauma della nascita di cui ha parlato Otto Rank. C’è un momento primigenio – quello che Paul-Claude Racamier chiamava “lutto originario” – in cui l’individuo si accorge per la prima volta che l’illusione di unione imperitura col primo oggetto d’amore non è che, per l’appunto, un illusione. Il percorso di crescita e differenziazione dell’individuo inizia da questo primo momento di perdita e dalla fiducia nei doni che questo abbandono ha comportato. E’ per questo che Racamier ha parlato del lutto originario come del prototipo di tutte le perdite a venire, circoscrivendo per altro le patologie della psiche alle disavventure di questo fondamentale momento dell’esistenza psichica.
Perché se guardata da vicino, la stessa patologia descrive le dinamiche dell’abbandono: dalle nevrosi di chi ha troppo – o troppo poco – bisogno di cambiamenti, alle psicosi dove ogni cambiamento è una minaccia per l’equilibrio dell’apparato psichico.
Su questo crinale pressoché tutto il discorso psicoanalitico si è sviluppato. Da diverso tempo, ho appreso a pensare che il pensiero psicoanalitico, a ben vedere, sia stato alla base uno studio del lutto, del cambiamento, e quindi anche dell’abbandono. Se guardiamo alle più variegate indagini che abbiamo ricevuto sullo sviluppo infantile, non scorgiamo in esse l’esplicazione dello lo sforzo che l’individuo compie sin dall’inizio della propria esistenza per comprendere che il mondo non gli è dato, ma và costantemente scoperto, creato e che ogni scoperta sia la contropartita di una perdita?
Quando nel corso della vita si incontra l’abbandono si rinnova quella perdita originaria, dalla quale nessuno è uscito senza qualche ammaccatura. Se il nostro primo abbandono ci ha dato la possibilità di sperimentare che questo dolore è la promessa di qualcosa di nuovo, l’imprinting che esso ha lasciato permetterà all’individuo un cammino volto ad una fiduciosa scoperta. Ma quando questo non avviene è sovente lì che sopraggiunge la crisi, che a volte arena l’individuo in un vortice di sofferenza dal quale sente che non vi sia risalita. E’ in quel momento che, molte volte, arriva la chiamata allo psicoterapeuta.
I pazienti che chiedono una terapia, spesso la chiedono spinti da una sofferenza che fa capo all’incapacità di operare autonomamente un cambiamento che comprendono come necessario, ma al quale al tempo stesso sentono di doversi opporre. Cosa può offrirgli il terapeuta? Più di ogni altra cosa penso che l’analisi progredisca su questa fiducia del terapeuta nel dono dell’abbandono, nel sapere che se il paziente perde lo fa a vantaggio di un’acquisizione. Questa fiducia sarà emanazione del percorso esistenziale che lo stesso terapeuta ha effettuato, ed è proprio per questo che Carotenuto ci teneva a sottolineare, sulla scorta di Jung, come il germe della funzione terapeutica si ritrovi nel sedimento personale che ogni terapeuta porta dentro di sé.
Ciò che offriamo a un paziente, in un dialogo ovviamente sotterraneo, è che noi sappiamo quale sforzo sia necessario nel perdere, e lo sappiamo perché ne siamo stati attraversati, ma che crediamo fermamente in ciò che si potrà ricevere in dono. Senza questa comunicazione sotterranea, l’analisi può essere costretta a girare a vuoto su se stessa anche per molto tempo.
Se il paziente riuscirà operare nel senso che precedentemente abbiamo espresso e che separa la passività della perdita dalla responsabilità dell’abbandono, potrà trarre su di se il dolore del cambiamento che non riesce ad operare: qualunque sofferenza, quando è reificata, quando diventa cosa propria, d’improvviso diviene malleabile. E se diviene proprio patrimonio, perde la veste divina che fa vivere la pena quale nume al quale non è possibile opporsi.
L’abbandono quindi come momento fondamentale dell’esistenza, come momento di responsabilità verso il proprio percorso, come prezzo da pagare in nome di un’acquisizione. Vorrei mantenermi fedele all’immagine del viaggio per concludere, perché nell’abbandono ritrovo esattamente il vissuto della distanza dal corteo delle certezze acquisite, care all’individuo, la paura del nuovo e l’inevitabile conclusione che, nel bene o nel male, l’esistenza da quel momento ha assunto un altro corso.
L’abbandono è quindi una sottrazione, una frustrazione che, per tramite di una perdita, promette una conquista. In essa vi si scorge il compito che è dato al’individuo è che la psicoanalisi ha messo a fuoco: che l’essenza della vita è cambiamento e che a ciascuno spetta di attrarre su di se tale consapevolezza, utilizzandola per la propria crescita.
Nella stesso termine abbandono, ci si svela un gioco sintattico che farebbe sorridere Lacan: il discorso che abbiamo fatto era già inscritto nella parola che lo conteneva. Abban-doni.