Pubblicato in Giornale Storico del Centro Studi Psicologia e Letteratura fondato da Aldo Carotenuto, Vol. 18 – Aprile 2014 (Alpes Italia Editore)
Amore e rabbia è un’opera cinematografica sperimentale del finire degli anni 60, un lavoro surreale e visionario che descriveva le tragedie dell’uomo moderno. Il titolo si può credere volesse evocare lo spirito dell’opera: la rabbia nichilista che ne animava la denuncia, e l’amore, quale altra faccia di una medaglia che mostrava l’attaccamento alla vita e l’utopia di una società più autentica.
Dal primo spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella cui ho assistito – visto all’interno dell’insolita cornice di un campo nomadi – sentii vibrare sul palco e dentro di me, un turbinio di sensazioni, una comicità del tutto originale animata da un senso di rancorosa tristezza. La risata come mezzo per sublimare sentimenti impetuosi e dissacrare il sublime, donando allo spettatore la fruizione di emozioni condensate nel fondo dell’esperienza quotidiana: l’irrequietezza, l’ansia, l’ipocrisia, la vergogna. Una risata fatta a denti digrignati, con lo stomaco in subbuglio. Impossibile, tuttavia, restare solo a questo. Ogni spettacolo lascia una sensazione di stupore indefinito, una sensazione insatura, che spinge a inseguire i nostri personaggi, a rivederne le performance, ad approfondire questo fenomeno così insolito.
Nel tempo, mi accorsi quindi che quella sensazione rancorosa era fin troppo impressionistica, tanto da essere bilanciata da un altro sentimento che mitigava il senso di rancore con una forma di tenerezza. La tenerezza di un duo che si donava agli scenari più insoliti – i teatri, le piazze di paese, i campi rom – e che non si sottraeva a un contatto vivo e viscerale col pubblico. Una forza distruttiva, apparentemente distanziante, di un personaggio quale Antonio Rezza, coniugata alla sua stessa sorprendete genuinità nel sapersi donare a chi gli stava di fronte; il tutto sotto gli occhi profondi di Flavia Mastrella, la creatrice degli habitat che nelle performance teatrali Antonio abita, interpreta e violenta.
Questo connubio di un’ironia fondata sulla rabbia e al contempo sulla tenerezza è la molla che mi ha spinto verso un’indagine sempre più profonda ed emozionata della loro arte, in tutte le varie forme – non solo teatrali – nelle quali si dispiega. Scrivere su questo duo unico è impresa oltremodo ardua, così come pressoché impossibile è descrivere i loro spettacoli se non suggerendo di farne esperienza; per questo ho scelto di rifarmi prima di tutto ad una base emotiva, ai sentimenti che ho sviluppato negli anni seguendo Antonio e Flavia e che messi insieme mi hanno fatto pensare a un’ironia che cuce insieme rabbia e amore.
Chi lavora con la psiche è abituato a confrontarsi con coppie di opposti e sa bene che gran parte delle fatiche del lavoro consiste nella possibilità di far entrare in contatto sentimenti contrastanti, troppe volte costretti a polarizzarsi e a tormentare l’individuo. Quando Rezza parla di se stesso, esprime sempre qualcosa del genere, spiegando come la sua arte sia un lavoro costante di messa insieme: rendere naturale e gestibile, un turbinio di emozioni impetuoso e anarchico. L’impatto sul pubblico è forte proprio perché lo chiama da dentro, ne denuda l’interiorità, crea entusiasmi estremi in taluni e angosce forti in altri, a seconda del grado in cui le persone sono pronte a confrontarsi con questa non facile dimensione. Tale visuale può forse dipanare una delle maggiori diatribe con cui il nostro duo artistico si è trovato più volte a confrontarsi, con un fastidio mai celato: essere “fruibili” da tutti o al contrario di essere destinati solo a pochi.
Rezza ha sempre sottolineato con forza l’avversione a una visione delle sue performance come aperte solo ad “alcuni”: “se noi non siamo per tutti, dimostra almeno che siamo per te, dimostramelo!” ha più volte sostenuto. Ma forse, per la via dell’accessibilità di ciascuno a confrontarsi con una tempesta emotiva travolgente che prende da dentro, attingendo dal profondo, è possibile esprimere un pensiero che non suoni come una arbitraria posizione intellettuale. La psicoanalisi sa bene che l’impresa di esplorare le proprie profondità è un compito auspicabile per ciascuno, ma sa anche che questo lavoro non è sempre accessibile e che forse alcuni non lo faranno mai, perché se per molti non attingere ad una dimensione interiore è morire, per molti altri è vivere.
Più volte mi è capitato di ascoltare che la visione dei tanti cortometraggi girati da Rezza e Mastrella, fosse per qualcuno insostenibile perché troppo ansiogena. Non è complicato entrare in risonanza con tale vissuto, basti pensare a come i corti sono fatti: primariamente l’impatto visivo, dove predomina quasi sempre un’immagine in bianco e nero. L’esclusione del colore restringe la gamma emozionale, obbligando lo spettatore ad alcune emozioni fondamentali, che rinviano a qualcosa di antico: appaiono non a caso personaggi archetipici, trasmutazioni di mamme, vecchi parenti, gente del villaggio, che ci richiamano a scene stratificate nella nostra storia personale e nella nostra cultura sociale. Nei contenuti, in una chiave grottesca e caricaturale, prendono forma le situazioni più comuni, che sapientemente spogliate della loro cornice ordinaria, lasciano trasparire le ipocrisie, le contraddizioni e le violenze che vi sono alla base.
Lo spettatore è violentato: accade nei corti, accade a teatro, accade nell’interviste che da anni Antonio raccoglie per strada. E’ questo un altro dei tratti distintivi della produzione artistica di Rezza e Mastrella, è come se avendo compreso che la realtà ci violenta, restituiscano allo spettatore la stessa esperienza, sfacciatamente, senza filtri e censure. Ecco che alcuni si imbarazzano, altri masochisticamente godono, altri fuggono spaventati. Se nella psicoterapia quest’opera di svelamento è svolta dal terapeuta che cum grano salis, attraversa la consapevolezza del paziente, dosandone la quota assimilabile, nell’arte del duo rezzamastrella non c’è misura, il Re è nudo, così come del resto è talvolta Rezza sul palco. Antonio oltrepassa quella barriera immaginaria tra pubblico e attore, credo non la concepisca neanche: non si tratta di una messa in scena teatrale, è lo spettacolo della realtà, tradotta attraverso drappi intersecati artisticamente e abitati da uno straordinario performer.
In questo mi si perdonerà se ritrovo ancora un analogo della situazione terapeutica: anche nella cornice analitica vi è uno scenario artificiale, fatto di un divano, delle poltrone, un tavolo, nel quale si porta in scena l’esistenza. Il paziente vi entra come uno spettatore e finisce nel corso del tempo a viverlo, ad abitarlo. L’analista inizia con l’essere uno psicologo, finisce con l’essere un oggetto d’amore e d’odio. A fine spettacolo, Antonio per il pubblico non è più un attore o un performer, è qualcuno con cui si è entrati in contatto, è qualcuno che ha offerto non uno spettacolo, ma un’esperienza. All’analista spetta la stessa sorte quando sull’analisi cala il sipario, un sipario inesistente, come d’altronde non esiste negli spettacoli di Rezza. Si spengono le luci sul palco e si accendono quelle in sala: la gente se ne và, ciò che ha visto probabilmente non è quello che si aspettava. Restano dei pensieri, molte sensazioni.
La strada su cui si fa ritorno non è la stessa da cui si è venuti. È anche questo quello che succede in analisi, lo spettacolo finisce, calano le luci sul setting e si accendono nella vita, illuminando il restante percorso che lo spettatore/paziente ha davanti a se. Risuona oltremodo riduttivo questo paragone con l’analisi e non si può non concordare che lo sia. Sappiamo già da Freud che l’arte arriva prima della psicoanalisi mentre a noi è concesso solo di ragionare su quello che ci dona. Gli artisti da sempre – e al di là – hanno tradotto quello che la psicoanalisi ha organizzato in una nuova veste.
“Il tempo passa e cicatrizza ogni ferita posando un velo malinconico sui ricordi che si accalcano in umana memoria, il tempo rende bello ogni gesto furtivo ed ogni parola passata, tutto si rischiara e si macchia di nostalgico e su ogni pensiero trascorso si posa una lacrima che lo bagna fino a sbiadirlo. La mente rielabora ma non fa tesoro degli errori commessi e chi è uno spirito libero farà gli stessi errori ogni volta”
(Rezza A., Non cogito ergo digito (1998), Bompiani, Milano 2001, pp. 79-80)
In questo frammento di uno dei libri scritti da Rezza, interamente realizzato sotto la forma di flusso di coscienza, troviamo una rivisitazione romantica di quel fenomeno tragico che Freud ha individuato come “coazione a ripetere”. Non è un caso isolato: attraversando tutta l’opera di Rezza e Mastrella si ritrovano i grandi temi della ricerca psicologica, i vissuti sintomatici, le esperienze infantili, la tragicità del rapporto col materno, la repressione, i complessi. L’opera non si ferma alle performance teatrali, vi è una miriade di filmati, di interviste, di scritti. Basta saper cercare, cercare il Rezza più insolito che è quello che per esempio troviamo nelle sue opere letterarie, che non a caso sono quelle che dichiara di preferire meno, specie quando la scrittura è una trasmigrazione dell’inconscio.
“Siamo quel che meritiamo, non siamo quel che siamo. Fossimo ciò che siamo saremmo felici. Ma non siamo felici. Forse neanche siamo. Siamo a sprazzi. A pezzi siamo. Incastrati tra la vita e nient’altro”
(Rezza A., Credo in un solo oblio (2007), Bompiani, p. 11)
“Ho paura di dovermi rassegnare alla scissione. Entrando e uscendo dalla carta d’identità posso vivere due vite. Nessuna come vorrei. Ma almeno due”
(Ivi, p. 44)
Quando il contatto è con la scrittura Rezza lascia fluire una forma diversa di ironia, più intimista, meno dissacrante, che forse lo mette più a contatto con se stesso. Alcuni frammenti poi, sembrano davvero ricalcare le riflessioni di un percorso terapeutico:
“E mi abbandono all’ombra, mi lascio trascinare dalla sua leggerezza e cambio gioco: da ora in avanti sarà lei a sbattersi per me, io resterò dietro a generarla, a muovermi come è necessario per darle il portamento”
(Ivi, p. 77)
C’è poi ancora il momento in cui Antonio incontra la gente, forse quello in cui emerge maggiormente l’aspetto che abbiamo chiamato di rabbia e d’amore. Pasolini, negli anni 60, girò un film documentario nel quale attraversava l’Italia intervistando la gente, con lo scopo di svelare i tabù e le ipocrisie della nostra cultura. Era una messa a nudo molto forte, a cui però volle dare questo titolo: “Comizi d’amore”.
Rezza da anni fa qualcosa di analogo: gira per le città, attraverso le piazze, le università, i cimiteri, realizzando improbabili interviste nelle quali, attraverso associazioni libere e questioni nonsense, canzona le convinzioni della gente, alla ricerca del nulla. Ma l’arte di umiliare l’interlocutore lascia vibrare al contempo una sconfinata fame di contatto e di desiderio d’incontro. Un incontro dove l’altro è preso a morsi, in cui si gioca a farlo morire ma gli si da anche la possibilità di risuscitare:
“Ti squamo perché mi hai inferocito, ti squamo nell’intimo e con tutto il cuore, ti squamo più di ogni altra cosa, più della vita mia, ti squamo come mai ho squamato. Sei la prima donna che io squamo. Vedo le tue urla di dolore restare fuori dal mio udito: ma forse tu non gridi, muovi solo bocca ed io mi sono ormai assordato per non sentire il tuo silenzio. E ti lascio a morire. Ma l’amore che ti ho dato lo lascio a vivere”
(Rezza A., Ti squamo. Storia di un amore screpolato (1999), Bompiani, Milano).
Gli psicoanalisti possono trovare echi di fantasmi infantili, seni che nutrono e tiranneggiano, atti distruttivi maniacali e riparazioni depressive. Non c’è bisogno di trasporre la letteratura di Rezza alle griglie psicoanalitiche: sono gli stessi simboli a comparire negli scritti, senza che Antonio abbia conosciuto a fondo la psicoanalisi. È ancora una volta il valore assoluto dell’arte che permette di trasmigrare contenuti patrimonio di tutti in un linguaggio differente. Rezza medesimo ha ammesso che l’arte gli ha permesso la possibilità di essere vivo, di galeggiare in questa realtà, una realtà che diversamente sarebbe stata fin troppo difficile da tollerare.
Nel tempo, tra le più varie dissacrazioni, le umiliazioni agli spettatori, gli scritti più folli, mi è arrivato il senso di un amore per l’umanità autentico, perché profondamente dissacrato. Non deve essere accaduto soltanto a me, non mi spiegherei diversamente le file di persone che vogliono condividere con Antonio dei momenti fuori degli spettacoli, malgrado sappiano che comunque gli spetterà una parola caustica, quasi a ricercare una dedica d’odio personalizzata. L’ironia quale forma d’arte che svela i sedimenti dell’esistenza. Di fronte a espressioni del genere, come innamorati della psiche, non possiamo che sentirci affascinati. Forse quello che l’esperienza artistica di Antonio Rezza e Flavia Mastrella dimostra è che le forme d’odio e d’amore sono fatte della stessa carne. Così si comprende il piacere con cui gli spettatori si lasciano seviziare, più e più volte, come se sapessero che in quel momento non smettono di essere amati. Del resto:
“Anche l’amore più profondo perde d’incanto se è vero amore. E resta l’amore che è”
(Rezza A., Son[n]o (2005), Bompiani, Milano, 2013)
Alessandro Uselli, psicologo clinico e psicoterapeuta, partecipa dal 2007 alle attività del Centro studi di Psicologia e Letteratura. Ha più volte approfondito tematiche inerenti i connubi tra psicoanalisi e creazione artistica, accanto a un’attività clinica e di ricerca svolta nel campo psichiatrico istituzionale con adulti e adolescenti. Lavora privatamente a Roma.
alessandro.uselli@gmail.com