Teoria e pratica della consulenza filosofica

Peter Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, 2001 (a cura di Alessandro Uselli)

L’incipit epicureo di questo libro di Peter Raabe, giunto ai lettori nel 2001, venti anni dopo l’inizio del movimento ad opera di Gerd Achenbach, esprime il senso della consulenza filosofica: “Vuoto è l’argomento filosofico che non allevia sofferenza umana” La consulenza filosofica è difatti una via guidata verso il superamento di particolari disagi esistenziali, emotivi, che possono affliggere l’essere umano nel corso della sua esistenza. Verrebbe spontaneo allora pensare che essa rechi in sé una proposta di cura, di trattamento, di possibile guarigione, che di fatto ne farebbe una delle possibili vie percorribili nell’esteso mondo delle terapie dell’anima.

In realtà la consulenza filosofica prende le distanze da ogni accezione terapeutica proponendosi come, con le parole della Schuster, non una terapia alternativa ma un’alternativa alla terapia.Il libro di Raabe nasce anche nel tentativo di comprendere meglio la concezione di tale affrancamento, che secondo l’autore, fino alla pubblicazione di questo manuale era particolarmente farraginosa. Ciò che egli propone è una sistematizzazione “tecnica” della consulenza filosofica, passando in rassegna le idee partorite nel ventennio dalla fondazione, evidenziandone punti di forza e di debolezza, fino a proporre un proprio modello di consulenza.

Si può dire che Raabe organizzi il manuale seguendo quelli che da alcuni vengono definiti i due stadi fondamentali della consulenza filosofica: la fenomenologia e l’ermeneutica. Tale deduzione nasce osservando il metodo che l’autore segue nel portare il lettore a conoscenza del suo modello di consulenza, evolvendo da uno stadio di analisi del fenomeno, a una interpretazione dello stesso, dal quale far scaturire la proposizione del nuovo modello. L’opera è infatti divisibile in 2 parti fondamentali e in una terza parte metodica esplicativa.

La prima parte, Filosofia della consulenza filosofica, passa in rassegna le concezioni sulla consulenza filosofica, riassumendone dapprima la storia, per poi decostruirne le metodologie in uso e operare una differenziazione, o meglio, una spiegazione dialettica del rapporto tra consulenza filosofica e psicoterapia.

Partendo da Achenbach – senza dimenticare che per prima la ASPCP (American Society for Philosophy, Counseling and Psychotherapy) afferma che l’assistenza filosofica ad altri risale almeno fino a Socrate – Raabe nota che una caratteristica della consulenza filosofica è stata quella di darsi identità attraverso l’antinomia, definendo cosa essa non è, prendendo le distanze in particolar modo dalla psicoterapia e dalla filosofia accademica. Una semplice affermazione per differenze non può tuttavia conferire il giusto valore a una disciplina che si pone alla ricerca di una propria peculiare dignità. L’autore procede quindi a esplicare i possibili tentativi di definizione sostantiva. La consulenza filosofica diventa allora, in termini positivi, “la cura filosofica del sé”, una pratica centrata sul cliente ove condurre un’ermeneutica completa del testo che questi porta, al fine di produrre cambiamenti “proattivi” e “preventivi”.

Risulta chiaro per Raabe come, dall’analisi della letteratura sul tema, emerga che il consulente filosofico opera lontano da realtà vicine alla psicoterapia, abolendo la propria autorità a vantaggio di un dialogo dove il fuoco è posto sul cliente e non sulla malattia, perseguendo il fine di una nuova e più ampia Weltanschauung. Tale processo si muove attraverso i due stadi fondamentali citati prima, ovvero la fenomenologia e l’ermeneutica. La fenomenologia coglie il manifestarsi dell’evento per come esso si presenta. Equivale quindi al prestare attenzione alla vicenda del cliente descrivendone tutte le caratteristiche, al fine di palesarne la visione al consulente e anche al cliente stesso.

Il passo successivo consiste nell’ermeneutica, ovvero nel tentativo empatico di interpretare e comprendere il “testo” del cliente come questi lo ha vissuto e lo vive. È, in poche parole, il momento in cui il consulente aiuta il cliente a capire ed elaborare le proprie preoccupazioni.

Raabe rileva tuttavia come uno dei punti deboli della consulenza filosofica sia il presupposto di molti autori che il loro punto di vista concettuale esprima adeguatamente l’intero processo della consulenza. Per sottolineare tale distorsione l’autore si serve dell’antica parabola jainista nella quale a sette ciechi veniva chiesto di descrivere un elefante ed ognuno di essi dava una definizione differente a seconda di quale della parti dell’animale si era ritrovato a toccare. Questo tipo di fallacia non fa altro che ostacolare il percorso di affermazione della disciplina consulenza filosofica.

Achenbach ha provato a distinguere la consulenza dalla psicoterapia ponendo come discriminante “l’interazione” quale opposto dell’assegnazione terapeutica dei ruoli (pazienti e terapeuti). Di fatto però questa chiave di lettura, come Raabe stesso rivelerà, si dimostra assolutamente lacunosa: la psicoterapia si è evoluta, contrariamente all’assunto di Achenbach, attribuendo una sempre maggiore importanza al concetto di rapporto tra terapeuta e paziente, senza dimenticare l’esistenza di psicoterapie differenti rispetto alla psicoanalisi classica che si propongono espressamente come approcci basati sul cliente.

Finché il termine di differenziazione è la psicoanalisi freudiana, la consulenza filosofica riesce a rivendicare un proprio status di estraneità: mentre l’approccio psicoanalitico sottrarrebbe i problemi al loro contesto, la consulenza filosofica si servirebbe di un approccio ecologico che prende in considerazione anche i sistemi di riferimento del cliente; l’inconscio non viene a essere concepito come un luogo psichico contenente le pulsioni più intollerabili, pulsioni alla cui mercé si trova l’individuo, ma come l’area delle credenze che questi non ha ancora riconosciuto di possedere. Inoltre il tipo di relazione analista-paziente tipico della seduta analitica perde la propria asimmetria nell’interazione consulente-consultante, interazione nella quale il cliente è considerato un individuo alla pari del consulente e ogni sua affermazione, anche di dissenso, non viene posta in relazione con una possibile ostilità o resistenza inconscia, ma come libera esplicazione del suo pensiero.

Il discorso però diviene molto più delicato e difficile da dipanare nel momento in cui si procede a differenziare la consulenza filosofica da altri tipi di psicoterapia che non siano la psicoanalisi classica. Si evince ad esempio una stretta affinità con la terapia cognitivo comportamentale: in entrambe le discipline si teorizza che il paziente-consultante debba essere aiutato a ridefinire i propri stili di pensiero, le proprie credenze e concezioni; inoltre il concetto di “inconscio cognitivo”, come insieme di pensieri veloci e automatizzati al punto da non essere percepibili alla coscienza, pare essere stretto parente delle concezioni sull’inconscio dei consulenti filosofici citate prima. Se andiamo inoltre a esaminare il concetto di “dignità dell’ospite”, non si può non far riferimento a costrutti analoghi presenti nella terapia di matrice rogersiana o nella logoterapia di Victor Frankl.

A questo punto l’autore prende atto che, messa da parte la psicoanalisi freudiana, il problema della differenziazione tra psicoterapia e consulenza filosofica diviene quasi proibitivo. Vengono citati altri esempi, tratti dalla letteratura, di possibili canoni con cui differenziare le due discipline: si parla della dipendenza del cliente che la psicoterapia contrariamente alla consulenza incoraggerebbe, del tentativo di cambiare il paziente che per Achenbach non deve costituire un obiettivo della consulenza, della rinuncia alla pretesa normatività umana da parte dei consulenti, fino alla meta-discussione permessa nella consulenza rispetto alla terapia secondo la Schuster.

Raabe riporta ognuno di questi contributi, ma nel farlo esprime puntualmente i propri dubbi, le incertezze derivanti da due discipline solo apparentemente distinguibili in questa maniera. Per trovare un vero parametro di differenziazione occorre allora arrivare al nuovo modello introdotto dall’autore.

La seconda parte del libro è chiamata Un nuovo modello. In essa Raabe giunge al cuore della propria teoria, e passa dalla rassegna delle teorie dei suoi predecessori all’esposizione delle proprie concettualizzazioni rispetto alla pratica. Se in precedenza Raabe si era poco esposto, questa è la parte dell’opera in cui si mette in primo piano mettendo a nudo le proprie idee.

La dissonanza con Achenbach, facilmente deducibile nelle pagine precedenti, diviene ampiamente oggettivata; per Raabe, la concezione della consulenza del filosofo tedesco è sia postmoderna sia antirealista: non ammettendo alcun criterio con il quale valutare la legittimità dei modelli della pratica (metodo “aldilà del metodo”), Achenbach avrebbe di fatto proposto una posizione “tutto va bene”, che non permette neanche alcuna valutazione del progresso del processo di consulenza; il disconoscimento di ogni scopo nella consulenza filosofica non gli consentirebbe di andare incontro ai bisogni del cliente in quanto questi, nel presentarsi al consulente, ha un suo scopo preciso, lo stesso che lo ha mosso a richiedere la consulenza; in ultimo Raabe sottolinea come il cliente si rechi dal consulente proprio perché vuole cambiare, mentre Achenbach ammonisce dal voler cambiare il consultante.

Per tutte queste ragioni l’autore giunge alla definizione del suo modello generale di consulenza filosofica consistente di quattro stadi chiaramente identificabili:

– Libera fluttuazione

– Risoluzione del problema immediato

– Insegnamento come atto intenzionale

– Trascendenza

Tale modello di consulenza la differenzierebbe dalla psicoterapia, soprattutto per quel che concerne lo stadio 3, l’insegnamento come atto intenzionale, che diviene la parte fondante del suo approccio: il consulente insegna intenzionalmente al cliente. Laddove lo psicoterapeuta non cerca di far diventare il paziente uno psicoterapeuta, il consulente filosofico mira a far diventare il proprio cliente un filosofo.

I 4 stadi non si susseguono secondo una logica lineare, al contrario possono svolgersi in maniera non consequenziale: il cliente può presentarsi già allo stadio due, così come può arrivare al terzo o quarto stadio sentendo poi l’esigenza di ripercorrere il secondo.

Il primo stadio, libera fluttuazione, è lo stadio di familiarizzazione tra cliente e consulente, stadio in cui il cliente viene lasciato libero di parlare liberamente, fluttuando tra i propri pensieri. È uno stadio non direttivo in cui il consulente pone poche domande e non persegue alcun obiettivo e, di conseguenza, offre poche osservazioni, se non, ove necessario, delle mirate rassicurazioni.

A volte il monologo prodotto dal cliente sotto l’occhio vigile e rassicurante del consulente filosofico può portare a una catarsi che di fatto conclude l’esperienza di consulenza. Ma la maggior parte delle volte il cliente sente a questo punto la necessità di focalizzarsi su un tema che lo angoscia particolarmente.

Si entra così nel secondo stadio, risoluzione del problema immediato, nel quale il consulente è chiamato a sciogliere il nodo dei problemi del cliente. Lo stadio 2 mette a fuoco problemi che di solito causano un intenso stato di confusione e di angoscia, e per questo il cliente chiede un intervento che proceda in fretta. In questo stadio il consulente verrà investito d’autorità da parte del suo ospite, autorità che equivale alla maggior padronanza da parte del consulente nel far fronte al disagio che il cliente gli comunica, in quanto possessore del come.

È in questo stadio che la comprensione da parte del consulente dovrebbe modificarsi da ermeneutica ed empatica, tipica del primo stadio, a critica, aiutando il cliente a dare ordine agli elementi del suo ragionamento. La logica di questo scambio deve essere cumulativa, nel senso che le conclusioni raggiunte dovrebbero provenire da premesse e ragioni ben stabilite che si sono incrementate e accresciute nel corso dello stadio. Affrontato il problema più angoscioso, il cliente dovrebbe sentirsi pronto ad affrontare un’esplorazione più profonda del suo pensiero e della sua vita. Ma per fare questo avrà bisogno di sviluppare le proprie capacità di pensiero filosofico.

Lo stadio 3, l’insegnamento come atto intenzionale, è lo stadio nel quale il consulente procede nel fare del proprio cliente un filosofo. È lo stadio che maggiormente caratterizza il modello di Raabe e che chiaramente lo distingue dalla psicoterapia. L’autore elenca tre criteri di insegnamento nella consulenza filosofica: l’intenzionalità (il consulente avvicina il cliente con una chiara intenzione di insegnare e il cliente deve avere l’intenzione di apprendere); esposizione della materia (il consulente deve fare qualcosa di attivo con le abilità filosofiche impiegate); il cliente deve essere pronto ad andare oltre la discussione del proprio problema.

È a questo punto che il consulente passa dalla cordiale correzione delle fallacie di ragionamento del cliente, alla loro sottolineatura, a suggerire modi di affrontarle e evitarle in futuro. Raggiunte tale competenze, il cliente potrebbe sentire il bisogno di andare oltre e di arrivare a un grado di conoscenza più elevato, ovvero allo stadio 4, la trascendenza. Adesso la coppia di consulenza va oltre i particolari concreti della vita quotidiana e si avvicina a domande più astratte e universali, chiamate anche domande di secondo ordine.Si tratta di vedere il mondo non da una posizione disimpegnata ma da una cosciente consapevolezza del proprio ambiente: tale stato è chiamato edificazione.

Nel trascendere, il cliente osserva la sua vita nel generale contesto sociale, storico e universale. Per dirla con Hadot è una liberazione dell’Io dall’alienazione. È come vedere il mondo per la prima volta e guardare al di là dell’orizzonte delle cose sensibili giungendo a una più acuta comprensione di se stessi. È questo lo stadio di domande come chi sono? per quale ragione? Adesso può aprirsi uno iato tra il modo in cui il cliente ha sempre vissuto e i molti possibili modi di vivere che potrebbero procurargli autorealizzazione. Egli è in grado di risolvere da solo le proprie inquietudini, ha raggiunto quel grado di autonomia a cui mira la consulenza filosofica e quindi può evitare che gli si ripropongano in futuro gli stessi problemi che lo hanno spinto a rivolgersi al consulente filosofico. Si sono raggiunti così gli obiettivi proattivi e preventivi tipici della consulenza filosofica.

Descritti i 4 stadi, Raabe chiude il capitolo sul suo modello prestando attenzione alle teorie femministe inerenti la consulenza filosofica, al problema della diagnosi dei clienti che giungono in consulenza dopo precedenti esperienze terapeutiche che hanno lasciato loro “in dote” un’etichetta diagnostica.

Soprattutto in chiusura l’autore tratta due temi particolarmente importanti: quello della neutralità professionale e ancor più quello inerente i limiti della consulenza filosofica. Riguardo al primo punto Raabe parla del possibile pericolo insito nella filosofia: quello di usarla per rafforzare la giustificazione razionale di posizioni moralmente reprensibili, un processo difensivo che in psicologia appare affine al concetto di “razionalizzazione”.

Il consulente filosofico non può limitarsi ad aiutare il cliente a giungere alla propria conclusione indipendentemente da cosa essa sia. È suo compito dare giudizi di merito sull’accettabilità morale del ragionamento del suo cliente e, ove sia necessario, un giudizio morale: la neutralità va messa da parte.

Per quanto riguarda i limiti, il paragrafo riveste una certa importanza nel mettere in luce dubbi e problematiche che oltre a essere peculiari della consulenza filosofica, in alcuni punti risultano comuni alla psicoterapia e in generale alle professioni di aiuto. L’elenco dei limiti attraversa il non potersi rivolgere a problematiche di natura biologica così come l’impossibilità di offrire soluzioni immediate o il non poter operare in una situazione di crisi tale da invalidare le capacità di pensiero del cliente. Ma più di tutto Raabe insiste sul limite del consulente di fronte a un cliente che stia cercando l’amore non avuto da altri, come per esempio quello della famiglia. Se l’individuo che si reca in consulenza è mosso da una necessità d’amore, da un vuoto affettivo che pervade la sua vita, l’aiuto che il consulente potrà offrire è pressoché nullo. Raabe è chiaro nel considerare come la consulenza filosofica “aiuti il cliente a recuperare molta dell’autostima perduta, a ricostituire la sua vita in modo che possa incontrare nuove potenziali figure importanti e formare con esse nuove relazioni. Ma è impossibile che la pratica della filosofia possa surrogare l’assenza d’amore”.

Nell’impietosità di tale affermazione Raabe svela quello che forse è più di tutti il punto debole della consulenza filosofica così come della psicoterapia, dato che si può, con cognizione di causa, avanzare l’idea che sia questa una delle motivazioni principali, che porta l’individuo a rivolgersi ad uno psicoterapeuta così come a un consulente filosofico.

L’ultimo capitolo della seconda parte tira le somme del discorso portato avanti dall’autore, definendo cosa sia la consulenza filosofica e rispondendo all’interrogativo “La consulenza filosofica è una terapia?”. La risposta più corretta per Raabe è “Si, ma…”.

Non prevedendo né una diagnosi né una definizione di normalità, essa di discosta da una terapia classicamente intesa; al contempo però è indubbio che l’elemento di miglioramento della condizione del cliente sia presente e che questo di fatto ne faccia una terapia, benché particolare, i cui elementi fondamentali sono: l’indagine filosofica; una competenza minima da parte del cliente nel condurre una ricerca razionale; una relazione cooperativa tra cliente e consulente; la capacità del consulente di adattare la filosofia accademica alla consulenza; la necessità di un insegnamento diretto; un libero programma di lavoro che permetta il cambiamento e il progresso del cliente; una metodologia chiara.

In conclusione Raabe afferma: “Un metodo sostanziale esiste: quello di rivolgersi alle necessità del cliente al giusto stadio. Se i consulenti filosofici comprendessero che il processo di consulenza coinvolge numerosi stadi sovrapposti e che il suo metodo consiste nell’aver a che fare con un cliente nel modo appropriato, cioè con le sue necessità negli stadi del modello nei quali è appropriato affrontarle, sarebbero risolti molti dei disaccordi sul cosiddetto metodo migliore per tutte le sedute di consulenza filosofica e per tutti i clienti”.

In questo modo si conclude la seconda parte del volume. L’opera dedica le sue ultime pagine a una terza parte dal titolo “Pratica”, nella quale l’autore propone 4 casi di studio estratti dalla propria esperienza che rendono conto rispettivamente di una consulenza risolta in una sola seduta, di un secondo esempio che evidenzia il dipanarsi della consulenza attraverso i 4 stadi, e di un terzo e un quarto esempio che mostrano l’applicazione delle consulenza filosofica ad un contesto di gruppo e all’infanzia. Le appendici che sintetizzano gli stadi della consulenza, le principali differenze tra psicoterapia e consulenza filosofica, i passi in una ricerca sul significato della vita, le strategie per decisioni etiche, concludono quello che è stato definito il primo, e tutt’oggi unico, manuale pratico di consulenza filosofica.

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L'autore
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Alessandro Uselli
Specialista in Psicologia clinica e Psicoterapeuta. alessandro.uselli@gmail.com