Schlomit. C. Schuster, La pratica filosofica, 1999 (a cura di Alessandro Uselli)
Un libro che guarda alla filosofia, un’opera intrisa di filosofia.
Potrebbe apparire un commento ridondante e retorico, in riferimento a un testo che vuole trattare, come il suo stesso titolo recita, la pratica filosofica.
Eppure non tutte le opere di consulenza filosofica si addentrano nel mondo delle idee, non tutti i testi fino ad oggi prodotti hanno il pregio di percorrere un cammino trasversale agli autori, alle teorie e ai pensieri. Schlomit Schuster fa invece proprio questo: entra nella storia e conduce il lettore attraverso i secoli, al fine di individuare i precursori più antichi dell’odierna consulenza filosofica, e di mostrare come il bisogno di filosofia sia un bisogno basilare dell’uomo, essenziale, esistenziale.
Una necessità pari alla nutrizione che, in analogia a questa, può comportare uno stato di debilitazione, di malattia, qualora venga frustrata, come in tempi odierni accade di frequente.
La filosofia ci manca e noi non possiamo fare a meno di filosofia.
E’ tale vissuto che chiama lo studio del consulente filosofico, unico luogo del senso, in netta contrapposizione al lavoro dello psicologo, dello psichiatra o del professionista dell’igiene mentale.
La terapia, secondo la Schuster, è divenuta l’ideologia più potente del XX secolo, un concetto per larghi tratti condivisibile nella misura in cui l’ideale del benessere a tutti i costi si è insinuato nelle nostre coscienze.
Tuttavia l’autrice utilizza tale concetto in maniera pretestuosa, convogliando le sue critiche sulla terapia psicologica, puntando l’indice verso gli psicoterapeuti e rivendicando la dignità peculiare e autonoma della pratica filosofica. La critica alla psicoterapia diviene serrata, la Schuster non si serve di eufemismi, e conduce la sua disamina in un clima di cieca battaglia e smodata difesa, fino addirittura a rassicurare il lettore che comunque di fatto esista “una via d’uscita dalla psicoterapia”.
Nel passo in cui l’autrice evidenzia tale processo “salvifico” dice:
“Trovo che esista una differenza reale, non solo una differenza semantica o concettuale, tra usare la parola “terapia” per descrivere la pratica degli psicoterapeuti e usare la parola counseling, così com’è impiegata nella pratica filosofica. I consulenti filosofici descrivono la loro pratica come un modo filosofico di “aiutare” persone o di “prendersi cura” di persone: si tratta di concetti assolutamente aperti, senza le connotazioni di sviluppo, crescita, recupero e guarigione proprie della parola “terapia” “.
La scelta di citare a più riprese Jeffrey Masson, ex-psicoanalista, eretico della psicoterapia, la dice lunga sullo spirito che anima la Schuster nei confronti della terapia psicologica: “La psicoterapia non può essere riformata nelle sue parti, perché l’attività, per sua natura, è dannosa. Riconoscere le bugie, le mancanze, il danno, il danno potenziale, lo squilibrio di potere, l’arroganza, la condiscendenza, le pretese potrebbe essere il primo passo verso la conclusiva abolizione della psicoterapia che io credo sia, un giorno, nel futuro, inevitabile e desiderabile”.
Lo spazio che si offre quindi al consulente filosofico, secondo la Schuster, dovrebbe essere una terra di nessuno, ove operare “tra la visione diagnostica dei terapeuti e l’interpretazione libera degli agnostici, tra la medicina e l’etica, tra le scienze e le arti”.
La sua pratica viene allora da lei definita come “transterapeutica”, ovvero caratterizzata da attività non propriamente terapeutiche che ciononostante possono indurre benessere. Cita come esempio, il medico che consiglia al malato di fare una vacanza: al rientro il paziente potrebbe avere estinto la sua sofferenza, non per questo la vacanza può considerarsi terapia o il consigliare una vacanza potrà essere annoverato tra le tecniche terapeutiche.
Questo è il fare del consulente filosofico, un dialogo aperto, “laico”, ove accrescere l’anima filosofica del consultante, con il risultato, auspicabile ma non finalizzato, del decremento della sua sofferenza.
Non a caso l’autrice suggerisce come discriminante per decidere se è possibile o meno intraprendere un cammino filosofico con un determinato individuo, la sua capacità di intraprendere il dialogo. Se l’individuo ne è incapace, in conseguenza ad esempio di deficit cognitivi e della comunicazione, o per blocchi troppo pervarsivi, il consulente filosofico non potrà intervenire. Potrà farlo soltanto dopo che il problema sarà stato superato.
Ma come potrà un individuo così sofferente evolvere a uno stato per il quale gli sarà possibile sostenere un dialogo e quindi una consulenza filosofica? Potrà farlo solo tramite specifici interventi, appannaggio del medico o dello psicologo. E’ la Schuster stessa a rilevarlo en passant, quasi a denti stretti.
Si potrebbe pensare dunque che un professionista già addentrato nell’orbita della cura dei disagi esistenziali, quale per l’appunto uno psicologo o uno psichiatra, potrebbe facilmente formarsi anche alla filosofia e integrare i due approcci nella cura del cliente, cosicché l’individuo possa giovarsi di un’unica figura professionale.
La Schuster pone un veto quasi irreprensibile a questa presunta aspirazione, la stronca sul nascere. Per diventare consulente filosofico, lo psicologo aspirante non potrà servirsi di una laurea in filosofia o di un corso di perfezionamento: perché possa operare filosoficamente occorre vada incontro a una vera e propria conversione, una conversione filosofica, di cui l’autrice offre due luminosi esempi: Jaspers e Foucault.
Va da sé quindi che una tale illuminazione non possa essere raggiunta volontariamente e da chiunque, sicchè lo psicologo “medio” rimane per forza di cose interdetto dal potere operare anche come filosofo.
Da questa prima disamina del libro della Schuster, che trova spazio nella sezione iniziale, appare chiaro come tratto distinguibile del suo pensiero e della sua teoria, una certa rigidità, che porta l’autrice da un lato a prendere drasticamente le distanze dalla terapia medica e psicologica e dall’altro ad affermare con altrettanta forza l’indipendenza e la dignità della consulenza filosofica.
Tale rigidità non rimarrà isolata alla psicoterapia ma si ripresenterà nel secondo capitolo anche nei confronti dello spettro teorico della consulenza filosofica.
Schuster è un achenbachiana convinta. Ella non solo fa suo il metodo di Achenbach in tutti i suoi punti, ma, analogamente a quanto fatto con la psicoterapia, prende le distanze da tutti gli approcci che si sono diramati dall’originaria teoria del primo consulente filosofico moderno, e minimizza il loro valore, apostrofandoli più volte con epiteti sarcastici.
L’affermazione della consulenza filosofica da parte di Schlomit Schuster arriva quindi attraverso un atto di forza che lascia poco spazio a considerazioni alternative.
Inizia poi un percorso che porta il lettore a percorrere l’itinerario storico della cura filosofica.
In origine evidenzia come la filosofia fosse intesa dai pensatori classici, a differenza dei consulenti moderni, propriamente terapia, e rintraccia come primo terapeuta filosofico il sofista Antifonte.
Percorre poi l’etica di Aristotele, le obiezioni di Crisippo e degli stoici, la Lettera a Meneceo di Epicuro.
Ma prima di tutto, e al di là di tutto, è in Platone che la Schuster trova il paradigma d’ispirazione per la consulenza filosofica, nel trovare ed elaborare concetti che inducono il benessere. Le idee di Platone inoltre risultano secondo l’autrice vicine alle critiche alla psicoterapia e contengono elementi di antipsichiatria.
Tuttavia l’autrice non può non notare come Platone sia stato al tempo stesso precursore della psicoanalisi, nella misura in cui molti concetti freudiani paiono mostrare un chiaro sostrato platonico (Io – Es – Super Io, possono essere messi in relazione ai concetti platonici di Ragione – Desiderio – Spiritualità), nonostante per detta di Jung uno dei maggiori errori di Freud sia stato il voltare le spalle alla filosofia. In ogni caso Schuster preferisce mettere l’accento su quegli aspetti del pensiero di Platone (come il ritenere benefiche alcune forme di follia) che se ben guardati si mostrano come critiche alla psicoterapia e alla psichiatria, e che quindi costituiscono un indubbio riferimento per la consulenza filosofica.
Ritornando poi alla psicoterapia, l’autrice esamina come determinate filosofie abbiano avuto un’influenza determinante su alcuni tipi di psicoterapia, ma non cessa di ripetere che della realtà terapeutica debba poco importare al consulente filosofico:
“i filosofi praticanti devono tentare di liberarsi del fardello della coscienza terapeutica. Una “dotta ignoranza” sulla terapia, nonostante la conoscenza di ciò che accade nel mondo della terapia, è l’ideale per il consulente filosofico. Imparare dai terapeuti mi sembra giustificato soltanto se lo si fa nel modo in cui Socrate imparava dai suoi interlocutori”
Detto questo, sottolinea come solo alcune terapie utilizzano le idee filosofiche in modo coerente. Tra queste per la Schuster ci sono l’antipsichiatria di Laing, la terapia filosofica buberiana e la pratica clinica sartriana.
Laing è per la Schuster di notevole importanza nella misura in cui ha applicato al suo fare terapeutico la demistificazione degli enigmi della psicologia, l’importanza della relazione al fine della comprensione, e l’introduzione di amicizia e amore in seno alla terapia.
La relazione ideale tra consulente e ospite, è per la Schuster un amore e un’amicizia intellettuali, “nel senso di un’idea filosofica da praticare, più che di un sentimento o concetto”.
Si può prendere il modello aristotelico di amicizia come paradigma etico per le interazioni tra consulente filosofico e cliente. Questo pone però uno spinoso interrogativo: può essere un rapporto d’aiuto basato sull’amicizia retribuito con denaro?
La Schuster non tentenna nemmeno in questo caso e risponde di si. Il filosofo, a suo dire, non è pagato per l’amicizia o l’amore, ma per pensare. La relazione con l’ospite non è una relazione emotiva ma una relazione etica che può essere paragonata (sic!) alla relazione tra paziente e psicoanalista basata sul transfert.
Il rapporto tra consulente e consultante, così distante dalla psicoterapia, diviene a essa paragonabile quindi nel momento del pagamento, e nonostante l’autrice ritenga la situazione migliore quella in cui un consultante paghi in base alle proprie disponibilità, consiglia comunque ai consulenti di applicare tariffe fisse, stando però sempre attenti che il guadagno non divenga scopo primario del loro lavoro.
Tornando all’orizzonte teorico, Buber e Rogers appaiono fondamentali per la Schuster in quanto anticipatori della pratica filosofica di Achenbach. Le seguenti 4 caratteristiche della pratica filosofica ricordano aspetti della terapia buberiana e rogersiana:
1) La sincera comunicazione e il rifiuto del metodo
2) L’importanza del dialogo, come qualcosa di vivificante e di sgorgante dall’essere
3) Cercare spiegazioni in cui il consulente diventa tutt’uno con il problema, dando al cliente un nuovo impulso a spiegare se stesso
4) La componente innovativa del dialogo, che non ammette punti di vista fissi
Per la Schuster tali teorie sono innovative e peculiari, e si distanziano dalla psicoterapia in quanto in quest’ultima il terapeuta tende ad applicare più o meno rigorosamente un metodo, che ha alla base un certo punto di vista specifico, che finisce per contaminare il cliente, e in un certo senso la terapia risulta efficace quando il paziente assorbe e fa suo il pensiero del terapeuta, piuttosto che partorire un proprio punto di vista, cosa che invece aiuta a fare il consulente filosofico come una moderna levatrice socratica.
Nel proprio modo di operare in consulenza la Schuster ritrova l’Io-Tu buberiano, e lo spiega attraverso 7 caratteristiche base, mutuando una lista stilata da William E. Kaufman:
1) L’Io-tu coinvolge l’intero essere di una persona (niente menti divise)
2) La relazione è esclusiva, in quanto io sono preso dall’incontro
3) C’è una relazione diretta: io non fingo ne tento di impressionare
4) La relazione è senza sforzo, non è un atto di volontà
5) La relazione è nel presente, non è una relazione fittizia come la relazione di transfert
6) La relazione ha luogo tra persone ed è un processo organico (gestaltico)
7) La relazione è reciproca: “Come io divento Io, Io dico Tu”
Analizzando ancora le radici del proprio fare consulenza, la Schuster vede nell’influsso sartiano uno dei propri capisaldi. Le idee in particolare a cui si riferisce sono quelle di reciprocità positiva e amore autentico. Secondo l’autrice i reali significati dell’esistenzialismo sono sovvertiti dalla psicoanalisi e dalla psicoterapia. La sua opinione è che la psicologia sartriana sia una critica filosofica della psicoanalisi, e a suo parere la contraddizione di base tra il pensiero di Sartre e la maggiorparte delle psicoterapie sia che Sartre ha insistito sul fatto che la realtà umana non possa essere ridotta o guarita. La traduzione pratica delle idee di Sartre la si può vedere in particolari casi, come quando i clienti sono stregati dal passato e dai suoi fatti casuali: “quando il passato e il presente vengono analizzati dalla prospettiva di una libertà – la trascendenza dai “dati” – che si può trovare nel resoconto offerto dalle persone stesse, un sentimento di disperazione si trasforma nel potere di sperare e di cambiare”.
E’ con questa chiave interpretativa che si accede quindi all’ultima parte dell’opera, dedicata alle “Narrazioni filosofiche di vite”, nella quale attraverso la filosofia vengono dipanati otto casi di ingorghi esistenziali, di ambiguità profonde, di vissuti e agiti distruttivi.
E’ questo il complemento essenziale dell’opera. Attraverso le narrazioni la Schuster traduce in concreto i principi e le idee che aveva esposto nelle precedenti sezioni.
Ad onta delle ambiguità dei capitoli precedenti, si può qui rilevare un elemento di prestigio del lavoro della Schuster che non si ritrova in altre opere analoghe: la narrazione non viene condotta al fine di illustrare l’efficacia del proprio metodo. In accordo con Achenbach il metodo non c’è e non può esserci, il metodo diviene quindi la parola filosofica che attinge, a seconda delle traversie di vita dei consultanti, all’autore più appropriato, e illumina la vicenda rendendola dipanabile.
Forse più che altrove, è proprio in questa parte conclusiva che ritroviamo il pregio che in apertura avevamo riconosciuto al libro, quello di immergersi appieno nella filosofia, di trasudare filosofia, di rendere la consulenza propriamente filosofica.
Daniel, il primo dei consultanti narrati dalla Schuster, troverà in Nietzsche la “capacità di dimenticare” e di sentire astoricamente, che gli consentirà di porre fine all’insonnia ossessiva che lo affligge, connotata dai ricordi crudeli dei suoi genitori; Natalie, tormentata dalla propria incapacità di perdere peso e dal correlato sentimento di non esistere sarà aiutata dai dialoghi di Sartre con Benny Lévy e dall’ Uomo in rivolta di Albert Camus.
Ognuna delle narrazioni possiede un filo logico intenso, che collega i patimenti di ogni consultante al pensiero di un particolare autore e che, attraverso questo, porta a una nuova visione risolutiva del proprio vissuto esistenziale.
Tuttavia, in taluni frangenti, il confine con il lavoro dello psicoterapeuta si fa labile. Ne è un esempio il caso di Yoni, un uomo che si reca in consulenza per i suoi problemi a decisionali, per un’immaturità generale che lo porta anche a compiere piccoli furti.
Yoni sarà aiutato attraverso il pensiero di Sartre e l’importanza che per questo autore riveste la nozione di “scelta”. Ma a un certo punto la Schuster suggerisce a Yoni delle interpretazioni che sconfinano irrimediabilmente nella psicodinamica:
“Forse rubare un documento d’identità è stato l’espressione del suo desiderio di avere una propria identità. Forse i suoi furti erano una forma di vendetta per aver visto il suo sé continuamente “rubato” da altri. Provando paura mentre rubava, Yoni dava espressione alla paura di essere sorpreso ad assumere un’identità e uno stile di vita scelti da lui, qualcosa di proibito dalla sua educazione religiosa. Yoni accettò questi suggerimenti.”
La Schuster è consapevole del fatto che in questo frangente abbia assunto un atteggiamento da psicoterapeuta o peggio ancora da psicoanalista, e si protegge anticipatamente:
“Diversamente da quanto accade in molti tipi di psicoterapia, le ragioni che ho attribuito ai suoi furti erano solo ipotesi, possibilità immaginarie o conclusioni logiche che speravo facessero scattare una nuova motivazione, che avrebbe potuto non essere necessariamente identica alla mia”.
Nel poscritto che chiude il libro chiarirà meglio questo concetto ricorrendo alla metafora della differenza tra storia e geografia, differenza che in pari misura riguarda anche psicoterapia e consulenza filosofica: “In una ricerca storica si può discutere di scoperte geografiche e viceversa: eppure nessuna delle due si trasforma nell’altra”.
Al termine dell’analisi dell’opera possiamo parlare de La pratica filosofica come di un testo fondamentale per la comprensione delle pratiche filosofiche, di cui la consulenza fa parte. Essa patisce a nostro avviso la rigidità con cui l’autrice sembra a volte volersi chiudere in una torre d’avorio ove rivendicare a tutti costi lo status autonomo della propria disciplina. Sarà proprio l’accentuazione del confine a rendere farraginose e ambigue alcune parti del suo edificio teorico, mentre rimane di straordinaria importanza e di grande prestigio per l’opera, l’enfasi posta sulla filosofia, l’enorme spazio dato al pensiero degli autori dall’età classica ai giorni nostri, che percorre ogni pagina del libro, fino a mostrare nell’ultima sezione come la filosofia possa curare i mali dell’anima, in accordo col pensiero dei filosofi antichi.
Non tutti gli autori che si sono espressi sulla consulenza filosofica sono riusciti in questo intento.
Schlomit Schuster indubbiamente sì.
Per questo, con un gioco di parole, si può affermare che il merito principale dell’autrice risieda nel seguente concetto: aver reso filosofica la consulenza filosofica.