Il Mosè di Michelangelo (1914)
Il Mosè di Michelangelo (1914)

Sigmund Freud, Il Mosè di Michelangelo (1914)

Nella storia dei viaggi freudiani, l’Italia occupa un posto centrale. Il vero innamoramento per il Bel Paese si realizza pienamente per Freud nel 1901, quando riesce a trovare il coraggio di spingersi finalmente fino a Roma, la città dei suoi sogni. Tutto a Roma gli piace: la mitezza del clima, la luce, i profumi. Durante le giornate a Roma, Freud passeggia ebbro di stupore per l’arte, il paesaggio, i piaceri della buona tavola, tanto da dichiarare che quello era il luogo dove avrebbe voluto trascorrere la sua vecchiaia.

Non c’è angolo della città che non abbia visitato: da S. Pietro alla Sistina e alle stanze di Raffaello, dalla via Appia al Gianicolo, dal Pantheon a S. Pietro in Vincoli, dove vede per la prima volta il Mosè di Michelangelo, fonte di emozioni delle quali continua a nutrirsi per anni.

Nel 1914 esce sulla rivista Imago il saggio Il Mosè di Michelangelo, dove Freud espone finalmente le sue considerazioni, ricche di sorprendenti intuizioni, su una delle meraviglie artistiche più famose e ammirate del mondo.

Non è un saggio psicoanalitico del Dottor Freud sulla figura del patriarca ebraico (a questo penserà anni dopo nel 1934-1938 scrivendo L’uomo Mosè e la religione monoteistica, dove attraverso la psicoanalisi viene ricostruita la storia di Mosè e del monoteismo ebraico), ma è una relazione-rivelazione, confidenziale, intima, delle impressioni del Signor Freud davanti a “quel Mosè”, quella raffigurazione precisa, così come Michelangelo l’aveva fissata nel marmo quasi quattrocento anni prima.

L’indagine psicoanalitica viene, in un certo senso, messa da parte, Freud non è interessato alla psico-biografia del Buonarroti, né all’analisi della storia e della personalità del patriarca Mosè, è teso solo a spiegare le suggestioni che la statua gli suscita.

Era tornato ad ammirarla quasi ipnotizzato, giorno dopo giorno e, alla fine, era come se la statua parlasse con lui, raccontandosi.

Quello che principalmente gli rivela sono le azioni e i gesti che precedono la posizione finale in cui Michelangelo l’ha fermata, il retroscena.

Freud da voce alla storia di “quel” Mosè, così come è risuonata dentro di lui, come la statua stessa gliel’ha confessata: l’opera d’arte viene lasciata libera di comunicare, di esprimersi, di sconvolgere ogni teoria, ogni preconcetto esistente.

Le interpretazioni e le descrizioni discordanti sull’aspetto della scultura, fatte nel corso dei secoli, intrigano Freud più che mai, tanto che diradare il mistero diventa per lui quasi un bisogno, una necessità.

La tesi di Freud è originale. Il punto di partenza dell’osservazione è il nodo della barba nella mano sinistra di Mosè, un dettaglio, un aspetto apparentemente secondario, che, come la pratica psicoanalitica gli ha dimostrato, si rivela capace di aprire una finestra su una nuova visione della realtà e sulla sua comprensione.

Contrapponendosi all’interpretazione più accreditata secondo la quale la guida spirituale degli ebrei sarebbe stata rappresentata da Michelangelo nel momento in cui prorompeva il gesto d’ira per l’idolatria del popolo, causando la rottura delle tavole della Legge, Freud, vede Mosè nell’atto della rinuncia a dar corso alla sua rabbia: la ragione ha il sopravvento sul suo furore, il patriarca, già pronto a scattare, si controlla, resta seduto, desistendo dall’atto violento.

Un’immagine che non corrisponde affatto al condottiero della tradizione biblica, uomo iracondo e soggetto alle passioni: il Mosè di Michelangelo e Freud è capace di controllare la sua collera, che pure è presente nello sguardo, nell’impeto del balzo trattenuto, nella torsione improvvisa della testa. Egli non rompe le tavole, ma le trattiene e le salva in extremis.

Se consideriamo che Freud scrisse il saggio nello stesso periodo del dissidio con Jung, possiamo immaginare come si sia sentito vicino a quel Mosè deluso, scandalizzato dall’infedeltà dei suoi: il popolo della psicoanalisi, ingrato come il popolo ebraico, stava deviando dalla retta via, rinunciando alla giusta dottrina per volgersi ad altri culti.

Eppure, il ritratto conclusivo che traccia Freud di “quel” Mosè è quello di un saggio, consapevole della missione divina di cui è latore, capace di formidabile autocontrollo: la ragione che domina sulle passioni che prorompono.

Nella statua di Michelangelo Freud, in fondo, vede se stesso.

Nella fattezze fiere mirabilmente scolpite, nello sguardo pieno di dolore e di sdegno, nell’impeto represso, nell’autocontrollo ritrovato con fatica, nella consapevolezza della grande missione da compiere “malgrado tutto”, Freud proietta quello che si agita dentro di lui, e attraverso l’analisi della statua, illustra e dirime il proprio conflitto interiore.

La cosa più sorprendente del saggio, però, è ben altro.

Freud descrive dettagliatamente i “movimenti” compiuti in successione da Mosè prima di arrivare nella posizione in cui Michelangelo l’ha immortalato (dapprima Mosè è seduto tranquillo, poi trasale, si prepara allo scatto e, infine, desiste): egli ne fa persino realizzare dei disegni che corredano il testo.

Nell’ottobre del 2003 si è concluso il restauro del monumento funebre di Giulio II, di cui il Mosè michelangiolesco fa parte, nella chiesa di San Pietro in Vincoli a Roma.

Il restauratore, Antonio Forcellino prima di procedere con i lavori, ha effettuato una accurata ricerca filologica, recuperando una lettera di un anonimo conoscente di Michelangelo (certificata autentica) che riferisce come l’artista avesse “girato la testa a Mosè” in un secondo momento.

Durante il restauro si sono aggiunti altri indizi a confermare questa ipotesi.

La barba è tirata verso destra, perché a sinistra sarebbe venuto a mancare il marmo per rifarla perpendicolare come era nella prima versione (che corrisponderebbe alla posizione del primo disegno di Freud).

Per operare la torsione del corpo, Michelangelo abbassò di sette centimetri a sinistra il trono su cui Mosè è seduto, mentre per appoggiare indietro il piede sinistro l’artista è costretto a stringere il ginocchio di cinque centimetri rispetto al destro.

Inoltre, esaminando dopo quasi tre secoli dall’ultima volta la statua di spalle, si è scoperto che vi è sopravvissuta una larga cintura scomparsa nella parte anteriore.

Il vero motivo, secondo uno dei maggiori studiosi di Michelangelo, Christoph L. Frommel, che avrebbe spinto l’artista a girare la testa del Mosè sarebbe stato di ordine religioso. Mosè non si volta afferrando la barba per domare la propria passione e salvare le tavole, come aveva suggerito Sigmund Freud.

Secondo Frommel, dal 1542, venticinque anni dopo la prima versione, il Mosè, per volontà del suo autore, distoglie lo sguardo dagli altari nell’ abside e nel transetto dove venivano venerate le catene di San Pietro e concesse le indulgenze ai pellegrini paganti, proprio come se avesse visto un nuovo vitello d’oro, palesando così una adesione di Michelangelo alle idee del movimento riformatore.

Esiste, a dire il vero, anche un’altra interpretazione, più pratica e meno pittoresca che spiegherebbe il motivo della torsione.

Nel 2004 uno scultore di Carrara appassionato d’arte, Mauro Pisani, interpreta le modifiche apportate sul Mosè da Michelangelo come necessarie a camuffare un incidente occorso durante la sua realizzazione.

A causa della rottura dell’avambraccio sinistro, dell’opera in fieri, scolpita inizialmente in posizione diritta, Michelangelo ideò la torsione e i cambiamenti alla statua, che, ad ogni costo era costretto a terminare a causa delle forti pressioni degli eredi di Giulio II che reclamavano la consegna del sepolcro dell’ormai defunto pontefice.

Qualsiasi siano state le motivazioni dell’artista, comunque, la cosa che più colpisce e stupisce è che il “movimento” immaginato da Freud come prologo al Mosè rappresentato, sia stato fatto compiere materialmente da Michelangelo alla statua.

La statua di marmo si era davvero girata, nello stesso modo in cui Freud l’ha vista muoversi.

Si racconta che Michelangelo, terminata l’opera, si sia rivolto al suo capolavoro chiedendogli “Perchè non parli?”.

Quasi quattro secoli dopo, il Mosè avrebbe davvero parlato, svelando le sue vicissitudine a Sigmund Freud nel corso dei loro numerosi incontri e avrebbe accolto a sua volta -rispecchiandole- preoccupazioni, delusioni, fantasie e sogni, del padre della psicoanalisi.

Uno scambio interattivo virtuale, ma virtuoso, quasi una “relazione terapeutica” sui generis.

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L'autore
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Marina Malizia