Alessandro Dal Lago, Il business del pensiero. La consulenza filosofica tra cura di sé e terapia degli altri, 2007 (a cura di Silvia D’Offizi)
Questo saggio presenta una dura e ironica critica del mondo nuovo delle consulenze filosofiche da parte di un sociologo, Alessandro Dal Lago, che non fa parte della realtà in competizione diretta con questa forma di “terapia dell’anima”, la psicoterapia, ma che rivendica una competenza sulla materia.
L’interesse del professor Dal Lago per il recente successo delle pratiche filosofiche è dovuto al fatto che esse non sono, a suo giudizio, un problema esclusivo della filosofia. Dal momento che, nelle loro formulazioni e dichiarazioni di intenti, esse si presentano come “un aiuto, un sostegno, un tipo di condotta, una forma di vita, una professione, un lavoro…” stabiliscono, di fatto, una relazione sociale. Il loro ambito non è quello della speculazione disinteressata, ma quello delle pratiche sociali. Il consulente è un attore sociale che interagisce con altri attori, i suoi clienti, si colloca all’interno di gruppi professionali e trae dal suo lavoro un compenso monetario. In quanto pratica sociale la consulenza filosofica va analizzata dal punto di vista sociologico.
Lo scopo della pratica filosofica, secondo Natoli, è la felicità e il suo conseguimento, poiché solo la filosofia da felicità. La filosofia è maestra di vita, il filosofo è il sapiente che, attraverso la pratica dell’esercizio, guida il discente verso la realizzazione. Qui si fonde la dottrina con la pedagogia e si afferma il dislivello tra chi sa e chi non sa. Le pratiche filosofiche legittimano se stesse in base al presupposto dell’educabilità generale e in base alla formula della “cura per le malattie dell’anima” che pone la filosofia in alternativa alle religioni e alle psicoterapie. Umberto Galimberti viene citato come vero “guru” della consulenza in Italia. Attraverso il brano di un’intervista pubblicata sul quotidiano La Repubblica del 2003 apprendiamo che nella sua opinione le psicoterapie funzionano per chi non vuole sapere nulla di sé, ma vuole trovare un buon adattamento nel mondo e per chi vuole sapere qualcosa di sé indipendentemente dall’adattamento, ma per chi non ha questi problemi e viene in contatto con l’essenza vera del dolore e non vuole dogmi ma conoscenza, allora occorre la filosofia come pratica di vita. Queste considerazioni definiscono la filosofia come terapia dell’esistenza. Ma cos’è veramente la consulenza filosofica? Nell’eterogeneità degli approcci Dal Lago riconosce dei punti in comune:
1. Il mito fondativo è Socrate.
2. La filosofia è una e indivisibile nel senso che ogni corrente filosofica è legittima a patto che il suo indirizzo si concili col mito socratico. La conoscenza deve essere, sopra ogni cosa, conoscenza di sé.
3. Tutti gli approcci rispettano una deontologia professionale.
4. La consulenza filosofica non fa politica. La via della conoscenza di sé passa per l’interiorità e non investe la vita pubblica dell’assistito.
Noli foras ire, in te redi, in interiore homine habitat veritas.
L’esterno è un’ombra dell’interiorità: “la gnosi millenaria ci dice in sostanza che la fiammella divina arde nel nostro sepolcro di carne, e che quindi, a partire dal corpo, tutto ciò che è fuori non è che tenebra, presenza del demiurgo maligno”.
Dice Dal Lago che i praticanti filosofi respingono lo gnosticismo collocandosi piuttosto in due filoni principali, quello delle religioni storiche e quello della Ragion Pratica. Eppure dello gnosticismo condividono la svalutazione del mondo esterno e il razionalismo operativo. Ciò che essi rifiutano è il mondo come sfera pubblica, cercano un adattamento al mondo nella sfera della soggettività, ma nessuna azione per cambiare o migliorare (pubblicamente) la situazione generale. In tal senso la consulenza filosofica è reazionaria, perché in antitesi con le passate stagioni di ricerca della felicità pubblica e con l’attuale rifiuto di accettare a priori il mondo così com’è.
Dal Lago contesta inoltre il filosofo aziendale che pretende di storicizzare Socrate immaginando cosa farebbe nel moderno spazio metropolitano. L’autore azzarda una compiuta storicizzazione e afferma che Socrate in azienda starebbe malissimo e fuggirebbe decisamente dalla città.
Il nocciolo del problema è nella confusione tra filosofia e pedagogia. La pretesa anti-accademica per l’autore è semplicemente anti-teoretica. La consulenza filosofica non funziona come superamento (del problema) ma come sussunzione, come Aufhebung (hegeliana), mantiene e conserva dentro di sé i passaggi e, nella metamorfosi, lungi dal sopprimere il gesto della terapia, lo innalza a condizione universale (terapia dell’umanità). Supera il modello psicoterapeutico incorporandolo. Di fatto ne sopprime dialetticamente i limiti e supera sussumendo e divorando anche la figura del terapeuta poiché il consultante, che è ospite e visitatore, si trova al centro di uno scambio dialogico durante il quale apprende e insegna. L’iniziale, apparente, uguaglianza tra consulente e consultante si sgretola al momento del pagamento. I veri antenati dei consulenti sono i sofisti, nessuna relazione basata sul consenso può essere paritaria.
Nella prassi filosofica il conflitto, se affrontato, non viene mai risolto. È piuttosto re-interpretato in termini filosofici. Non si introduce il principio di Ragione nel conflitto, ma il conflitto diventa un caso particolare nel sistema della Ragione. È come se il caso si divertisse a gettare scompiglio, a mischiare le carte e occorresse ritrovare un ordine razionale. Naturalmente attraverso il Dialogo. In tutto questo il consultante non si capisce cosa faccia e soprattutto non si sa in cosa consista il suo dialogo.
L’autore a questo punto denuncia la sua avversione per la “filosofia da confessionale”, soprattutto se applicata alla realtà aziendale. Per questo specifico contesto viene scomodata l’etica, sempre legata alla motivazione, ossia alla missione aziendale. L’etica razionale si muove nel solco già indicato, in un sistema razionale cioè in cui il dialogo ristabilisce l’ordine che è stato perturbato. Eppure si scopre che questo dialogo è in realtà un metadialogo. “Discutono di regole che governano le regole”. Anche i manager fanno i filosofi. Indirizzano in senso etico le politiche aziendali in modo che il consumatore si persuade che non solo i suoi consumi sono necessari, ma eticamente corretti. Attenzione tuttavia: l’impresa può anche perseguire il bene, se questo è finalizzato al profitto.
Se anche il manager fa filosofia, l’autore identifica la radice della confusione in questo passaggio: avendo tolto dalle aule universitarie la filosofia e avendola messa alla portata di tutti chiunque può dirsi filosofo. Basta un master per aprire uno studio di consulenza filosofica.
I filosofi (accademici, scrittori) erano pensatori che si conquistavano la fama perché avevano qualcosa da dire. I consulenti non hanno nulla da dire. Non sono filosofi. La filosofia è pensiero e non può essere pratica professionale. Inoltre la cultura filosofica libresca ha il pregio di informare e non di formare. Il consulente è un dialogatore esperto, non ha un percorso professionale, è un aiuto/ascolto generico. Il counseling non è altro che un discorso tautologico, non avendo di mira la guarigione funziona per il solo fatto di avere luogo. È una conversazione a pagamento, la trasformazione del discorso in merce.
Il continuo parlare di sé, questo ripiegamento verso l’interno, ha creato una società di individui autoreferenziali centrati su un’attività continua di scrittura personale senza interlocutori.
La consulenza filosofica rappresenta uno dei tanti accessi elementari al discorso su di sé. Ma per l’autore il silenzio su se stessi rappresenterebbe un gesto etico per poter parlare di quello che c’è fuori. La consulenza filosofica rende un cattivo servizio alla filosofia, perché propone una relazione sociale basata sul presupposto che chiunque è malato solo per il fatto di esistere e qualcuno lo prende in cura. Si entra così in un’organizzazione che si fonda sulla debolezza del singolo e sulla paura. Il sistema alimenta la propria potenza fondandosi sulla sua stessa debolezza, che consiste nel credere che il problema e la soluzione sono nell’interiorità e mai fuori, nell’impegno pubblico.