a cura di A. Dorella
Una volta che una costruzione ha acquisito verità narrativa,
diventa non meno vera di qualunque altro tipo di verità
Freud è stato un ingenuo. Ha immaginato il paziente come un cronista oggettivo della propria vita, in ossequio al dettato delle ‘libere associazioni’. E l’analista come un fedele ascoltatore, in virtù della sua ‘attenzione fluttuante’. L’interpretazione è stata dunque valutata come un’espressione trasparente del processo primario e il resoconto del caso clinico è assurto ad una registrazione di fatti puri. Ma le regole fondamentali di Freud non sono più credibili.
Prendiamo ad esempio il racconto dell’Uomo dei Lupi. Dal ricordo di un suo paziente relativo ad una cameriera, Grusa, inginocchiata per pulire il pavimento, Freud deduce che l’Uomo dei Lupi rievoca un episodio in cui da bambino aveva urinato sul pavimento per l’eccitazione sessuale dovuta al ricordo di una posizione della madre nella scena del coito. Per questo atto di minzione egli avrebbe subìto un rimprovero dalla cameriera stessa, la quale aveva intuito la fantasia erotica del piccolo ‘sporcaccione’. Il rimprovero legato alla scena primaria è così diventato nella fantasia dell’adolescente una minaccia di castrazione.
Una tale ardita ipotesi con lo scorrere delle pagine diventa indubitabile certezza attraverso l’esercizio di un raffinato stile retorico. In cui ciò che potrebbe essere accaduto diventa la causa di tutto il resto del racconto. Metodo che non può essere del tutto spiegato dal pettegolezzo di Strachey. Secondo il quale il passaggio dal condizionale all’indicativo sarebbe stata un’azione da prestigiatore motivata dalla volontà di fornire prove documentate di fronte alle accuse di pansessualismo di Adler e soprattutto di Jung.
Freud non sapeva che la sua analisi si muoveva fra le sponde di un’aporia. Di una contraddizione irrisolvibile fra storicità e narrazione degli eventi dell’analisi. Egli ha costruito degli splendidi racconti dando loro uno statuto di splendide verità. E non ha mai compreso che è invece nella capacità di affabulazione del testo, arte nella quale il maestro viennese non aveva rivali, che vibra la dimensione veritativa dell’interpretazione.
Il tema posto dal libro è che la verità storica del paziente non è mai raggiungibile. La narrazione clinica non è la verità. Eppure –per paradosso- la verità esiste solo nel momento in cui si mostra come racconto dotato di senso.
Negli anni ’80, con il libro Verità narrativa e verità storica, Spence è fra i primi a cercare di disvelare le abilità di persuasione con cui gli psicoanalisti coprono la mancanza di certezza dei vissuti del paziente. Altri autori hanno poi sviluppato e perfezionato l’intuizione di Spence, introducendo il termine costruttivismo, nelle sue due declinazioni di costruttivismo radicale e moderato.
Spence dal canto suo non nomina quasi mai il termine costruttivismo. Si limita all’analisi formale del testo analitico e allo smantellamento delle certezze epistemologiche del primo movimento psicoanalitico. E anche nelle successive fatiche editoriali –tradotte in italiano vi sono La metafora freudiana e La voce retorica della psicoanalisi (ma ho verificato che l’autore mantiene i medesimi argomenti in alcuni abstracts presenti in rete nella sezione psicologica del ‘pubmed’)- egli conferma il focus della propria attenzione sul confezionamento retorico delle trame. Interessandosi ad esempio all’uso della metafora dalla tragedia greca a Galileo, da Aristotele a Freud, dai resoconti clinici alle teorie della mente.
Ho incontrato per la prima volta il libro di Spence per l’esame di psicologia dinamica I. Una scelta bibliografica inedita per l’ambiente didattico universitario, votato troppo spesso alla ripetizione senza fine delle topiche freudiane. In realtà era una scelta già allora anacronistica ma in sintonia –proprio per le caratteristiche demolenti di Spence- al gusto polemico e corrosivo del titolare di cattedra, abituato a valorizzare la psicoanalisi in primis come ‘esercizio critico’.
In questa seconda lettura, alla luce del mandato che mi è stato commissionato di rilevazione dei termini più rappresentativi del pensiero dell’autore, mi appaiono evidenti due caratteristiche che allora avevo ignorato. Una certa logorrea espositiva, oggi superflua per una revisione di Freud universalmente avviata. E la polarizzazione dei contenuti, esposti quasi sempre sotto forma di antinomie: ad esempio verità storica vs verità narrativa. Dualità oggi decisamente sfumata e conservata, al massimo, per questioni ideologiche o per chiarezza didattica. A questo tipo di esposizione, ho preferito una distribuzione del materiale all’interno di quattro grandi contenitori relativi alla figura del paziente e dell’analista e alle caratteristiche dell’interpretazione e del resoconto analitici.
1. PAZIENTE
Il paziente è come in un imbuto. Fra la ridda dei ricordi che lo abitano deve continuamente scegliere le immagini da riferire e le parole per raccontarle. L’anomalia dell’analisi infatti è che i veri dati primari sono visti o percepiti solo dal paziente.
Il tentativo di tradurre l’immagine in parole è un bluff. Barthes lo ha chiarito. L’immagine è come una fotografia. Non ha codice e il suo messaggio è discontinuo. Per questo è più difficile da rappresentare di un disegno, il quale invece possiede sia un particolare codice espressivo sia una continuità formale del proprio discorso. Come il racconto di un ricordo, il disegno è una ‘vignetta mnemonica’. Un’interpretazione filtrata della verità. Una mistificazione. Un tradimento, insomma.
In più ciascuna traduzione tenderà a rimpiazzare l’originale, come se una volta che le immagini primigenie sono state ‘inghiottite’ da una particolare descrizione, esse vadano perdute per sempre. Questo rischio è riferibile essenzialmente alle narrative nei mesi iniziali dell’analisi. È nel momento in cui assumono la prima formulazione che quelle versioni ufficiali tendono a schermare il passato reale.
Infine, il terzo motivo dell’impossibilità di tradurre veritativamente un ricordo in parole viene da Freud. I meccanismi di spostamento e di condensazione valgano per i ricordi non meno che per i sogni. La conseguenza è la creazione di ricordi-schermo che –come un disegno rispetto ad una fotografia- si prestano più facilmente alla descrizione verbale, proprio perché sono già stati modificati e adattati per sottolineare certi temi e nasconderne altri.
Esistono –secondo Spence- due tipi di ricordi e due modalità di rievocare il passato, a seconda della distanza che ci separa da esso. Uno riguarda il passato remoto, ed è riferito alle memorie dell’infanzia, e il secondo riguarda il passato recente. Il primo può esser definito -mutuando una espressione di Virginia Woolf- ‘momenti dell’essere’ e nel descriverlo il paziente si sente in balìa della scena narrata. Sono i ricordi più passivi e quindi più accreditati di autenticità. La seconda modalità, quella recente, può essere avvicinata al ‘flusso di coscienza’ di James. In essa le impressioni disponibili sono molte e la costruzione narrativa assume un ruolo più rilevante.
Mi sembra che l’autore si contraddica nei confronti della precedente critica alla rimembranza infantile dell’Uomo dei Lupi. In quel caso clinico egli evidenziava che anche i ricordi lontani sono oggetto di fallacia mnestica e interpretativa. Ma -ancor più importante- mi sembra che in questa distinzione (ricordi remoti-buoni; ricordi recenti-cattivi) Spence chiarisca il suo scetticismo nell’utilità del transfert, hic et nunc, come strumento di lavoro interpersonale. Quello che conta è il passato. Il resto è inganno.
Vale la regola del cofanetto di piombo, conferma l’autore. Come nel Mercante di Venezia è all’interno del materiale povero che si trova il messaggio più importante. Quanto più il ricordo sfavilla, quanto meglio sembra incastrarsi nel profilo narrativo, tanto più è probabile che sia d’oro falso. Nei momenti in cui il transfert è intenso, magari quando il paziente ha bisogno d’essere compatito o più ancora quando gioca al ‘bravo paziente’ e il desiderio di compiacere prende il sopravvento, ebbene è proprio allora che la spinta narrativa subisce il massimo effetto distorcente. Il ricordo-schermo è un ricordo di questa specie: vivissimo e ingannevole. Questi resoconti hanno poco a che fare con il passato, ma sono piuttosto moneta di scambio in una conversazione, mirante ad ottenere dall’analista una risposta di tipo manipolativo.
Il resoconto più veritiero al contrario compare nel cofanetto di minor pregio, nei momenti in cui il transfert è neutralizzato. Nelle fasi ‘di stanca’. Questo perché i ricordi autentici sono sempre i più difficili da descrivere.
Nelle righe finali, dedicate al commento, risponderemo alla tesi dell’autore con una argomentazione sul significato simbolico e relazionale del transfert.
Naturalmente le osservazioni di scetticismo relative alle immagini del passato diventano ancora più pertinenti quando vengono associate alla descrizione dei sogni. Anche perché è raro, se non improbabile, che al paziente in analisi si spieghi come descrivere le proprie esperienze oniriche secondo un metodo standardizzabile. Al paziente mancano gli strumenti retorici del mestiere. E in più la confusione si aggrava quando l’analista fornisce al paziente un lessico sbagliato, che deriva dalla sua esperienza, dalla sua dottrina e forse anche dalla sua impazienza. Quando questo succede, attraverso un’interpretazione prematura o inesatta, si rischia di rovinare per sempre la spontaneità dell’immagine.
2. ANALISTA
Quattro compiti di vigilanza attendono l’analista. L’attenzione alle interpretazioni involontarie, alla scelta di genere da parte del paziente, alla interpretazione formale e alla ‘naturalizzazione’ del resoconto analitico.
Nella stanza d’analisi l’analista è fra due fuochi. La sua competenza normativa gli impone di tradurre in racconti dotati di senso i frammenti di verità che provengono dal paziente. La sua competenza privilegiata, specifica di quel particolare setting, lo costringe invece ad un confronto difficile con una produzione verbale di discontinuo valore veritativo. Di fronte alla quale egli ha due strade. L’attenzione fluttuante, che Freud nel suo ingenuo ottimismo considerava come governata da un processo primario che ne garantiva l’assoluta autenticità. Oppure la consapevolezza dell’automaticità delle proprie interpretazioni involontarie, cioè delle letture che non emergono direttamente dalla consonanza con il ‘testo’ del paziente ma da approssimazioni interpretative. O dall’applicazione delle sue presunte competenze.
Una di queste –ad esempio- è la convenzione dell’unità tematica e del significato nascosto. Quello che sembra isolato la competenza psicoanalitica mette insieme. Se il paziente ha presentato tre sogni nel corso della seduta, l’orgoglio della competenza sarà quello di riuscire ad individuare il senso comune sottostante.
Un’altra, anch’essa perniciosa, è la convenzione del transfert. Una regola che conduce l’analista ad ascoltare ogni verbalizzazione a due livelli: come enunciato che riguarda il referente manifesto e come enunciato circa la relazione medico-paziente.
Un circolo tutt’altro che virtuoso. Dal momento che più libere sono le associazioni del paziente–regola fondamentale- minore coerenza avrà la produzione verbale e tanto maggiore sarà la necessità di imporre una struttura interpretativa (involontaria) per poterla comprendere. D’altro canto più è fluttuante l’attenzione, cioè più l’analista si sforza di sospendere il suo giudizio critico nell’ascolto del testo del paziente, maggiore possibilità hanno le sue convinzioni latenti di imporsi. E di confonderlo.
Dopo l’attenzione alle interpretazioni involontarie, il secondo obiettivo dell’analista deve essere indirizzato all’identificazione della scelta di genere operata dal paziente. Il paziente sceglie il genere in funzione dell’impatto ottimale sull’analista in ascolto. Anche se, da quella prospettiva, egli riduce drasticamente la scelta delle immagini a disposizione. L’analista da parte sua deve comprendere lo stile letterario del paziente per gestire le proprie interpretazioni e per individuare le gerarchie del fenomeno descritto.
Anticipo qui una riflessione. È stato ampiamente dimostrato da autori cognitivisti quali Weiss –e l’esperienza conferma- che la collusione con l’analista e il suo compiacimento non sono l’unico modo di interagire del paziente. Anzi spesso la ‘disconferma’ è la modalità più usata per difendersi dalle dissonanze cognitive provocate dall’analisi e per mettere alla prova la consistenza dell’analista. Pure se –in questo dò ragione all’autore- anche lo stile oppositivo può a sua volta diventare una scelta di genere.
3 Interpretazione formale
Il primo obiettivo preso in esame riguardo all’analista, cioè l’attenzione alle interpretazioni involontarie, era rivolto a se stesso. Il secondo, l’attenzione alla scelta di genere, era indirizzato al paziente. Il terzo obiettivo di consapevolezza da parte dell’analista è invece nei confronti delle interpretazioni formali.
L’interpretazione formale deve soddisfare due criteri: di adeguatezza e di esattezza. Fra i criteri di adeguatezza ci sono la coerenza, la coesione e l’esaustività: tali criteri servono a definire quella che abbiamo chiamato verità narrativa. Nei criteri di esattezza rientrano il valore di verità dei singoli enunciati e la loro corrispondenza a ciò che realmente viene alla luce nel corso dell’analisi: quella che abbiamo chiamato verità storica. Il criterio di adeguatezza s’ispira a metafore di costruzione edile, il criterio di esattezza a metafore di scavo archeologico.
Ebbene il criterio di adeguatezza è –secondo Spence- l’unico vero criterio interpretativo. Il potere dell’interpretazione dei fatti analitici risiede infatti nella sua struttura linguistica, che non è necessariamente vero nel senso storico del termine. In quanto ‘le interpretazioni sono convincenti…non per il loro valore testimoniale, ma per la loro qualità retorica ’.
Di contro i criteri di esattezza –cioè quelli che dovrebbero salvaguardare la verità storica dell’interpretazione- non reggono all’urto di una seria valutazione critica. Per poter assumere lo statuto di verità narrativa una interpretazione formale deve infatti soggiacere a tre regole. Tutte insoddisfacenti. La regola della parsimonia: la molteplicità degli eventi deve poter essere riferita ad un unico evento cardine, ad esempio la scena primaria. Ma l’evento deve essere improbabile e addirittura poco plausibile, come nel caso dell’Uomo dei Lupi. I due concetti –evento unico e insolito- sono collegati. Proprio perché è insolita la cosa dev’essere avvenuta una sola volta e proprio perché è avvenuta una sola volta, ma in modo clamoroso, essa può ragionevolmente essere chiamata ad influenzare il comportamento successivo.
La seconda regola riguarda la somiglianza della forma con il contenuto. Se la struttura formale di un evento presente o di un ricordo –ad esempio la cameriera inginocchiata- può essere riportata esattamente sulla struttura formale di un evento remoto -la posizione coitale della madre-, fra i due momenti vi è anche relazione di contenuto.
La terza regola, infine, direttamente collegata alle precedenti, riguarda il rapporto di causa-effetto. Quanto più è sovrapponibile il legame formale delle due scene, recente e passata, tanto più ‘incontestabile’ è il loro rapporto causale. Post hoc, ergo propter hoc.
In tutte queste regole vi è l’illusione che la scoperta di una somiglianza temporale fra più eventi formalmente sovrapponibili fondi una loro reciproca dipendenza a ritroso. Il principale effetto collaterale della tendenza psicoanalitica a sospingere gli accadimenti decisivi sempre più indietro nel passato è che essi rimangono inaccessibili a qualunque dimostrazione o confutazione. Le prove devono essere accettate con un atto di fede. E una volta eliminata la possibilità di revisione, l’unica alternativa è lasciarsi sedurre dalla magia esplicativa dell’interpretazione e dal suo fascino linguistico. Questa è la tesi di tutto il libro.
La ricerca della somiglianza come via maestra della conoscenza è un’arte antica. Focault ha evidenziato quattro tipi di similitudine usati nel passato: la convenienza (l’assunto che le forme che compaiono in stretta contiguità abbiano qualcosa in comune), l’aemulatio (l’assunto che la similarità di forma corrisponda a similarità di funzione) e l’analogia (l’assunto che la somiglianza di funzione spieghi il processo sottostante; ad esempio una tempesta è analoga ad un attacco di apoplessia). La principale è però la simpatia, su cui si basa il presupposto che ogni elemento dell’universo sia in comunione con le altre parti dell’insieme.
Nel mondo delle similitudini lo scienziato si muove alla ricerca delle ‘segnature’. Ad esempio: poiché i semi dell’aconito somigliano alla forma dell’occhio, il filosofo/scienziato medioevale ne deduce che la pianta dell’aconito è in grado di curare le malattie dell’occhio.
Lo stupore e il disappunto di Spence risiede nel fatto che la psicoanalisi continui a basare le proprie ricostruzioni su queste pseudo-dimostrazioni, di natura pre-scientifica, alla ricerca della causa dei fatti raccontati dal paziente. E si illude che esse costituiscano i nodi di una narrazione storica veritiera.
Torneremo in sede di critica finale su questo tema.
Eppure, commenta Spence, l’interpretazione storica funziona da un punto di vista clinico, acquisendo una vita indipendente dai suoi dati probatori. Probabilmente perchè il suo fallace criterio di esattezza soddisfa due altre funzioni. Una debole, relativa alla capacità di trovare espressione verbale per un evento e un sentimento percepito come anormale e spesso vergognosamente taciuto. Quello –mi sembra- che il primo Freud avrebbe chiamato abreazione. E un’altra funzione più forte e strutturata che collega l’episodio alla storia personale del paziente. In una verità narrativa, che è in fondo un atto linguistico di creatività dell’analista svincolato dal reale.
Si potrebbe dire –qui, lo ammetto, mi concedo alcune libertà di riepilogo rispetto al libro- che l’interpretazione è una narrazione di carattere estetico (perché credibile e convincente) e pragmatico (perché utile) che riesce a recuperare le ragioni della sofferenza di quell’individuo a partire da un evento dell’infanzia che non ricade direttamente sotto la responsabilità morale di un’azione consapevole.
E questo –dopo l’abreazione- è il secondo motivo di sollievo e di terapia della narrazione.
4. Resoconto
L’analista ha quindi due compiti futuri. Accrescere la propria consapevolezza sulle interpretazioni involontarie e trovare i dispositivi per collegare la propria competenza normativa con quella privilegiata. La sede di questo lavoro è l’elaborazione del resoconto e in particolare in una operazione che Spence chiama di naturalizzazione del testo. Il quarto e ultimo oggetto della (iper)vigilanza richiesta dall’autore all’analista.
Naturalizzare un testo clinico significa affiancare all’interpretazione il maggior numero possibile di dati ricavati dal colloquio. Compresi i sentimenti privati e le riflessioni spontanee. L’ascolto costruttivo dell’analista, infatti, non è mai puro. Il controtrasfert svolge un ruolo decisivo nel formare le interpretazioni involontarie. Non ci si deve illudere: non solo il contratransfert è sempre presente, ma esso non potrà mai neanche essere eliminato. Occorre solo trovare gli strumenti per naturalizzarlo, il più presto possibile rispetto al momento della seduta, per ridurre la quota di fallacia proiettiva e per permettere di partecipare al materiale del setting nelle stesse condizioni in cui è avvenuta l’analisi.
L’obiettivo è quello di trasmettere non solo la fabula, la cronaca, della seduta ma anche –il più fedelmente possibile- gli elementi del contesto in modo da ricostruire i motivi per cui l’analista è giunto al sujet, la verità narrativa di quel caso clinico.
La controprova di una riuscita naturalizzazione del testo è nella sua capacità di provocare una esperienza empatica e non solo intellettuale.
‘Alla ricerca futura rimane il compito di elencare tutti i tipi d’informazione supplementare che devono essere sistematicamente forniti dall’analista che pubblica il caso ’. Così l’autore conclude con lungimiranza uno dei capitoli più ‘programmatici’ e appassionati del libro. Nel quale stila il manifesto di un lavoro di codifica che altri autori –ad esempio Bucci- dopo di lui hanno poi realmente avviato. Merito operativo evidenziato dal fatto che in tutto il resto del libro la pars destruens prevale nettamente sulla pars costruens.
Un’azione al vetriolo che ha avuto la funzione di avviare agli inizi degli anni ‘80 un’importante revisione delle fondamenta del pensiero psicoanalitico, soprattutto per quanto riguarda il ruolo del linguaggio. Oggi il libro è un libro d’annata. Nel senso migliore del termine. Anche gli autori citati come partecipi del medesimo movimento innovativo (Holt, Klein, Schafer, Sherwood, Atkinson, Gill…) sono più nella storia che nell’attualità della psicologia dinamica. Il contenuto del libro ha perso la sua portata provocatoria e rivoluzionaria. E la passione strabordante del pionierismo dell’autore è in alcuni casi teneramente ‘demodè’.
Oltre all’avvio del movimento di revisione della psicoanalisi, altro merito –ai nostri occhi- è il corredo dell’esposizione con numerosi casi clinici, esemplari e sconosciuti; e i continui riferimenti ad opere d’arte tratte dal mondo della scrittura e della pittura.
Tre invece i temi su cui esercitiamo rilievi critici. Il ruolo ridimensionato del transfert in analisi, la predilezione per il costruttivismo radicale e la sottovalutazione della ‘rete’ dei significati della dimensione simbolica.
Per quanto riguarda il primo punto, il più importante, Spence dà per scontato che la psicologia del profondo abbia un principale obiettivo: la scoperta della verità di fatti storici. E dimostra per tutta la durata del libro l’insensatezza di questa missione. Ma –mi domando- davvero la verità storica costituisce l’unico materiale nobile dell’analisi? È attuale affermare che lo sforzo dell’analista deve essere unicamente profuso nel discernimento del grado di verità delle affermazioni del paziente? Perché non accogliere tutti i cofanetti –e non solo quelli di piombo- e i loro contenuti come un dono significativo che proviene dalla relazione fra: l’organizzazione di personalità del paziente, i suoi complessi autonomi e il mondo del terapeuta? Non è insomma Spence così critico nei confronti delle interpretazioni di Freud proprio perché è ancora legato ad esse e non è giunto a considerare serenamente anche le distorsioni transferali come verità ‘simboliche’ dotate di senso?
La mia impressione è che fra il nucleo marmoreo di verità e il barocchismo della narrazione vi sia uno spazio importante occupato dalla soggettività del paziente qui e ora e dalle sue produzioni, che Spence ignora o considera solo come interferenze. Credo che lo iato sia dovuto ad una ristretta valutazione della rilevanza del transfert in analisi.
Per quanto attiene al costruttivismo radicale dell’autore, devo ammettere di essere più convinto da una posizione moderata, che non esclude il noumeno, la cosa in sé, la verità analitica, ma solo il suo contatto totale e immediato. Pur accettando per intero tutte osservazioni stilistiche dell’autore.
Per ultimo un commento al tema delle similitudini e delle segnature, indicato da Spence come l’universo medioevale da cui è necessario emanciparsi. Spence confonde fra metafora e simbolo. La metafora, forma retorica alla quale dedica gran parte dei suoi studi, è un artificio dell’Io con il quale la coscienza richiama attraverso l’uso di una immagine un’altra realtà che essa già conosce. Il simbolo introduce invece nel territorio dell’inconscio. Esso è costituito da un’immagine, a cui l’Io partecipa, ma che allude a qualcosa di ignoto di cui si percepisce solo la presenza. È indubitabile che la scienza occidentale si è sviluppata dal distacco da una concezione unicista dell’universo, dominata dall’uso ingenuo della metafora. Ma è anche vero che l’epistemologia della psicologia del profondo è stata in grado di recuperare una visione del mondo scandalosamente diversa, più antica e allo stesso tempo avvenieristica, rispetto ai paradigmi della scienza attuale. La visione di un unus mundus immerso in una rete di simboli. Con tutti i rischi e gli inganni a cui questa modalità panpsichista può condurre, ma anche con le possibilità di sviluppo che alcuni autori, a partire da Jung, hanno già cominciato ad esplorare.