Rosaria Egidi (a cura di), Wittgenstein e il novecento. Tra filosofia e psicologia, Roma, Donzelli, 1997
Il filosofo”, scrive Wittgenstein “aspira a trovare la parola liberatrice, cioè la parola che ci consente infine di concepire ciò che fino ad ora ha gravato, inafferrabile, sulla nostra coscienza”. E se in luogo di “filosofo” dicessimo “psicoanalista”? Non aspira forse anche lo psicoanalista a pronunciare la parola liberatrice?
Wittgenstein si è in più d’una occasione occupato di psicoanalisi (che definiva mitologia dotata di molto potere), di Freud e, in particolare, di psicologia. Non mi risulta che in ambito psicoprofondo ci si sia confrontati a dovere con questo pensatore. A torto, ovviamente. Forse è sembrato ad alcuni che il filosofo austriaco abbia negato il profondo e mostrata una certa propensione per il comportamentismo.
Secondo quanto si afferma in uno dei contributi presenti nella raccolta, Wittgenstein ha rifiutato tanto il comportamentismo quanto il materialismo. Anthony Kenny, l’autore del contributo in questione (e al quale dobbiamo anche una monografia su Wittgenstein edita da Boringhieri nel 1984), avvicina piuttosto il pensare psicologico del filosofo austriaco ad Aristotele.
Se Wittgenstein rifiuta una metafisica di tipo spiritualista e fondazionalista, egli è secondo Kenny “uno dei più perfetti esponenti della metafisica dinamica, che è una componente della tradizione aristotelica”. Kenny riferisce un interrogativo che Wittgenstein pone nelle “Ricerche filosofiche” e che ci restituisce il sapore di questa ascendenza aristotelica (a dire il vero non soltanto di quella).
L’interrogativo suona: “come può un corpo avere un’anima?”, al che Kenny fa seguire l’esclamativo e finale commento “E’ sorprendente che un corpo che ha un’anima sembri più problematico di un’anima che ha un corpo!”. Wittgenstein del resto ha di che meravigliare un cultore di psicologia del profondo.
Un particolare interesse, tra i contributi presenti nella raccolta curata da Rosaria Egidi, rivestono l’articolo di Gargani che affronta la questione dell’intenzionalità (“Linguaggio e intenzionalità in Wittgenstein”), del citato Kenny (“Wittgenstein, mente e metafisica”), di Cesare Cozzo (“Criteri ed enunciati psicologici”), di Rudolf Haller sulla questione dell’Io (“L’egologia di Wittgenstein”), di Angela Ales Bello (“Wittgenstein e Husserl: psicologia e fenomenologia”).
Interessanti anche i contributi che affrontano Wittgenstein a partire dall’elettiva problematica del linguaggio. Qui forse il cultore di psicologia del profondo può sentirsi smarrito. Il modo wittgensteiniano di affrontare il linguaggio può insinuargli la fastidiosa ma salutare impressione di non poggiare su un terreno solido.
E, tuttavia, ritengo che se una rivoluzione è possibile (ancora) in ambito psicoprofondo, lo è in considerevole misura a partire dal linguaggio.
Mi sembra, inoltre, che il modo wittgensteiniano di pensare e di enunciare (nelle Ricerche così come nell’ultimo scritto sulla certezza e, ancora, in Zettel etc.) sia affine, tutto sommato, a quello sostanzialmente epocale dello psicoanalista.
Quando dico “sostanzialmente epocale”, mi riferisco al fatto che al fondo del dire dell’analista vi è un sospendere (epochè) e che è questo sospendere a reggere il gioco. E’ un po’ la metafora dello schweben, fichtiana e freudiana, dell’oscillare, ovvero dell’Oszillieren, come lo chiama Ferenczi.
Ritengo, in altri termini, che il modo di esprimersi di Wittgenstein sia epocalmente vicino alla conversazione analitica. Ciò può forse sembrare eccessivo a un cultore di Wittgenstein e a un filosofo del linguaggio. E, comunque, un tale eccesso comparativo, teso a rinvenire una cifra similpsicoanalitica nel dettato wittgensteiniano, può essere sostanziato a partire, ad esempio, da quanto il filosofo austriaco afferma in un luogo delle citate “Ricerche filosofiche”.
“Noi” vi afferma Wittgenstein “riportiamo le parole, dal loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano”. Si tratta qui, potremmo dire, di una passe dalla parola vuota, ma immaginariamente forte, sostanziale, a quella piena. La relazione analitica è il luogo dove la metafisica viene polverizzata nelle specificità. Il luogo della parola piena, della parola che diventa piena. E, allora, la frase di Wittgenstein trova il suo esatto equivalente psicoprofondo nella tecnica del “per esempio?” adottata da Ferenczi.
Quando un paziente viene in analisi forte, immaginariamente, delle sue parole vuote, tende a esprimersi per generalizzazioni e rifugge dalle constatazioni concrete. Il suo generalizzare equivale insomma, per usare gergo analitico, a una resistenza. E una resistenza ha per oggetto il lavoro analitico, il quale è anche comprensibile alla luce d’una radicale operazione di ridefinizione linguistica.
La resistenza è dunque tale da interrompere, bloccare questa operazione ridefinitoria. Si tratta allora di indurre il paziente a operare una traduzione di registro, di passare, cioè, come dice Ferenczi, in ottemperanza allo spirito della psicoanalisi, “dal generico allo specifico, al sempre più specializzato”. Così, al paziente che si esprime per generalizzazioni Ferenczi chiede “Zum Beispiel?”. La psicoanalisi, correttamente intesa, è dunque anche pratica elettiva di linguaggio e, anzi, meglio, del saper dire.