Vicenda Parmalat e dintorni

Obbligazioni Argentine, bond Cirio, vicenda Parmalat: sono i casi più recenti e clamorosi di dissesti finanziari i cui effetti si sono ripercossi pesantemente sui risparmiatori italiani; a questi possono aggiungersi altri casi di minore risonanza – ugualmente rivelatisi investimenti fallimentari per i risparmiatori – che hanno ancor di più ampliato il numero dei soggetti “ vittime”. Secondo alcuni circa 800.000.

Sui giornali economici e sulle pagine finanziarie dei quotidiani sono stati scritti fiumi d’inchiostro sulle cause e sugli aspetti tecnici delle vicende – definite in taluni casi vere e proprie truffe – nonché sui possibili rimedi. Sull’onda del clamore sollevatosi, i fatti di cui parliamo sono stati e sono tuttora oggetto di accesi dibattiti anche politici coinvolgendo i complessi rapporti tra banche, industrie e autorità preposte alla vigilanza.

Non è qui il caso di fare ulteriori valutazioni su fatti il cui sviluppo è ancora in corso: si vuole tentare di individuare una chiave di lettura del fenomeno dal punto di vista umano, anche in un ‘ottica dei meccanismi comportamentali della psicologia umana.

Il contesto storico sociale

Tralasciando vicende che sarebbero attinenti, ma tropo lontane nel tempo come lo scandalo della Banca Romana risalente alla fine dell’ottocento, non si può non partire dalla trasformazione della nostra società negli ultimi cinquant’anni .

Come molti hanno osservato, dopo la fine della guerra la liberazione non rappresentò solo un affrancamento da un regime politico, ma una liberazione di coscienze e di energie in uno spirito di rinascita personale e collettiva che attivò una generale voglia di benessere.

Come i non più giovani possono ricordare, negli anni ’50 per la prima volta cominciava ad affluire nelle tasche degli italiani , seppur in maniera esigua, denaro che, soddisfatti i bisogni primari e accantonato quello a scopo cautelativo, era alla ricerca di investimenti.

Una tendenza in realtà ancora assai limitata sul territorio e concentrata prevalentemente al Nord.. Propensione che trovava un limite nel fatto che se per la prima volta la gente cominciava a prendere in considerazione l’idea di un investimento, la categoria dell’investimento finanziario era però quasi sconosciuta.

Nei piccoli centri rurali del Paese la gente aveva ancora fresca la memoria del danaro che veniva nascosto sotto il mattone o sotto il materasso e c’era ancora diffidenza a depositare i soldi in banca. Il mondo tuttavia progrediva e gli Italiani rinunciarono a tenere i soldi in casa. Il primo mutamento di abitudini verso un comportamento moderno fu quello di depositarli alla Posta perché erano più al sicuro ; era come darli allo Stato e lo Stato, in una inconscia prosecuzione della cultura corporativa pareva offrire più garanzie.

Nella condizione emotiva che genera sempre il possesso (o la mancanza) di danaro, e in una situazione di generalizzata ignoranza, depositare i soldi alla Posta piuttosto che in Banca era rassicurante; la posta era vicino casa e non si entrava in contatto con un modo dove si parlava difficile. Gli impiegati degli uffici si esprimevano nella stessa lingua, o meglio nello stesso dialetto dei depositanti con cui condividevano le medesime esigenze.

Sempre in quegli anni, nelle grandi città, la situazione era differente per stratificazione sociale e per aree . A parte la categoria dei benestanti che dovunque e sempre avevano avuto confidenza con danaro, banche, investimenti o quant’altro, nel Centro Sud la nascente borghesia prevalentemente impiegatizia aveva una limitata possibilità di risparmio, che era depositato in banca sotto forma di libretto, libero o vincolato che fosse.

Il danaro comunque è sempre generatore di ansia, sia quando lo si possiede, sia in caso contrario. Nel primo per la naturale esigenza di mantenere il potere di fare ciò che esso consente, nel secondo perché si vuole acquisirlo.

Per parlare ancora brevemente delle trasformazioni in corso in quegli anni, ricordo che pochi allora avevano il conto corrente bancario. Quando si riceveva in pagamento uno cheque si storceva il naso, non era carta moneta fisicamente tangibile e quindi sicura; bisognava andare all’agenzia sulla quale era stato tratto e restare con la preoccupazione che magari non fosse coperto. La situazione individuava anche una differenziazione sociale. Chi pagava con cheque era considerato un diverso , talvolta uno snob, uno che voleva far rimarcare la propria superiorità economica. Al tempo stesso si invidiavano questi comportamenti perché si voleva farli propri.

E poi, per fortuna, nel giro di alcuni anni tutti o quasi tutti gli italiani ebbero il conto corrente bancario, soddisfatti non solo per la praticità dello strumento, ma anche perché in qualche modo si rendevano conto di avere fatto un salto di qualità sotto il profilo dei comportamenti economico-finanziari, cioè culturale.

Sul piano individuale come quello collettivo credo l’aspirazione ad una crescita culturale viene subito dopo quella del miglioramento economico. Avere più cultura è quasi come avere più danaro, appunto perché anche la cultura è potere. Qualcuno, per fortuna, la preferisce ai soldi

In questo quadro, dunque, sempre negli anni ’50 e principalmente nel Norditalia, due forze contrastanti agitavano i pensieri di chi disponeva di danaro: mantenerne il valore ( il risparmio aveva quasi una valenza sacrale); aumentarlo, se possibile.

Il deposito in banca però realizzava il primo obiettivo, ma poco il secondo, tenuto conto che i tassi di interesse difendevano si e no dall’erosione monetaria dovuta all’inflazione.

Era come se ci fosse bisogno di un qualcosa che coniugasse la sicurezza con il guadagno.

Il primo caso di truffa.

Fu così che, in linea con i dettami della scienza economica secondo ogni domanda crea un’offerta, verso la metà degli anni cinquanta nell’area Romagnola intorno a Imola, un signore ex bancario accreditato presso la curia locale, avendo svolto lavori presso vari Istituti religiosi, tale Giuffrè, s’inventò il mestiere di banchiere e cominciò a rastrellare danaro prevalentemente presso le classi contadine o della piccola imprenditoria, promettendo tassi d’interesse da capogiro.

I più coraggiosi, di fronte a quelle allettanti sollecitazioni si sentirono di affrontare il rischio, guardati con timore misto ad invidia dagli altri. C’era pur sempre, non ufficiale e indiretta, una sorta di garanzia data dal fatto che Giuffrè era o affermava di essere un uomo in qualche modo legato alla Chiesa. Lui diceva di essere un benefattore. E i risultati si vedevano: gli alti tassi di interesse all’inizio venivano effettivamente pagati: erano qualcosa di reale. I beneficiati parlavano con amici e parenti e il giro finanziario aumentava .

Come molti sanno, Giuffrè aveva messo su una classica catena di S. Antonio. Gli alti tassi di interesse non venivano pagati con i profitti degli investimenti che il Banchiere di Dio (cosi fu chiamato) affermava di realizzare in virtù delle sue capacità, ma con i soldi che entravano con i nuovi depositi. Ciò fino a quando in massa i depositanti che avevano cominciato a subodorare l’imbroglio chiesero di rientrare. Giuffrè si rivelò insolvente, lasciando il cerino in mano agli ultimi investitori.

Anche se quella descritta, pur nella sua realtà, potrebbe apparire la rappresentazione di un’Italia arcaica, ho ricordato questo episodio perché è stato il primo che ha dato la stura negli anni successivi a innumerevoli altri episodi di malversazioni, anche se più sofisticati, perché oramai la cultura finanziaria era aumentata ed erano stati creati presìdi a tutela.

Voglio sottolineare infine che se pur in presenza di una profonda trasformazione del contesto socio economico, è rimasto fertile l’umus che ha consentito la proliferazione di questi inganni ci deve essere una spiegazione più profonda perché questi fenomeni continuano a verificarsi.

I comportamenti con la crescita del paese

Procedendo con la rappresentazione dei fatti, tutti sappiamo che quelli intorno al 1960 furono gli anni del miracolo economico in cui per la prima volta le classi medio borghesi si affacciarono al mercato di Borsa.

Un istituto misterioso ai più dove però era il sentire collettivo – si potevano realizzare consistenti guadagni solo vendendo e comprando titoli al momento giusto. L’importante era saper esattamente quando compiere queste due operazioni.

L’importante era dunque sapere e ritorna così in ballo il fattore culturale

Se quando si investiva su quel mercato la finalità dichiarata era evidentemente quella del guadagno, di non minore valenza , più o meno conscia, era anche quella di ricavare un personale compiacimento dal fatto che il guadagno fosse il risultato della propria capacità di sapere bene operare: in altre parole della propria abilità.

Il capital gain riempiva la saccoccia e al tempo stesso rinforzava l’Ego

In quegli anni, i primi e meno smaliziati investitori in borsa presero anche sonore batoste e cominciarono a capire che non sempre c’è un rapporto diretto tra buon andamento di un’azienda e la sua quotazione. E’ però il caso di ricordare, per inciso, che nel parlare di Borsa si è al di fuori delle ipotesi di malversazioni cui si prima si faceva cenno. Se ne parla solo perché in molti casi un siffatto investimento si è rivelato un danno per il risparmiatore, comunque non addebitabile ad un comportamento di una persona o ad un gruppo di esse. La Borsa era pur sempre un mercato ufficiale governato dalle sue (poco comprensibili) regole e in tale ambito va pure ricordato che le categorie professionali o istituzionali (Banche e Agenti di cambio) che compravano o vendevano titoli per conto dei clienti, mentre si adoperavano a che il mercato di Borsa si sviluppasse non erano poi troppo preoccupate del suo andamento. Salisse o scendesse, gli intermediari guadagnavano sempre con le commissioni.

Ma queste erano le regole del gioco di borsa.

E – magia delle parole- il fatto che il mercato di borsa fosse definito anche gioco rendeva, per taluno, meno dolorose le perdite ; c’era sempre il modo di consolarsi pensando: è come se fossi andato al Casino di Montecarlo e mi è andata male. Quando si verificavano questi eventi, i timorosi, i prudenti si consolavano della loro mancanza di coraggio.

Non voglio però dare l’idea che quelli che investivano in Borsa fossero dei gonzi o degli avventurieri. A parte il fatto che c’erano anche quelli che o per capacità, fortuna o per il possesso di informazioni riservate facevano quattrini a palate, bisogna anche dire che forti erano le pressioni culturali che spingevano verso questo tipo di investimento

Articoli divulgativi sui giornali sottolineavano la virtuosità di un tale tipo di investimento: avrebbe alleggerito le imprese dal pesante giogo del finanziamento bancario con effetti positivi per tutta l’economia. Da parte di esperti o sedicenti tali, più o meno esplicitamente venivano rivolti inviti verso queste nuove, moderne forme d’investimento suscitando l’idea che affrontando il nuovo, percorrendo nuove strade si potesse arrivare a traguardi mai prima immaginati. Era una bella sollecitazione per chi si trovava in bilico tra la piatta sicurezza del deposito bancario e l’eccitazione provocata dal rischio di un forte guadagno.

Investire in borsa era cosa buona e giusta, un fatto di elevazione culturale anche in questo caso. Complici anche i film ambientati negli Stati Uniti, paese finanziariamente evoluto, dove l’investimento azionario era di casa. Fu così che il risparmiatore evoluto si abituò a convivere con un sentimento ambivalente oscillante tra il desiderio fare quattrini in poco tempo e senza lavorare, e la paura di rischiare quanto aveva accumulato in anni di vero lavoro.

In questo perdurante oscillare di sentimenti dato dal desiderio di percorrere strade alternative, agli inizi degli anni’80, mentre faticosamente cercava di farsi strada una legislazione del settore che offrisse un maggior grado di trasparenza, che facesse cioè capire dove si andavano a mettere i propri soldi, i risparmiatori avevano iniziato ad investire in titoli atipici, subendo nella maggior parte dei casi pesanti perdite. Cosa si era verificato nei fatti? Poiché in quegli anni non facili per le turbolenze politiche legate al terrorismo i rendimenti sperati da un investimento in Borsa non apparivano troppo elevati, taluni, per i quali il desiderio di rischio poteva sconfinare nel desiderio inconscio di annullamento del proprio potere, attratti da mirabolanti sollecitazioni di guadagno, investivano in prodotti finanziari ancora più pericolosi.

Questo durò per alcuni anni fino a quando, in una situazione completamente mutata anche perché era stata introdotta la Legge sui fondi comuni di investimento e una legislazione a difesa del risparmio che offriva, sulla carta, maggiori garanzie, si arrivò al boom di borsa del 1985/1986, quando l’investimento in azioni divenne un fenomeno di massa.

In quel periodo di grande euforia nuove fasce sociali anche di cultura economica medio bassa si erano lanciate nell’avventura della Borsa. Senza strumenti di conoscenza per poter autonomamente operare, i neofiti della Borsa in genere delegavano ad altri la scelta degli acquisti, facendosi più o meno bene consigliare da sedicenti esperti.

In questo stato di orgasmo collettivo era frequente il diffondersi, come un passa parola tra iniziati, delle dritte giuste. Alcuni poi che si ritenevano molto furbi, con tipica fantasia italica, stazionavano occhiuti nelle agenzie delle banche davanti ai borsini per spiare le mosse degli esperti (magari fruivano di informazioni riservate ) che, nel fare trading di azioni, guadagnavano sempre. Si accodavano a quelli ripetendone acquisti e vendite. Finché il gioco funzionava. D’altra parte la Borsa tirava ed in effetti guadagnarono un po’ tutti.

Un aspetto di non secondario rilievo a conferma di quel che osservavo prima sul rafforzamento dell’ego, era il compiacimento del successo che doveva essere ostentato: alcuni dicevano che con i guadagni ottenuti si erano comprati la macchina nuova, altri addirittura la villa al mare.

Nell’ansia del guadagno la gente chiedeva consigli anche a persone senza scrupoli affidando loro il proprio patrimonio (cioè il proprio potere), con la conseguenza che, appunto perché era difficile penetrare nel mondo della finanza che rispondeva a logiche oscure, se i risultati erano all’inizio buoni si consolidava la tendenza alla delega ad altri, rinunciando alla propria autonomia di giudizio e al tentativo di acquisire una propria capacità di valutazione.

La seconda conseguenza fu che, in questa situazione, quando si avvicinava un esperto di borsa o presunto tale non gli si chiedeva quale fosse un titolo valido su cui investire e perché, ma se avesse una buona dritta da dargli per un investimento in Borsa da “mordi e fuggi”. Veniva così snaturato lo spirito con il quale si sarebbe dovuto accedere al mercato azionario.

Duplicità dell’animo umano e del suo comportamento: si aveva un forte desiderio di entrare in un mondo attraente in quanto sconosciuto e misterioso e , al tempo stesso, si voleva subito scappare ricavatone il vantaggio: come un coito frettoloso, quasi rubato!

Il Mercato si evolve

Ma avviciniamoci ai nostri giorni. Dopo il 1990 vengono introdotte nuove leggi sulle negoziazioni in Borsa, si verifica il terremoto di Tangentopoli, si istaura la seconda Repubblica (o il secondo atto della prima secondo taluni).

Per l’elevato debito pubblico restano ancora alti i tassi di interesse sui titoli di Stato e la gran massa delle famiglie investe prevalentemente in essi. Ciò fino a quando venendo meno ogni convenienza per l’equivalenza tra inflazione e rendimenti, la massa dei risparmiatori si mette, giustamente, alla ricerca di investimenti più redditizi in un mercato finanziario che si è profondamente modificato e complicato.

In che senso? Nel senso che da un lato i risparmiatori si sono fatti più attenti e prima di investire in attività finanziarie ne valutano bene i rischi. In ciò sono, o dovrebbero essere aiutati dalle nuove SIM (Società di intermediazioni mobiliare) e dai Promotori finanziari che, per certi aspetti si comportano quasi da consulenti e iniziano a proporre innovative forme di risparmio o investimento come i piani di accumulo o altri oggetti misteriosi. I più spregiudicati subissano il cliente di proposte talmente complicate che , comprensibilmente, anche quello colto, ma non di finanza, non poteva capire fino in fondo dove si andava a cacciare e per non fare brutta figura finiva per accettare qualsiasi proposta. Dall’altro, sul fronte dell’offerta, le Imprese alla ricerca di danaro , per una serie di complesse ragioni collegabili a utilità finanziarie, in massa iniziano in maniera consistente ad approvvigionarsi di danaro fresco mediante lo strumento delle emissioni di prestiti obbligazionari

Non bisogna essere troppo esperti per sapere che l’investimento in azioni è di rischio, mentre quello in obbligazioni è di debito. Investendo in queste ultime non si rischia (o non si dovrebbe rischiare) tutto il capitale, il proprio potere e si realizza comunque un rendimento tale da mantenere invariata la capacità d’acquisto dei propri risparmi. Il bacino d’utenza, dunque, è piuttosto ampio e la gente inizia a investire in maniera massiccia in obbligazioni.

Com’è noto i mutamenti della società determinano mutamenti delle leggi per cui, nel 1998, veniva emanata una legge dal nome roboante, il Testo unico della finanza, (altrimenti chiamata legge Draghi) naturalmente sconosciuta ai più nei suoi contenuti tecnico – legislativi, ma che nell’accezione corrente del suo significato e nelle sue finalità andava a rappresentare un aumento delle garanzie per i risparmiatori. Più o meno in quel periodo inoltre, in linea col processo di armonizzazione della legislazione nazionale a quella europea, veniva introdotto in Italia il Nuovo Mercato, prevalentemente formato da titoli di società tecnologiche.

Poiché il deposito del danaro sul conto corrente iniziava a non dare più un rendimento effettivo, ancora una volta il risparmiatore/ investitore si trovava di fronte al dilemma di affrontare il rischio di rivolgersi a innovative forme di investimento. Tecnicamente è improprio assimilare la tipologia dell’investimento in azioni sul Nuovo mercato a quella dell’investimento in obbligazioni, ma ambedue le tipologie, che, in molti casi, si sono rivelate essere investimenti sbagliati, vengono accomunate solo sotto il profilo del risultato finale.

Conclusioni

Siamo ai nostri giorni. Tralasciando la considerazione oggettiva che le obbligazioni Argentine e Cirio nella maggior parte dei casi erano titoli non quotati e quindi usufruivano di una minore tutela (ma questo non lo diceva nessuno ai sottoscrittori), e esimendoci da dare un giudizio sulla vicenda Parmalat al vaglio della Magistratura (la stampa ne ha comunque parlato abbastanza), si diceva prima che ci deve essere una spiegazione per cui questi fenomeni di inganni continuano a verificarsi.

Ebbene qui il discorso diventa complicato perché coinvolge aspetti legislativo/ istituzionali, aspetti su come questi temi finanziari vengono trattati dai media, e aspetti connessi a inclinazioni e comportamenti personali.

Sul discorso legislativo c’è poco da dire essendo un’ovvietà affermare che le leggi vanno cambiate nella direzione di una maggiore tutela per il risparmiatore, ma di ciò si occupano i tecnici e i politici e speriamo si vada, come sembra, in una giusta direzione.

Per gli aspetti attinenti alle modalità della comunicazione, premesso che tutta la cultura europea si va integrando nell’etica del danaro di stampo anglosassone e in particolare statunitense (ma non voglio dare a questa affermazione una connotazione negativa), si deve al tempo stesso dire che forse esiste anche una qualche responsabilità di una non sufficiente e adeguata informazione da parte della cosiddetta carta stampata e della comunicazione radiotelevisiva.

Questi due Mezzi sono da considerare a tutti gli effetti Poteri. Il potere però (senza moralismi) è anche potere di far del bene e l’azione divulgativa svolta dai giornali letti dall’ottanta per cento degli italiani e dalle trasmissioni televisive più viste, non ha a mio giudizio efficacemente operato per aprire gli occhi alla gente. Una divulgazione in tal senso, avrebbe viceversa anche potuto rappresentare un business in termini di indici d’ascolto o in termini di acquisti di copie per rientri pubblicitari .

Anche se comprendo sia difficile immaginare un sistema televisivo, bene o male controllato dal potere politico, che in un periodo di tendenza collettiva, vada a dire state attenti a investire nel mercato finanziario. O un giornalista che non si adegui alle direttive dell’editore che non voglia andare contro corrente o che può essere legato agli interessi degli intermediari bancari.

Ho anche l’impressione che , oltre queste considerazioni, vi sia in generale una sorta di inconscia censura a dover andare a mettere in guardia su scelte private, direi molto intime: il rapporto che ogni persona ha col danaro.

Brevemente qualcosa sugli aspetti di tutela Istituzionale.

Le autorità di controllo esistevano: la Banca d’Italia e la Consob. Ma per la responsabilità degli eventi citati all’inizio del discorso ne sono uscite indenni o quasi sul piano dei doveri ai quali dovevano attenersi. La Banca d’Italia deve badare essenzialmente alla stabilità del Sistema e in effetti lo fa. Nessuna crisi bancaria da 1936 ad oggi si è ripercossa sui depositanti. Se poi una banca o una banchetta hanno favorito in qualche modo la vendita di prodotti finanziari a rischio questa è, al limite, responsabilità del singolo funzionario che ha voluto per tornaconto personale o in taluni casi per ignoranza favorire certi investimenti per ingraziarsi i superiori.

E per la Consob il discorso è identico: cosa deve fare essenzialmente? Garantire la trasparenza dell’informazione a tutela del risparmiatore. E lo fa egregiamente nel rispetto delle leggi vigenti. Nei prospetti informativi che possono essere consultati dagli investitori ci sono anche le avvertenze e i profili di criticità. Ma chi li capisce se non è un esperto di finanza.?

Qual è l’input? Massimo rispetto delle leggi vigenti e azioni tergaprotettive per l’Istituzione e la singola persona.

Mi viene in mente una differenza: quella tra forma e sostanza; oppure la storia che l’operazione è perfettamente riuscita anche se il paziente è morto.

Si obietta: ma queste cose avvengono anche in altri paesi, per esempio negli Stati Uniti. E’ vero. Ma lì nel giro di pochi mesi hanno varato una legislazione a maglie strettissime, malgrado sia la patria del capitalismo.

In questo contesto non resta che analizzare il comportamento della persona.

In una sintesi finale voglio osservare che se da un lato è sacrosanto il diritto – dovere di ogni individuo di voler conservare ed aumentare il proprio risparmio essendo naturale voler mantenere e aumentare il proprio potere, ciascuno dovrebbe fare un esame di coscienza per capire quale vero obiettivo vuole raggiungere con la propria attività finanziaria. Non v’è dubbio che molto dipende dalla capacità di conoscenza dei meccanismi sofisticati di questi investimenti complessi o dal desiderio di volerli penetrare per una umana innata predisposizione, in un onorevole tentativo di assicurare a sé stessi successi materiali e morali. Ma in mancanza di queste conoscenze o di queste sensibilità avventurasi in questo mondo opaco è estremamente pericoloso.

Il mondo della finanza ha qualcosa in comune col mondo psichico individuale: un guazzabuglio di aspetti in chiaro e altri in ombra, dove le forze creative si scontrano con le forze distruttive.

Non ci si può avventurare in questo mondo per compensare le proprie insicurezze abbandonandosi alla fantasia di grandi guadagni che ci possono far recuperare sul piano materiale quel che sappiamo mancarci sul piano interiore. Caso mai il percorso da fare è inverso. Una cosa è certa: se in caso di incertezze non ci si affida alle persone giuste può restare l’amaro in bocca.

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Roberto Cantatrione