in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 9, Fioriti, Roma, 2009
Chi conosce Franz Kafka sa che alla sua morte, sopraggiunta nel 1924 dopo anni di angoscianti sofferenze, egli non abbia lasciato eredi. Sarebbe il caso di dire che egli non abbia potuto lasciare eredi, a fronte di un desiderio di matrimonio e di famiglia che, sebbene costellato di ambiguità, lo aveva sempre accompagnato.
La nozione di impossibilità la si ritrova – per ammissione dello stesso scrittore – nel rapporto col padre, tematica cardine della vita e dell’opera dello scrittore praghese, un dilemma che mai trovò pace e che fu suo compagno fino al letto di morte.
La vita di Kafka fu martoriata dal senso di colpa: il senso di colpa di esistere, d’esser nati fatti di una natura troppo distante da quella posseduta da un padre del tutto diverso nel temperamento, nell’indole, financo nella fisicità. Un padre castrante, costituzionalmente votato a enfatizzare la pochezza del figlio, a esacerbare il suo senso d’inadeguatezza.
Kafka pagò la grazia d’esser nato con lo scotto dell’autocommiserazione, sentimento che offrì in sacrificio al padre, piangendo di giorno in giorno la rabbia che provava verso un genitore che avrebbe voluto immensamente amare e da cui avrebbe soltanto voluto ricevere il diritto di esistere così come egli era.
L’inibizione e la timorosità non impedirono però a Kafka di amare intensamente, fino anche ad arrivare più di una volta alla soglia del matrimonio, per poi non portare mai a termine il fine.
Negli ultimi anni della sua vita Kafka conobbe una traduttrice ceca con la quale iniziò un lungo carteggio che scandì le tappe di un amore intenso – malgrado quasi platonico – che così come nacque dovette finire, ma che ciò nonostante perdurò alla morte dello scrittore.
Milena Jesenská viveva una realtà interiore molto simile a quella di Kafka, pur tuttavia esprimendo una trama di vita complementare. Anche Milena crebbe con un padre col quale lottò tutta la vita per essere riconosciuta, ma a differenza di Kafka non mostrò mai riverenza per questi, conducendo un’esistenza dove ogni suo moto, ogni sua scelta – prima fra tutte quella delle relazioni intrattenute – appariva in aperta ostilità col genitore. Gli scontri padre-figlia furono sempre accesi, fino al punto da condurre il padre di Milena al ricovero della figlia in un istituto psichiatrico.
La già citata tematica cruciale del matrimonio dice molto riguardo la differenza tra le vite dei due amanti: Kafka non si decise mai per il matrimonio, Milena si sposò tre volte, e dal principio sino alla fine del rapporto con Kafka rimase sposata al suo primo marito.
Le dinamiche individuali e di coppia tuttavia se guardate profondamente non possono far stupire più di tanto di tale complementarietà: in questa, come in molte altre relazioni, l’uno ha bisogno proprio di quell’altro, di quel tipo di Altro, per portare avanti la propria costante relazionale e il riflesso del proprio Sé.
Kafka amò Milena intensamente, e amandola amò se stesso: l’investimento per una donna così distante, non solo fisicamente ma anche per le insicurezze sentimentali che evocava, venne colmato dalle risonanze che egli vedeva rispecchiarsi in lei. Milena era una donna profonda, in grado di comprendere a fondo l’animo dello scrittore, quell’animo bistrattato che costituiva un’onta per se stesso. Entrambi condividevano lo stesso linguaggio, vivevano delle stesse tribolazioni.
Se i diari di Kafka ci sono giunti è merito di questa relazione: fu forse questo il dono maggiore che Kafka fece a Milena, la rese custode dei suoi diari, presagendo probabilmente la fine della loro relazione e la fine sua personale, che irruente gli palpava addosso attraverso un organismo che faticava sempre più a vivere, di riflesso a un animo che forse non aveva mai principiato a farlo.
E la fine della relazione arrivò, quando Kafka si rese conto che Milena non avrebbe lasciato il marito e che la distanza che li divideva, geograficamente e esistenzialmente, permetteva solo di mantenere la stima reciproca, ma interdiceva l’amore.
Milena accettò la scelta dello scrittore e tra le righe di un articolo che stese poco dopo la rottura della loro relazione consacrò la fine del loro rapporto e il valore che ne avrebbe sempre serbato dentro di sé:
“La promessa più solenne che un uomo e una donna possono scambiarsi è la frase che si dice scherzando ai bambini: <<Non ti do via>>. Non è forse molto di più che <<Ti amerò per tutta la vita>> o <<Ti sarò eternamente fedele>>? Non ti do via. In questa frase è racchiuso tutto: dignità, sincerità, intimità, fedeltà, senso di reciproca appartenenza, determinazione, amicizia. Quant’è immensa, una simile promessa, rispetto alla microscopica felicità!”
E Milena non diede mai via Kafka, come del resto non diede mai via nulla della sua esistenza, nonostante il suo modo di interpretarla desse all’esterno un’idea di forza che in maniera fuorviante spingeva a credere che il fascino del vivere le escludeva la possibilità di dare un valore vero a quanto aveva vissuto: il rapporto con lo scrittore, rimase sempre dentro di lei, malgrado lo scorrere degli anni.