Nick Chmiel, Tecnologia e lavoro, 1998, Bologna, Il Mulino, Universale Paperbacks, 2000
Non è il libro più entusiasmante che ho letto sull’argomento. E’ un testo ricco ma anche prolisso, a volte denso fino all’oscurità, a volte banale e abbondante di microconcetti che non risultano essere né di estremo chiarimento né di straordinaria innovazione. Tecnologia e lavoro, di Nick Chmiel è tuttavia un libro recente e abbastanza riassuntivo dei temi d’attualità che riguardano il lavoro.
Ci convince soprattutto la tesi iniziale delle prime pagine, che però non trova adeguato sviluppo nelle successive, riguardante l’assoluta necessità della nascita di nuovi leader capaci di uno stile di conduzione dell’azienda in grado di conciliare la odierna rappresentazione sociale del lavoro con la competitività sul mercato. La attuale rappresentazione sociale del lavoro prevede infatti che le persone non abbiano solo ricavi monetari dalla loro attività ma che usufruiscano anche di esperienze significative di autonomia e di sviluppo personale all’interno del contesto lavorativo. I nuovi leader devono sapere ad un tempo superare gli stili di comando burocratico e autoritario del passato, essere capaci di coinvolgere personalmente la classe lavorativa ed insieme ottenere profitto.
Per far questo è necessaria una buona conoscenza della psicologia del lavoro, disciplina che si articola in tre aree principali: la psicologia del lavoro vera e propria, la psicologia delle organizzazioni e la psicologia delle risorse umane.
Aveva solo una parte di ragione Taylor, il padre dello Scientific Management, quando all’inizio del secolo scorso cercava di dimostrare che l’efficienza del lavoro deriva dalla sua scomposizione in reparti e dall’ottimizzazione della redditività di ciascun reparto. Ancora adesso la job analysis costituisce uno dei punti fermi nell’identificare le responsabilità e i compiti che compongono un lavoro. Tuttavia accanto al processo di reificazione del lavoro sono sorte, rivoluzionarie, le nuove esigenze di benessere per il lavoratore. In particolare si è posta attenzione alla variabilità delle abilità richieste, cioè alla gamma delle varie competenze di quello specifico compito; all’identità del compito, cioè alla sua delimitazione precisa, alla significatività del compito per il lavoratore; all’autonomia decisionale richiesta al lavoratore e al feedback del compito, cioè al commento sui risultati ottenuti. In pratica alla richiesta cognitiva di problem solving si è affiancato il criterio della soddisfazione lavorativa, che la ricerca empirica ha dimostrato essere in relazione diretta con il benessere generale dell’individuo. Soddisfazione intrinseca al lavoro, secondo le 5 aree precedentemente descritte (autonomia, abilità, varietà…) e soddisfazione estrinseca (salario, condizioni lavorative, sicurezza, stabilità del posto…).
Proprio a causa dell’erompere delle esigenze del lavoratore nel campo del lavoro, una delle caratteristiche del leader deve essere la sua abilità nella gestione del personale. Importanti sono i metodi di selezione e di valutazione del personale, i questionari, le check e le rating list e gli altri metodi più o meno sofisticati.
Ma ancora più importante sarebbe la costruzione di una teoria del lavoro in grado di identificare le profonde motivazioni che coinvolgono l’individuo nel suo lavoro. Troppo semplice la teoria di Taylor, che con il solito cinismo individua nel denaro l’unico mezzo di sprono. Più articolata, ma ancora troppo accademica è la teoria di Herzberg dei due fattori: quelli motivanti, relativi al contenuto del lavoro e i fattori igienici, che riguardano le caratteristiche estrinseche del lavoro. Molto citata e sfruttata nella psicologia del lavoro è la teoria dei bisogni di Maslow, nata in un contesto clinico. Maslow, come noto, individua 5 categorie di bisogni che l’individuo è chiamato a soddisfare in ordine gerarchico: i bisogni fisiologici, i bisogni di sicurezza, quelli di affiliazione, quelli riguardanti la stima di sé e, i più elevati, quelli di autorealizzazione. Ciascuna classe di bisogni, secondo Maslow, non può essere appagata se prima non è stata soddisfatta la classe precedente. Sulla stessa linea di Maslow si pone la teoria di McClelland, che mi pare nella sua essenzialità abbastanza condivisibile. McClelland individua tre bisogni centrali in ciascun individuo (così come in ciascun popolo): il bisogno di riuscita, legato alla necessità che ogni lavoro sia svolto adeguatamente e con efficacia. Il bisogno di potere, che riguarda l’esigenza, più sentita in alcuni e meno in altri, di controllare o perlomeno esercitare la propria influenza all’esterno. E il bisogno di affiliazione, cioè la necessità dell’individuo di essere accettato e apprezzato dai colleghi e dal contesto in cui esercita.
Quasi matematici diventano invece i modelli di motivazione più recenti di scelta cognitiva, come il modello di Vroom, secondo il quale per motivarsi (M) in qualcosa occorre cognitivamente attribuire un valore (V) alle ricompense (di qualsiasi natura) di una prestazione. E poi moltiplicare tale valore per la relazione percepita fra prestazione e ricompensa (I) e per la probabilità (E) che lo sforzo nella prestazione sia seguito dalla ricompensa. Insomma: M=VxIxE. Chiaro, no?
Fortunatamente meno ingegneristici sono gli approcci detti di autoregolazione, quali la teoria dell’apprendimento sociale di Bandura e quella del goal setting di Locke. In pratica, secondo gli autori, due sono le condizioni necessarie affinchè gli obiettivi proposti da un’azienda possano svolgere la loro funzione attivante: che i lavoratori sappiano che cosa significa un certo obiettivo e che abbiano dato il loro consenso positivo circa la volontà di impegnarsi per quell’obiettivo. Da qui l’obbligo per il leader di possedere fra le sue doti una vision d’insieme delle mete da raggiungere, una stabile fiducia di base e soprattutto una grande capacità comunicativa.
Gli ultimi capitoli del libro sono dedicati alla qualifica del lavoro mentale, alla sicurezza lavorativa nei sistemi tecnologici complessi e alle caratteristiche del lavoro di team.