in Giornale Storico del Centro Studi Psicologia e Letteratura, 9, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2009.
Se pensiamo al modo in cui facciamo esperienza all’interno del setting analitico non possiamo fare a meno di gettare uno sguardo al mistero delle “condizioni iniziali” intese sia come l’insieme di aspetti che hanno prodotto la genesi di tale dispositivo terapeutico (noto come spazio/tempo in cui avviene l’incontro tra paziente e analista, secondo accordi precisi e costanti nel tempo), sia come le qualità strutturanti ogni singolo rapporto.
Michael Conforti nel suo libro1 affronta questo argomento, offrendo al lettore gli esiti di una ricerca complessa, e ancora in divenire, sul modo in cui il campo archetipico è in grado di influenzare l’andamento e la conclusione del rapporto paziente/analista.
Contrariamente alla tendenza attuale della prassi analitica junghiana, che tende a mettere in risalto il rapporto soggettivo del paziente nei confronti dell’immagine, lo studioso propone di rivolgersi al modo in cui C. G. Jung stesso lavorava con le immagini, interpretandole come appartenenti non solo al vissuto del paziente in questione, bensì ad una dimensione archetipica preesistente ed eterna.
Lo psicoanalista ha così iniziato a cercare conferme sull’esistenza del campo archetipico, generatore delle dinamiche di influenza reciproca tra paziente e psicoterapeuta, facendosi guidare dalle fondamentali intuizioni di Jung in merito all’inconscio psicoide, ovvero quella zona particolare dell’esperienza vitale in cui psiche e materia si appartengono esprimendosi secondo un medesimo ordine.
In accordo con la visione olistica del maestro di Zurigo, Conforti non si è limitato ad indagare la letteratura psicoanalitica a disposizione, ma si è rivolto alle ultime scoperte nei campi della biofisica, della biologia evolutiva, della matematica e della fisica.
Egli, in particolare, ha rinvenuto nella teoria del caos (che si occupa della descrizione e della spiegazione dei fenomeni imprevedibili che avvengono nei sistemi naturali) molti aspetti che sembrerebbero confermare l’esistenza del campo archetipico, il quale produce sia le forme che i contenuti dell’esperienza stessa.
Il caos viene descritto non come uno stato di disordine ma come un tipo di casualità naturale che si manifesta in alcuni sistemi biologici e fisici.
I sistemi biologici complessi mostrano una forte dipendenza del sistema dalle “condizioni iniziali”, infatti alla minima variazione della caratteristiche originarie si verrà a creare, a lungo termine, un comportamento assolutamente non prevedibile, il cosiddetto Butterfly effect (o effetto farfalla così chiamato perché si immagina che un semplice movimento di molecole d’aria, generato dal battito d’ali di una farfalla, possa causare una catena di movimenti di altre molecole fino all’uragano).
Si parla allora di caos deterministico per sottolineare come l’evoluzione di un sistema possa farsi imprevedibile anche a partire da leggi di base ordinate o addirittura deterministiche, quindi ciò che sembra casuale può essere sub-strutturalmente intenzionale.
Mentre lo stato di equilibrio fa sì che un sistema tenda ad un comportamento ripetitivo e meno aperto a reagire al cambiamento, il caos si adatta alle alterazioni e può generare una regressione di stato oppure un adattamento di livello superiore, un elemento che tuttavia non è facilmente prevedibile. Lo stesso Jung credeva che la condizione psicotica (stato caotico) fosse un modo per riportare la mente alla sua normale flessibilità2.
Ogni sistema dinamico complesso si compone di due parti: le caratteristiche del suo stato -ovvero le informazioni essenziali sul sistema – e la dinamica – una regola che descrive lo stato nel tempo.
Ciascuna dinamica tende prima o poi a stabilizzarsi grazie alla presenza di un attrattore: il setting psicoanalitico funzionerebbe, secondo Conforti, come attrattore magnetico, dotato di una intenzionalità implicita, relativamente al complesso che coinvolge entrambi gli attori della diade analitica, il cui obiettivo è condurre il percorso della psicoterapia verso un livello di integrazione maggiore.
Un altro aspetto che è stato già oggetto di indagine da parte di alcuni analisti junghiani (Liotta, 1993; Zanasi, 2001)3 e che può confermare l’idea di Conforti del campo archetipico è che ogni attrattore corrisponde ad un frattale, termine coniato da B. Mandelbrot (1975) per indicare la presenza in un sistema complesso di un oggetto geometrico che si ripete nella sua struttura allo stesso modo su scale diverse, ovvero che non cambia aspetto anche se visto con una lente d’ingrandimento; questa caratteristica è spesso chiamata auto-similarità.
Lo stesso Mandelbrot dichiarò “Si ritiene che in qualche modo i frattali abbiano delle corrispondenze con la struttura della mente umana, è per questo che la gente li trova così familiari. Questa familiarità è ancora un mistero e più si approfondisce l’argomento più il mistero aumenta”4.
La natura dei frattali presenta molte caratteristiche dell’archetipo: dotato di una notevole semplicità tematica riesce tuttavia a generare una inesauribile produzione di elementi simbolici, immaginali, onirici, mitologici, etc.
Il campo archetipico quindi, proprio per la sua natura frattale, funzionerebbe come attrattore caotico del sistema terapeutico costituito da: 1) dinamiche interne del paziente; 2) dinamiche interne e interpretazioni del terapeuta; 3) interazioni terapeuta/paziente.
Il sistema terapeutico, influenzato dal campo archetipico, tende così a passare da uno stato di equilibrio a uno stato caotico (e viceversa) col fine di produrre un adattamento di livello superiore (verso ciò l’individuazione).
L’autore del libro ha messo in evidenza, attraverso una serie di resoconti delle prime sedute, che soprattutto nei primi incontri (le condizioni iniziali) il paziente tenderebbe a ricreare gli aspetti con cui si sono svolte le esperienze traumatiche fondamentali, comunicando queste ultime attraverso i sogni, le comunicazioni derivate e il comportamento verbale/non verbale; tuttavia lo svolgimento del processo psicoterapico non è solo in funzione delle condizioni iniziali (passato), ma dipende anche dal futuro costruito dall’interazione terapeutica.
Egli infatti dimostra che se l’analista riesce a connettersi con la dimensione del campo archetipico considerando il materiale prodotto dal paziente non solo come un elemento della psiche soggettiva, ma come uno strumento (condiviso dalla diade analitica) per correggere e approfondire le dinamiche della terapia, in direzione di una maggiore capacità di adattamento alle perturbazioni esistenziali, allora gli esiti traumatici potranno essere ascoltati e rielaborati creativamente.
Il libro di Conforti ci stimola a ricercare, nella dimensione in cui materia e psiche si uniscono, la presenza di nuovi strumenti per interpretare, in maniera più complessa ed efficace, il naturale processo di trasformazione insito nell’incontro analitico.