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in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 2, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2006
La prima volta che sentii parlare di Aldo Carotenuto fu a metà degli anni settanta, da un suo paziente che poi divenne a sua volta uno psicoanalista, una costante nella storia della psicoanalisi. Allora ne parlava in maniera entusiasta ed il suo entusiasmo mi spinse a leggere alcuni dei suoi primi libri come Senso e contenuto della psicologia analitica, che io considero, con La colomba di Kant, l’alfa e l’omega del suo punto di vista sulla terapia e soprattutto sul transfert. Uno degli assunti teorici che Carotenuto metteva al primo posto nella sua pratica analitica era che non esistono assunti teorici e che le molteplicità di tecniche che da essi derivano dipendono unicamente dal tipo di personalità dell’analista, teorie e tecniche servono per dare sicurezza al terapeuta stesso che ha bisogno di un punto di riferimento, ma nella pratica clinica, nella relazione col paziente, non hanno nessun valore terapeutico. Ogni analista ha la sua tecnica che a sua volta varia a seconda del paziente con cui lavora, quello che invece è veramente importante, ma che non sempre avviene, è il fatto che dovrebbe mettere se stesso in gioco secondo il detto alchemico Ars requirit totum hominem.
Quando decisi di telefonargli era già abbastanza conosciuto ed io temevo di non essere accettato o di dover mettermi in lista d’attesa. Non fu così e dopo pochi giorni mi trovavo seduto nel suo studio di via Severano e iniziavo un’analisi che sarebbe continuata per molti anni, una di quelle che sono definite interminabili. La sua durata è stata un aspetto negativo della terapia ed è dipesa dalla collusione che si è instaurata tra noi, come diceva Jung: “Quasi tutti i casi che esigono un trattamento prolungato gravitano intorno al fenomeno del transfert”.
Poco tempo dopo l’inizio dell’analisi, con mia somma meraviglia, un giorno mi ricevette, pallido in viso, in camera sdraiato nel suo letto. Vedendo il mio stupore e la mia apprensione mi disse subito che non dovevo preoccuparmi perché aveva avuto solo un’appendicite. Più tardi seppi che era stato operato in Inghilterra per un problema cardiaco che aveva fin da piccolo. Quell’episodio mi commosse molto e mi gratificò, ma rimasi anche un po’ preoccupato, pensai che forse dovevo stare molto male per essere ricevuto da lui in quelle condizioni. In quegli incontri iniziali, quando ancora non lo conoscevo bene, cercavo di inquadrare le nostre sedute nelle cosiddette “regole del setting”, ma spesso non ci riuscivo, per Carotenuto il rapporto umano era più importante del metodo e per questo cominciai a stimarlo di più.
Passati i primi tempi il mio transfert si andava rafforzando e presi a seguirlo nelle sue conferenze in giro per l’Italia tenendomi sempre a distanza, la sua personalità era diventata qualcosa di “numinoso” che mi attirava ma anche mi spaventava. Cercavo di sedurlo ma nello stesso tempo resistevo con tutte le mie forze perché questo non avvenisse. Una volta, in uno di questi convegni, mi vide e mi salutò cercando di avvicinarmi, ma io fuggii spaventato, le regole dell’analisi pendevano su di me come un Super-io castrante e punitivo, una spada di Damocle che mi avrebbe ferito se fossero state infrante. Anche quell’episodio, nonostante la mia fuga, mi lasciò molto gratificato. Carotenuto, almeno con me, non sempre seguiva queste regole, andava a braccio mettendosi in discussione in prima persona e rischiando in questo modo di più. Credo che solo così si possano avere dei risultati positivi, il distacco dal paziente non cura, la troppa distanza è sentita come freddezza. Non bisogna però cadere nell’eccesso opposto, si dovrebbe restare tra Scilla a Cariddi, ma è meglio un rapporto troppo empatico che un distacco eccessivo. Sicuramente quest’ultimo non porterà ad un successo nella terapia, come del resto dimostrano ampiamente molti casi dei primi analisti, anche se due di essi in particolare dimostrano proprio il contrario e sono diventati emblematici per l’eccesso di coinvolgimento, quello di Breuer con Anna O. e di Jung con Sabina Spielrein portato alle stampe proprio da Carotenuto. Certo ogni paziente è a se stante e non si può stabilire a tavolino come un analista deve comportarsi, è solo il campo psicologico che si stabilisce tra le due personalità che susciterà in lui la sua modalità di comportamento, molto di meno la teoria di riferimento. Questo aspetto importante della terapia Carotenuto lo aveva capito bene e in un suo testo fondamentale sui problemi del transfert e del controtransfert affermava: “Per simbiosi terapeutica io intendo lo sforzo della coppia analitica per la costruzione di un modello e di uno strumento che può funzionare esclusivamente in quella particolarissima situazione, e mi sembra del tutto naturale che ogni analista dia vita a un suo cliché personale che lo contraddistingue da tutti gli altri, perché le modalità con le quali ci si avvicina alla sofferenza psichica rispecchiano sostanzialmente l’analista come individuo. Egli non si comporta come uno scienziato ma come un artista per il quale la componente emotiva è il vero strumento di lavoro”. Agli inizi della storia della psicoanalisi Freud era partito da presupposti legati al positivismo e alla scienza della natura, la stessa parola analisi era stata ripresa dalla chimica e considerava il paziente come un insieme di elementi che bisognava individuare, quindi da una parte c’era lo scienziato, l’analista, dall’altra la psiche del paziente di cui bisognava scoprire le componenti come per esempio il sesso e l’aggressività. Nella psicoterapia si dovrebbe avere un rapporto dialogico con il paziente, l’analista non si deve porre di fronte all’altro come colui che sa, il soggetto supposto sapere di Lacan , ma tutti e due devono vedersi in un certo senso “come oggetto e soggetto contemporaneamente l’uno dell’altro”.