Leggiamo in La follia, il manicomio, la città che “La follia ci è tanto vicina da apparire il risvolto della ragione, così come la morte ci è così vicina da apparire il risvolto della vita; ma è altrettanto risaputo che né l’una né l’altra vicinanza ci sono gradite per il loro profondo potere conturbante, il loro unheimlich, e che riti ed istituzioni fanno di tutto per allontanarle e farle apparire cose-che-riguardano-gli-altri: la morte attraverso i rituali delle esequie e l’istituzione del cimitero, la follia attraverso i rituali della psichiatria e l’istituzione del manicomio” (p. 221).
Vale la pena soffermarsi su queste poche righe, che con laconica incisività sembrano condensare in meditata sintesi tanti e tanto importanti riferimenti culturali. Ricordiamo Chesterton, “il matto è colui che ha perso tutto fuorché la ragione”; ricordiamo il “si muore” di Heidegger; ricordiamo, più in generale, i tentativi di fuga nell’anonimato della migliore tradizione filosofica dell’esistenzialismo, da Kierkegaard a Sartre; e ricordiamo i saggi di Freud sull’arte e sul potere del conturbante, di quell’ unheimlich che per semantica strutturale richiama ciò che è familiare (Heim = casa, Heimisch = familiare) nel senso stesso della sua negazione (un = prefisso di negazione?). L’elenco dei riferimenti potrebbe proseguire ancora a lungo. Sarà tuttavia meglio arrestarsi all’unheimlich, maschera dietro cui si cela, eppur prende carne, l’enigmatico binomio morte-follia. Binomio in fondo inscindibile, se è vero, come vuole l’autore dei nostri saggi, che “la follia delira la condizione umana, il destino mortale” (p.222). Con il rimando all’ unheimlich scorgiamo nell’arte l’altra faccia della follia, di quell’angoscia inossidabile che giace più o meno sopita al fondo di ogni esser-ci dell’uomo, animale ferito e agonizzante nella sua universale mortalità. Il delirio ci appare allora il canto tragico di una musa smarrita nel suo mondo proprio, idìon che resiste al cosmòn; la depersonalizzazione, estremo traguardo di una modernità che prescrive l’oggettivazione impersonale come farmaco universale, efficace in medicina come in economia e pedagogia.
Con umiltà davvero esemplare e genuina preoccupazione, Del Pistoia s’interroga sull’opportunità di “guarire” l’artista dai suoi deliri e dalla sue immaginazioni in un saggio esplicitamente dedicato al concetto di cura in psichiatria. Per il genio creativo dell’artista “la scomparsa del delirio lungi dall’essere un successo è invece un disastro, dato che si è portata via con sé anche il cuore di quella persona e il cuore stesso della sua ragione di essere” (p. 149). Parola di psichiatra. Disarmante onestà intellettuale che apre problemi non solo terapeutici, ma anche e soprattutto di senso.
Se adottiamo un atteggiamento autenticamente fenomenologico, ovvero, se prendiamo riflessivamente distanza dalle teorie morali incorporate in automatico al nostro modo di pensare, ecco che l’interrogativo posto per l’esistenza estetica si estende a macchia d’olio anche su tutte le altre forme d’esistenza tradizionalmente ritenute bisognose di cura.
Paradigmatico il caso del borderline. Lo scritto Storia della nozione di borderline ha una strategica posizione centrale tra l’insieme dei saggi che compongono il volume. Citando Di Petta, l’autore scorge nel borderline “l’impossibilità di un’identità sostenibile…(..)…l’interlocutore pazzo di turno di questa umanità”. Se Bleuler diceva che non si trattava di decidere tra maniaco-depressiva o schizofrenia, ma di capire quanto dell’una e dell’altra ci fosse in ciascuno, la psichiatria di oggi torna a privilegiare, come ai tempi delle origini, una patologia unica, ma che, a differenza della psicosi decantata dalle origini, è per sua natura ambigua e resistente a ogni presa semeiotico-nosografica. “Il border lo si pensa al tempo stesso come psicopatico, nevrotico, psicotico e anche normale, senza però il disagio che avrebbe senz’altro provato la clinica categoriale” (p.142). A chi potrebbe sfuggire il peso di quell’”anche normale”, caduto lasciato cadere con studiata nonchalance, quasi mimetizzato al fondo di un elenco nosografico? L’umanità di turno “fra finzioni deliranti e fictions televisive ha perso il senso dello scandalo logico e dell’incoerenza del pensiero…(…)…ha perso di vista la «depravazione» sessuale delle ebefreniche nella media dei comportamenti sessuali degli adolescenti di oggi” (p. 142). E non è un caso che lo scritto in questione chiuda la serie storica delle nozioni del patologico in psichiatria, venendo così ad assumere una funzione di cerniera tra la retrospettiva semeiotica fenomenologicamente orientata offerta dalla prima parte del volume e i saggi più propriamente euristici della seconda sezione. Conclusa la panoramica storico-nosologica, l’autoriflessione critica inizia dalle Riflessioni sul concetto di curare in psichiatria e La nozione fenomenologica di immaginario. Quest’ultimo saggio è forse il più prezioso e istruttivo dell’inero mosaico, sia come esercizio concreto di fenomenologia ed esposizione dei suoi concetti chiave, sia anche, e correlativamente, come esplorazione delle dimensioni più universali e quotidiane dell’umana follia. In una quarantina di pagine di straordinaria intensità teorica e riflessiva, sulla nozione centrale d’immaginario s’intrecciano le voci di Husserl ed Heidegger, Sartre e Merleau-Ponty, sapientemente orchestrate attraverso l’ottica del maestro Lanterni-Laura cui è pure dedicato il saggio.
Piacerà, il libro di Del Pistoia, a tutti gli psichiatri, psicologi e filosofi impegnati a riflettere criticamente sulla malattia mentale, declinando in specificità prospettica un’apertura interdisciplinare. Non piacerà invece ai dilettanti, agli scettici e ai dogmatici di ogni rango e categoria: non piacerà ai neuropsichiatri dell’ultima ora che, aggrappati al cavallo galoppante delle neuroscienze e della psicofarmacologia, rimangono tuttavia abbagliati da un’idea ancora positivista del progresso, la stessa che impedisce di scorgere in prospettiva l’importanza di un inquadramento storico; non piacerà agli psicologi suscettibili e fanatici della disciplina, che si sentiranno forse un po’ schiacciati dalla verve fenomenologica decisamente poco incline allo psicologismo; certo non riscuoterà troppi consensi tra gli psicologi abituati a considerarsi unici depositari del messaggio di un Freud che in questi saggi veste piuttosto i panni di antropologo, psicopatologo e terapeuta; infine, il libro solleverà senz’altro obiezioni tra i filosofi speculativi e al momento piuttosto disimpegnati, che coglieranno al volo l’occasione per criticare l’approssimazione con cui vengono presentati alcuni concetti fenomenologici. Come a suo tempo fece Heidegger con l’opera di Binswanger. Ma come il pensiero binswangeriano non è un semplice fraintendimento della filosofia di un maestro, così i saggi di Del Pistoia non vogliono comporre il mosaico di una fenomenologia pura. Al contrario: citando Tatossian e Lanterni-Laura, l’autore sottolinea a più riprese come il rapporto tra psichiatria e filosofia sia sempre di reciproca implicazione, e che la prima non può mai ridursi a un’applicazione della seconda. Del Pistoia è un solido psichiatra, esperto e fiero della sua disciplina, sempre pronto a difenderla dal dilettantismo degli amatoriali e dalle banalizzazioni degli scettici, dagli assalti dell’antipsichiatria e dai rischi che corre quando vede nella fenomenologia la scorciatoia per evitare la semeiotica.
Evidenziate in corsivo troverete tesi in cui si condensano proposte avanzate dall’autore in parziale revisione di alcuni concetti classici in psichiatria; sono nozioni chiave e al contempo personali rielaborazioni di un sapere psichiatrico acquisito in 200 anni di storia, per questo particolarmente indicative dell’atteggiamento genuinamente fenomenologico dell’autore in questi suoi saggi.
Vorrei citarne almeno una: Non esiste terapia della follia senza teoria della follia. La tesi compare più volte e a diversi propositi, sia di polemica verso il facile empirismo da DSM e il preteso ateoretismo di tanti altri recenti indirizzi in psichiatria, sia a sostegno del legame strutturale della psichiatria con la filosofia e l’antropologia.
Quarant’anni di esperienza clinica si riflettono in un appassionato intreccio tra casistica e teoria, che in fondo è anche un’autobiografia intellettuale e un voler prendere posizione nella storia. L’ordine ben programmato in cui si dispongono i saggi accompagna il lettore in un percorso che è allo stesso tempo storico e personale, oggettivo e partecipato, imprevedibile ma rigoroso, com’è del resto nello spirito autentico della fenomenologia. Il viaggio inizia con incursioni nella storia dei concetti classici della psichiatria, si avventura nei meandri della soggettività delirante e si snoda al bivio del borderline; mantenendosi sempre in saldo equilibrismo tra sapere nosografico e ricerca esistenziale, approda al suo centro con il saggio sulla nozione fenomenologica d’immaginario e il contributo di Lanterni-Laura, per poi girarci in tondo nel successivo capitolo dedicato al rapporto tra follia, manicomio e città, e chiudersi con una breve nota autobiografica in memoria del maestro Fabio Visintini. Chiusura che si rovescia in apertura, sguardo al futuro, sottomissione al giudizio della storia: tensione (streben) generosamente sospesa tra passato e avvenire, attesa e memoria. Ed è proprio nelle ultime pagine che l’intreccio tra storia e biografia si stringe fino a trasformarsi in un nodo insolubile, come del resto annunciato dallo stesso titolo (Fabio Visintini: una pagina di storia della 180).
Nel primo trentennale della legge 180, Del Pistoia ha voluto offrirci una retrospettiva che va ben oltre la cronistoria degli ultimi decenni, che intende restituire il senso più profondo di una plurisecolare arte della cura. Risalendo alle sue radici moderne, l’autore esplora l’itinerario della medicina psichiatrica situandolo nel panorama ampio della storia. Qui il percorso della clinica e delle terapie non appare mai isolato, ma s’interseca con le rivoluzioni culturali e con le trasformazioni sociali, emergendone in un continuum di coimplicazioni ed influenze reciproche, feedback e reazioni anticipatorie. Sottratta al deserto nosografico e al facile eclettismo, la pratica psichiatrica diventa, pagina dopo pagina, una scienza viva, ancorché rigorosa. La sua storia procede al passo con l’antropologia e con la filosofia, e a marcarne le svolte sono le grandi rivoluzioni politico-sociali. La teoria dell’aliénation mentale di Pinel entra in dialettica con lo spirito illuministico dell’epoca, la dégénérescence di Morel con il clima di restaurazione conseguente al tramonto del sogno napoleonico, mentre le pretese ateoretiche dell’antipsichiatria nel dopoguerra sono anche una reazione alle strumentalizzazioni ideologiche dei precedenti regimi. Tuttavia, nulla è più lontano dall’ottica di Del Pistoia di una deduzione della storia della psichiatria dalla grande storia, che anzi l’autore esprime più volte un’aperta condanna nei riguardi di ogni interpretazione unilateralmente sociologizzante. Il forte vento polemico che dai saggi spira in direzione dell’antipsichiatria e della psichiatria sociale è dettato anche dall’urgenza di difendere la specificità della disciplina, di valorizzare un patrimonio acquisito con secoli di duri studi e ancor più dure esperienze, di salvaguardarlo da incursioni scettiche, semplificazioni spicciole e scorciatoie fin troppo comode. A un modello pseudomarxista, di derivazione univoca (struttura-sovrastruttura), Del Pistoia preferisce un’ermeneutica kuhniana, improntata al concetto di paradigma e scandita dal ritmo complesso di un’evoluzione storica a più dimensioni. Sullo sfondo di un percorso sapientemente orchestrato tra antropologia, clinica ed epistemologia, il senso della follia viene a poco a poco dispiegandosi nei suoi molteplici profili, dalla demenza precoce di Kraepelin alla schizofrenia di Bleuler, dalla nevrosi di Freud alla fuga delle idee di Binswanger, fino ad acquisire il suo volto attuale di patologia della libertà. Che però non è che una delle sue molteplici maschere, non più vera né più falsa del malfunzionamento organico o della possessione diabolica. Certo, di fronte alla più volte richiamata “inquietudine epistemica” dello psichiatra, la patologia della libertà un vantaggio sugli altri profili lo ha, ed è quello di costituire il punto massimo della comprensione della malattia allo stato attuale della disciplina. Si tratta però di un senso aperto alle evoluzioni future, e, soprattutto, di un senso che porta iscritta in sé la memoria di tutte le sue declinazioni passate, come un volto che nell’identità del suo profilo conservi i tratti di ogni espressione vissuta.
D’altra parte, il volto della psichiatria, che dall’insieme dei saggi arriviamo a scorgere così denso di espressività e palpitante, è anche simile a un’immagine gestaltica: non acquista senso se non dall’insieme delle parti e dalla relazione nel contesto. Così, se per un verso la psichiatria acquista un volto unico ed inderivabile attraverso la serie di evoluzioni storiche che le sono proprie, dall’altro ricava il suo senso profondo solo fuori dal campo stretto degli specialismi, nell’interregno delle possibilità epistemico-esistenziali, nella relazione sempre dinamica con il più vasto orizzonte dei significati umani. L’insieme delle proposizioni della grammatica acquista un senso solo nella grammatica della lingua; i tratti di un volto si rendono visibili grazie allo stacco dallo sfondo del quadro. In una dialettica gestaltica si risolve anche la tensione tra esigenze concorrenti che è avvertibile al fondo di ogni pagina, che impone al libro il suo ritmo e il suo andamento, e che è in fondo responsabile di uno stile del tutto peculiare. Mi riferisco alla tensione ispirata dalla necessità di affermare in un unico tempo l’irriducibile specificità del sapere psichiatrico e il suo intreccio costitutivo con l’antropologia, la filosofia, e, non last but not least, la concreta esperienza storica che di volta in volta la rende possibile. Grazie a questa tensione costante – che non va risolta e perduta, ma sapientemente gestita – il testo diventa prezioso e gradevolissima lettura sia per lo psichiatra di professione che per il profano con discreta cultura. Il primo guadagnerà la conoscenza storica della propria disciplina congiuntamente alla coscienza del suo senso profondo per l’umanità e all’esperienza vissuta di un grande maestro; il secondo potrà finalmente disporre di uno strumento che, con passione e competenza, lo accompagni nei meandri troppo spesso confusi della malattia mentale, senza trascurare le trasformazioni socio-antropologiche con essa necessariamente coimplicate.
Guardingo di fronte ai molteplici indirizzi del riduzionismo, Del Pistoia assume con esplicita chiarezza la propria ottica di medico psichiatra per puntare l’occhio esperto sulle patologie, e per contemplare, spaziando con lo sguardo oltre la sottile linea che separa la sanità dalla malattia, lo sterminato universo dell’umana follia. In questa panoramica, più ampia, certo, ma sempre ben centrata nella propria situatività prospettica, gli umori maniacali e malinconici s’incrociano con sentimenti vitali di Scheler, la dégénérescence moreliana si riflette nella saga dei Rougon-Macquart di Zola, il romanzo Les Gommes di Robbe Grillet diventa il migliore specchio del culto dell’ordine che domina il mondo dell’ossessivo, mentre la Francesca di Dante e i personaggi classici dell’amor cortese esprimono l’eidos possessivo ed idealizzante dell’erotomane, che, guidato da indomita gelosia e irrefrenabile desiderio, tende con tutte le sue forze a congiungersi all’amato. Mania e sentimento vitale; miseria e caduta del mondo umano in preda al gigantismo ascendente degli istinti nel grande affresco di Zola e nella dégénérescence di Morel; culto dell’ordine in Grillet ed ossessione patologica; erotomania ed amor cortese. Non si tratta di coppie fondate su analogie estrinseche, ma di connessioni strutturali emergenti da una radice comune di esistenza storicizzata, di un Dasein, che è anche, e più immediatamente, Mit-sein: l’umano darsi a un mondo che non si lascia possedere una volta per tutte come dato, ma che va piuttosto co-appreso nelle forme specifiche di un comune divenire. Mai banalizzata, sempre rincorsa nella sua inafferrabile storicità, l’esistenza mondana diventa la chiave attraverso cui si fa strada una delle tesi centrali del libro, ossia che la follia è una potenzialità intrinseca e costitutiva dell’essere umano.